La Nave – Ambrosio Zanotta 1921

la nave
Disegno di Riccobaldi per il film La Nave (1921) archivio in penombra

Rimanendo nella 4a edizione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone (1985), insieme a Consuelita del quale parlavo nel post precedente, tra gli eventi musicali del festival c’era nientemeno che la seconda versione cinematografica di La Nave di Gabriele D’Annunzio. Una produzione, o meglio una super-produzione della storica casa Ambrosio di Torino, aiutata nell’oneroso impegno dalla casa Zanotta di Milano, anno di grazia 1921. In realtà 1919-1921, due anni di lavorazione.

Le cronache dei tempi nostri affermano che fu un flop sensazionale, una crosta come direbbe un famoso storico-critico-ricercatore-attore, e nei ultimi tempi presentatore a Mediaset di cinema ritrovato (accidenti! anche lui con lo stesso titolo…). Vediamo invece cosa ci racconta un quotidiano dell’epoca:

La Nave al Cinema Modernissimo e al Quattro Fontane di Roma

Il commento cinematografico de La nave di Gabriele D’Annunzio segna indiscutibilmente una data nella storia artistica della cinematografia italiana. Si tratta di un lavoro che sia per il soggetto di grandiose proporzioni, sia per la qualità degl’interpreti, sia per la superba ricchezza della messa in scena, si impone alla considerazione del pubblico e — malgrado i suoi difetti — solleva le sorti della cinematografia.

Riservandoci di dare un accurato giudizio sulla grande evocazione dannunziana, riproduciamo quello del Tempo che, secondo noi, è fra i più esatti apparsi nella stampa romana.

« Questo commento cinematografico, secondo la definizione della Casa Editrice, alla tragedia d’annunziana, è fatto col più attento rispetto dell’opera del poeta e con la cura scrupolosa di non offuscarne mai gli intendimenti artistici; il che sarebbe certamente accaduto se la riduzione avesse concesso, per amore di più facili effetti, a quel gusto popolaresco da cui sono inquinate di solito le traduzioni cinegrafiche dei lavori letterali a sfondo storico o leggendario. C’è dunque nel commento un lodevolissimo senso di misura e di sobrietà, che costituisce la ragion prima della sua efficacia, e, in complesso, si può veramente affermare che, anche sotto l’aspetto cinematografico, La Nave sia un’opera riuscita. A nostro avviso, difetta però in essa la parte stilistica e formale: avrebbe cioè dovuto essere più studiata e intensa la tecnica cinefotografica (che è appunto la forma, lo stile del film e dipende quindi dalla direzione artistica) per corrispondere, pur con i mezzi diversi di cui la cinematografia si deve necessariamente servire, all’altezza, complessità e raffinatezza della forma letteraria di questa come di ogni altra opera dannunziana. La riduzione si sarebbe certo avvantaggiata da una maggiore ingegnosità di accorgimenti e di espedienti tecnici; da una più ricca virtuosità, insomma, di espressione visiva. Da cui sarebbe stato senza dubbio dissipato anche quel senso di squilibrio, che, talvolta, nonostante la dignità sostanziale delle scene e dei quadri, si stabilisce tra la perfetta letterarietà delle diciture, o titoli che dir si voglia, e il semplicismo meccanico con cui i quadri e le scene corrispondenti sono realizzati.

La interpretazione di Ida Rubinstein (Basiliola) è veramente ottima. Da Galaor, nella parte di Marco Gratico, avremmo desiderato una varietà e una forza di espressioni che mancano al gioco della sua fisonomia. Migliore, ci è parso, sotto questo aspetto, il Galvani (Sergio Gratico). Molto bene la Tarlarini nelle vesti di Ema. Discreti gli altri.

In conclusione, si tratta di uno spettacolo che ha molti elementi di bellezza e di nobiltà, e dobbiamo essere grati alla Casa Ambrosio (già benemerita, sotto tanti aspetti, della cinematografia italiana) di aver voluto e saputo far vivere anche sullo schermo il vibrante poema della celebrazione adriatica ».

Messa in scena, aggiungo io, D’Annunzio Gabriellino e Roncoroni Mario, operatore Narciso Maffeis.

Commento musicale Ildebrando Pizzetti. E fu con questa musica, eseguita la pianoforte, che i fortunati spettatori di Pordenone riuscirono a vedere e giudicare il film… 26 anni fa. Il prossimo passaggio quando? Altri 26 anni?

Puntata del 1° Festival dei Film Ritrovati, Restaurati, Invisibili, segue…

Spari e campane a festa 1911

Luigi Maggi
Luigi Maggi, interprete e regista dei film della casa Ambrosio

Ricominciamo il percorso per i film criminosi del 1911 con La dannazione di Caino, secondo titolo La maledizione di Caino, produzione Ambrosio, messa in scena di Luigi Maggi, interpreti Luigi Maggi, Giulietta De Riso. Delitto di gelosia in uno scenario rurale e neorealista, con il solito spettro tenace e vendicativo:

« Due paesani sono innamorati della stessa donna. Il primo, dopo essere stato da lei respinto, vede la calda accoglienza riservata al rivale e decide di vendicarsi su di lui. Costui, per tornare a casa, deve effettuare con il suo carro un lungo percorso su strade di montagna, e il primo, senza farsi scorgere, dà da bere al cavallo del secondo una pozione alcoolica; cosi che, durante il viaggio che porta il carro a sfiorare dei vertiginosi precipizi, il cavallo comincia a sbandare di qua e di là, e alla fine fa precipitare carro e passeggero giù per una scarpata sulle rocce sottostanti: e l’uomo muore. Nessuno sospetta la responsabilità del rivale nell’accaduto; e dopo qualche tempo questi riesce a far breccia nel cuore della donna e a fidanzarsi con lei. Ma comincia allora la sua punizione: dovunque vada, lo perseguita l’immagine dell’uomo che ha ucciso. Perfino durante la cerimonia nuziale, lo spettro si interpone tra la donna e l’uomo, che è sempre più terrorizzato. Lo spettro lo incalza, lo spinge a salire sulla montagna, lo fa ritornare nello stesso luogo in cui è avvenuto il tragico incidente: e qui egli mette un piede in fallo e precipita, trovando a sua volta la morte. »(1)

I delitti riposano per un paio di mesi, siamo in state. La ripresa delle programmazioni nel mese di ottobre porta sugli schermi una Romanza, diventata Santa (Santa Romanza appunto), produzione Cines, interpreti Fernanda Negri Pouget, Gastone Monaldi:

«Battista è l’assistente di un anziano chimico; durante il lavoro commette una grave imprudenza e dovrebbe essere licenziato, ma Bianca, la figlia del chimico, impietosita, interviene presso il padre e il giovane conserva il suo posto. Credendo che Bianca sia innamorata di lui, Battista tenta di abbracciarla, ma la ragazza lo respinge. La ripulsa provoca nell’animo dell’ingrato Battista un desiderio di vendetta: aggredirà il padre di Bianca e lo deruberà, approfittando dell’assenza della giovane, recatasi con il fidanzato a una festa.
Bianca però ha dimenticato a casa lo spartito di una romanza che deve cantare alla festa, e rientra con il fidanzato in tempo per difendere il padre dall’aggressione dell’assistente infedele: nella colluttazione con il fidanzato di Bianca, Battista rimane ucciso. Didascalia finale: «Se non fosse stato per la romanza…». (Da una visione del film)(1)

A proposito, che fine ha fatto il film? Se Bernardini e Martinelli dicono di averlo visto dovrebbe essere in qualche archivio.

Di La vendetta del morto, produzione Ambrosio, soggetto Arrigo Frusta, operatore Giovanni Vitrotti, l’unico interprete segnalato dalle cronache è Mary Cléo Tarlarmi. Ambientazione francese altolocata per la solita storia ispirata dal noto “ride bene chi ride l’ultimo” anche quando sei nell’ al di là:

«Come Gaston Lafont, l’ammalato, l’agonizzante, il morente, s’accorge che sua moglie lo tradisce col miglior amico, il medico curante, una piccola fiamma gli brilla nell’occhio, annebbiato dal male. Manda pel notaio, fa testamento e chiude le labbra ad un ostinato silenzio. A poco a poco le mani si fanno ceree, lo sguardo si spegne, i battiti del cuore diminuiscono. Gaston Lafont è morto. Così i due complici sono liberi finalmente e davanti loro brilla la felicità. E quando il notaio legge il testamento del defunto, nessuno dei due sospetta l’insidia.
«Lascio tutte le mie sostanze a mia moglie a condizione ch’ella si unisca in matrimonio col dottor Piero Baldi, il quale ebbe per me tante cure. In caso di morte di uno dei coniugi, al superstite passerà l’intera eredità.»
Ma il morto conosceva assai bene l’animo dei due colpevoli. E col loro matrimonio la sua vendetta incomincia. La felicità sognata dilegua come brina al sole. In breve, la vita per la povera donna diventa un inferno. Il dottor Baldi non è solo infedele, cinico, dissipatore, ma brutale e violento. E un pensiero l’assilla: in caso di morte di uno dei coniugi al superstite passerà l’intera eredità. Così medita il delitto: con mano ferma versa un potente veleno nel bicchiere della donna e, sorridendo, le porge a bere. Ma la donna ha visto l’atto delittuoso. Come la vita è ormai intollerabile, accetta la morte, e senza batter palpebra, beve fino all’ultima goccia. Poi, appena l’assassino le volge le spalle, con un affilato pugnale, mortalmente lo ferisce. La vendetta del morto è compiuta!». (1)

Il convegno supremo, altra produzione Ambrosio, soggetto Frusta, messa in scena Luigi Maggi, operatore Giovanni Vitrotti. Pure questo ambientato in Francia, stesso ambiente altolocato, epoca imprecisa, ma dalla presenza di una “chanteuse” di caffè-concerto, una sciantosa direbbero in Italia, potrebbe essere il 1911:

« Marcello di Valery, un giovanotto molto elegante e mondano, frequentatore dei salotti più aristocratici, è travolto dalla passione per Gaby, una chanteuse di caffè-concerto, una «piccola donna molto bionda, molto pallida, colle labbra aperte sempre a un enigmatico sorriso di sfinge» e non va più a divertirsi con gli amici. Una sera, tra gli omaggi inviati alla chanteuse dai suoi ammiratori, nota un costosissimo canestro di orchidee, inviato da un inglese, un certo «Harry Pendali»; e la sera stessa segue Gaby – che, con il pretesto di un forte mal di testa, lo aveva congedato – fino al villino dove abita lo straniero. Dopo una notte di attesa, quando all’alba la donna se ne va sulla sua automobile, Marcello affronta il rivale e lo sfida a duello. Prima di lasciarsi, l’inglese si accorda con Marcello perché, chi di loro sopravviverà, si incarichi di punire la donna da cui entrambi sono stati traditi. E’ Harry a rimanere sul terreno, ucciso. La sera stessa, Marcello manda a Gaby, che nulla sa di quanto è avvenuto, un invito a cenare a casa sua: al termine, le offre un grappolo d’uva, porgendole gli acini con le proprie labbra; le racconta intanto la storia del loro amore, rivelandole come l’uva che stanno mangiando sia stata da lui stesso avvelenata. «Gaby, atterrita, balza in piedi, e manda un urlo. Marcello l’afferra, l’abbraccia, la stringe forte: ‘Sì, mormora, sì, dobbiamo morire; dammi le labbra!’».

Veramente non capisco come Mary Cléo Tarlarini abbia potuto incarnare la « piccola donna molto bionda » (data un’occhiata alla foto pubblicata nel primo post della serie criminale 1911).

La fertile e criminosa immaginazione del reparto sceneggiature della Società Ambrosio non si ferma davanti a nulla scomodando persino le feste natalizie. Tutto va bene per il botteghino. In Natale tragico la coppia Tarlarini-Capozzi si rovina a vicenda le feste con un misto di adulterio, gelosia e la solita vendetta, che in questo caso finisce in auto-martirio:

« In occasione del Natale, la contessa Giuliana di Rosalba attende dal marito il regalo di una collana, e l’uomo esce di casa per fare l’acquisto. La contessa prova dentro di sé un sentimento di rimorso, perché sa di non essere degna di un marito così devoto e affettuoso: ella ha infatti un amante. Quando il conte rientra in casa con la collana, trova la moglie già addormentata e, ascoltando le parole sconnesse che ella pronuncia nel sonno, scopre il suo adulterio e in un cassetto trova la lettera «infame» che ne costituisce la prova. Corre allora a prendere la rivoltella, chiedendosi cosa fare: uccidersi? ucciderla? Pensando, immagina una vendetta ancora più tremenda. Nell’astuccio che ha portato a casa sostituisce la collana con la rivoltella carica, con la lettera ‘infame’ e con un biglietto.

Giuliana si sveglia nel cuore della notte, al suono delle campane che annunciano il Natale; scesa dal letto, vede l’astuccio sul tavolo, lo apre, e alla fine comprende e allibisce, leggendo: «Tuo marito sa tutto ed ecco la condanna che egli stesso vuole ch’io esegua di mio pugno!». «Giuliana è troppo fiera, pur nella sua colpa. Bisogna morire. E sa darsi la morte coraggiosamente. Il corpo dell’adultera stramazza sul tappeto, mentre l’eco della rivoltella si diffonde nella notte solitaria unendosi al clangore festante delle campane…»

Mi pare molto interessante l’introduzione dei due elementi sonori come epilogo della storia: l’eco della rivoltella che si diffonde mischiato al suono delle campane…

E adesso basta, sospendiamo per qualche post queste cronache del crimine per darci alla pazza gioia. Vi racconto in un paio di giorni.

1. Aldo Bernardini, Vittorio Martinelli, Il cinema muto Italiano 1911 – I film degli anni d’oro; Biblioteca di Bianco e Nero – Centro Sperimentale di Cinematografia 1996.

Vittime e carnefici 1911

Mary Cléo Tarlarini 1911
Mary Cléo Tarlarini 1911

La carriera dei delitti al cinematografo prosegue imperterrita nel 1911, in mezzo alle comiche, i film storici, i drammi, L’Odissea, La caduta di Troia, e l’Inferno di Dante.

Il primo titolo dell’annata dovrebbe essere questo soggetto surrealista di autore ignoto, prodotto dell’Aquila Film di Torino:

Entusiasta per la Mano Nera
«Due tipi incontrano un giovane al quale estorcono del denaro. Questi crede di essere stato vittima di una donna, che invece è un manichino. L’assale per farsi ridare i soldi, ma poiché questa non reagisce, l’uccide.»
(Herbert Birett: Das Filmangebot in Deutschland 1895-1911, Filmbuchverlag Winterberg, 1991)(1)

Le domande non mancano: Si può uccidere un manichino? Si finisce in galera per un delitto simile? Dov’è la Mano Nera in questa storia?

Molto interessante, moderno e fantascientifico il soggetto di Dovere professionale, produzione Cines, autore, regista, interpreti sconosciuti:

« Carlo, figlio del professar Aubin, si rovina per i capricci e le prodigalità della sua amante Dilj; egli precipita dal gioco nel delitto, assassinando un amico che gli ha vinto una forte somma. Le ricerche dell’assassino sono difficili, tanto che le Autorità incaricano il prof. Aubin, padre di Carlo, di eseguire un esame microscopico dell’occhio della vittima per rintracciarvi, possibilmente, l’immagine dell’assassino, secondo i principi di una ben nota teoria scientifica. Il terrore e la disperazione del professore sono al colmo: egli ha visto l’immagine di suo figlio nella retina della vittima. Fedele al suo dovere professionale e malgrado il disperato dolore, denuncia il figlio alla giustizia, ma mentre questo accade, Carlo straziato dal dolore, va a consegnarsi egli stesso al Commissario di polizia. »(Cinema, 5 febbraio 1911)

Lo stesso mese di febbraio, grande ritorno dell’Ambrosio con Il domino azzurro, racconto morale per commesse birichine, interpreti Giuseppe e Lina Gray, Gigetta Morano, Mario Voller Buzzi, operatore Giovanni Vitrotti:

« E’ carnevale. La padrona chiama Mimì, le consegna lo scatolone in cui ha chiuso il bel domino azzurro e le ordina di portarlo a casa della signora Mathieu, la moglie di un banchiere. Mimì è di pessimo umore, è l’ora di chiusura del negozio e il suo Luciano, uno studente, l’aspetta all’angolo della via per trascorrere con lei la serata: e lei deve invece perdere un’ora per quella consegna. Poi incontra Luciano e decide di fare assieme a lui la commissione. La signora Mathieu intanto aveva combinato di andare al veglione con l’amante, in assenza del marito: ma, sospettando che quest’ultimo, uomo molto geloso e violento, sia tornato di nascosto, si impaurisce e avverte l’amante che rinuncia a uscire. Rimanda dunque indietro il domino. Così Mimi si ritrova di nuovo con Luciano e con lo scatolone da riportare al negozio: ma è già chiuso. I due innamorati hanno allora un’idea: Mimì indosserà il domino e andrà lei stessa con Luciano al ballo mascherato. E così avviene. Ma il marito tradito, che – messo sull’avviso da un biglietto – aveva seguito di nascosto la
moglie quando era andata al negozio a scegliersi il domino, interviene a sua volta al ballo e attende l’ora della vendetta: quando, fra le maschere, vede comparire il domino azzurro, credendo che vi si celi la moglie colpevole, estrae una rivoltella e spara. La povera Mimi stramazza a terra, ferita a morte. » (La Vita Cinematografica, 15 febbraio 1911)

Del soggetto Nella camorra, produzione Ambrosio interpretata dalla consolidata coppia Capozzi-Tarlarini, accompagnati da Luigi Maggi e Oreste Grandi, non sappiamo l’autore, ma l’argomento ricorda altra produzione Ambrosio di qualche anno prima:

« Sciancatello odia a morte Cicce O’ Guaglione, forse perché è un pezzo d’uomo alto e tarchiato, forse perché è un camorrista famoso: certo perché si beffa di lui quando lo intoppa a basso porto o all’angolo della strada. Però appena s’accorge che O’ Guaglione se l’intende colla Nunzia, la moglie di Pasquale, corre in piazza e senza tanti preamboli dà a Pasquale la… buona novella. Pasquale urla a strepito, non vuol crederne un accidente; ma finisce di chiudere in core il sospetto e l’amarezza. Passa qualche tempo e un mattino Sciancatello è trovato morto nella strada, con un coltello piantato nelle reni. La giustizia per certi suoi sospetti arresta O’ Guaglione e te lo caccia dentro. Pasquale respira. Gli pare che l’incubo svanisca a poco a poco e che piano piano s’allenti la stretta della gola. Ma è breve respiro il suo. Una lettera che O’ Guaglione scrive dal carcere a Nunzia, lo ricaccia a terra. Dice la lettera: “Vieni a notte fonda e canta Marechiaro. Poi guarda se una funicella scende abbasso. E attaccaci un buon coltello…” A notte fonda una voce s’alza di sotto le mura del carcere, una voce melodiosa e calda che dice dolcemente le note della canzone; ma d’un tratto la melodia si cambia in un urlo di spavento, poi in un rantolo di morte. La pattuglia di guardia accorre ed arresta Pasquale, che ha accoltellato la Nunzia.
Così i due rivali si rivedono nel carcere. Ed è il loro un incontro tragico. Un breve insulto, una lotta feroce. E O’ Guaglione rimane disteso a terra, contorcendosi e lamentandosi. Pasquale si rialza e gli grida: “Quattro dita di lama nel fianco fra la terza e la quarta costola, anche a te, come a lei, com’a Nunzia!”.» (Cinema, 5 marzo 1911)

Il film viene accolto malissimo dalla stampa: “Purtroppo al di là delle Alpi l’eco delle nostre cronache cittadine ha una ripercussione dolorosa; perché a tanto voler aggiungere la prova quasi lampante e materiale del come avvengono presso da noi i delitti, e quali le cause che generano gli stessi nella bassa classe del popolo? Camorra è, dunque, una pellicola destinata… al cestino, e ciò mi dispiace dirlo, per la casa Ambrosio che tanto ha fatto per la riuscita della film che, come dissi al principio, artisticamente vale… e molto” (La Vita Cinematografica, 15 marzo 1911)

Ma Don Arturo (Ambrosio) non è così convinto di dover buttare al cestino questo tipo di argomenti molto produttivi al botteghino, e insiste con Dalla colpa all’amore (Scene della mala vita), soggetto di Arrigo Frusta, operatore Giovanni Vitrotti:

« ‘O Mandriere ha pensato: – Ecco il piano. Ti prendo ‘a Concetta e te la vesto come una principessa, A Napoli non ci stanno donne più belle. E’ bella come il sole, come la Madonna! Poi te la caccio sulla strada del banchiere, e su e giù, e giù e su, se il banchiere non ci casca, ch’io possa morire ammazzato! Quando il giovinotto e Concetta se l’intenderanno al resto ci penso io…
‘O Mandriere ha fatto bene i suoi calcoli. Ora la Concetta è l’amante del Castoldi, il richissimo banchiere di Piazza Nova, e ne conosce tutti i segreti e tutti gli interessi. I colpo è semplice e ardito. Il Castoldi usa portare lui stesso le somme per le operazioni che fa la sua banca. Che ci vuol molto ad aspettare un uomo nell’ombra di una cantonata, piantargli quattro dita di ferro in core, toglierli il pacco dei quattrini e far vela per ignoti lidi?
Ma Concetta, la spia, che accompagna il giovane banchiere, come si avvicina allo svolto dov’è stato concertato l’agguato, sente qualcosa che le urla dentro: No! No! No! Pare che una mano le apra a forza le labbra, e che una volontà superiore le cacci fuori le parole affannose: No, basta, ti vogliono assalire…
Castoldi afferra la rivoltella e quattro figuri spariscono nell’ombra. Che forza ha fatto parlare Concetta? L’amore! E l’amore l’ha redenta.
Il giorno dopo Concetta viene trovata irrigidita, inzuppata di sangue, ai piedi di un fanale, con quattro dita di ferro piantato in core.
Forse la coltellata destinata al banchiere Castoldi.» (La Vita Cinematografica, 30 aprile 1911)

Il saggio Ernesto Maria Pasquali, che ha lanciato con successo la serie Raffles, gentiluomo ladro, tanto per dimostrare che i delitti non hanno patria ci propone I delitti americani:

« Hubert, dopo 25 anni passati a far fortuna in America, ritorna in patria per riabbracciare la figlia, che lasciò in tenerissima età. Sbarcato a Le Havre, si dirige verso Bordeaux: ma mentre in una stazione attende l’arrivo del treno, è individuato da un truffatore, che lo avvicina e gli fa raccontare la sua storia; con un pretesto l’uomo guida Hubert a visitare le bellezze dei luoghi e lo fa cadere in un precipizio, dopo avergli sottratto il portafoglio e i bagagli. Può cosi presentarsi a casa della figlia facendosi passare per il padre. Ma il delitto ha avuto un testimone, che a sua volta intende approfittare della situazione, ricattando l’impostore. I due malfattori trionferebbero dell’inesperta giovinetta, se non intervenisse a difenderla il fidanzato, che, giocando d’astuzia, sventa i loro piani per impadronirsi delle sostanze della ragazza e li consegna alla giustizia. »(Arte y Cinematografia, Madrid (sic. Barcellona), n. 17, 30 mayo 1911) (1)

Un momento. C’è qualcosa che non va. Il titolo dovrebbe essere: I delitti francesi. Cosa c’entrano gli americani?

L’argomento di Odio di gitana, prodotto dalla Milano Films, sulla carta, mi sembra troppo convenzionale:

« Un gitano ha installato la propria carovana davanti al ricco castello del conte d’Auriaz, nelle cui terre va abusivamente a caccia. Un giorno però viene sorpreso dal conte, il quale, indifferente alle preghiere della moglie dello zingaro, lo fa arrestare e condannare alla prigione. Gina, la gitana, giura però di vendicarsi e, senza perdere tempo, si dirige verso la città, dove trova occupazione come modella. Grazie a questa sua nuova occupazione, un giorno viene presentata al conte, il quale, non avendola riconosciuta, s’innamora perdutamente di lei e per lei si rovina. Un giorno, scoraggiato, porta un ennesimo regalo alla modella, una superba collana di perle: la modella però sembra prendersi gioco di lui e del prezioso dono. Mentre il conte se ne va, si presenta da Gina il figlio di lui, che, ammaliato a sua volta dal suo fascino, le offre dei fiori: la donna li accetta, perché il giovane visconte deve essere lo strumento della sua vendetta. Un’idea diabolica infatti la ispira: approfittando delle dimostrazioni d’amore del giovanotto, gli introduce in tasca la collana avuta in dono. E appena il visconte la lascia, avvisa il commissariato di polizia di essere stata derubata dal visconte, sollecitando indagini. Il visconte viene arrestato, mentre il conte, credendo il figlio colpevole, si uccide. «La modella, rivestitasi dei suoi abiti di gitana, assiste all’arresto, gustando odiosamente la vendetta che fu completa».» (La Vita Cinematografica, 30 maggio – 5 giugno 1911)

Completa? La scena finale sarebbe questa: Il visconte va in galera, quindi il marito della gitana e lui s’incontrano. Che fanno? Giocano a carte?

Per l’ambizione di una donna, produzione Cines, giugno 1911, che dovrebbe cambiare titolo in Vittima del successo:

«Il poeta Avani, all’inizio della sua carriera artistica, è avversato nei primi lavori d’arte dal re della critica teatrale Guglielmo Berti: i suoi primi slanci cadono miseramente dinanzi agli articoli del critico. La signora Avani, ambiziosa di essere ossequiata moglie di un grande autore, cerca di agevolare la pericolosa salita al marito; ella, incosciente della propria leggerezza, nell’assenza del marito va a trovare Berti nella sua casa, mentre trovasi in convalescenza per una ferita riportata nel duello col di lei marito. Il fascino, la seduzione della donna vincono l’anima del critico; egli si offre schiavo del desiderio e della volontà di Emma e con nuovi articoli prepara un nuovo radioso avvenire al poeta. In questo lavoro di preparazione Emma cade inconsciamente nell’amore di Berti e compra a prezzo del suo onore la gloria del marito. Il marito torna a Roma e va in scena una sua tragedia, che grazie all’aiuto di Berti ha una felicissima riuscita; ma un biglietto di Emma sorpreso da Avani rivela il valore di quella vittoria. Avani dietro le quinte (mentre gli attori recitano il suo lavoro) aggredisce Berti, che si difende. Interviene Emma e Avani l’uccide. Quando il pubblico chiama l’autore i comici si trovano avanti a quella scena d’orrore. » (Cinema, 5 giugno 1911)

Molto diverso è il personaggio della protagonista femminile di La tigre, produzione Ambrosio, ancora Tarlarini-Capozzi, Gigetta Morano che interpreta la vittima innocente, messa in scena di Luigi Maggi:

«Come Nerina, l’Altera, l’Adamantina, la Vergine forte, apprende il matrimonio dell’amica Beatrice con l’irresistibile Sandri, le pare che una lama di pugnale le squarci il cuore. Tale è lo spasimo che la vita s’oscura e i polsi rallentano il ritmo. Ma a poco a poco lo spirito indomito riprende il sopravvento e Nerina con calma e freddezza studia il suo piano: riconquistare l’amore di Sandri, portare via con arte sottile il fidanzato all’amica. Il fingere non le costerà molto. Nerina è maestra in quest’arte. Un invito per le nozze giunge in buon punto per facilitarle il principio dell’impresa. Cosi, ospite nel castello di Beatrice, Nerina può avere un colloquio con Sandri. Ma il giovane respinge con sdegno le parole e le profferte. Nerina è vinta. La ferita nell’intimo si è riaperta e l’irreparabile la fa soffrire più crudamente. Nel suo pensiero s’afferma l’idea del delitto. Come il felino si nasconde tra le alte erbe della giungla ed attende le ombre per azzannare e ferire, Nerina esce cautamente la notte dalla sua camera. Striscia pei corridoi, dove la fiammella saltellante della candela getta strani grovigli di lume e d’ombra, giunge nella camera di Beatrice, reprime il battere del sangue nelle vene, ascolta il respirare tranquillo della dormente e con pensiero risoluto accosta la fiammella della candela alle cortine. Dopo un po’ le fiamme divampano altissime. Ogni soccorso è impossibile. E, sicura nel suo covo, la tigre gode l’impunità.
Dopo un anno Nerina sposa l’irresistibile Sandri. Dalle corbeille di nozze prende un mazzo di rose e col marito va a deporlo sulla tomba dell’amica morta. La tigre insaziata ha voluto dare l’ultima zannata. » (Bollettino Ambrosio)(1)

Manca un finale tipo Carrie di Brian de Palma e siamo a posto.

Facciamo una pausa per ascoltare, in questo caso per leggere nel prossimo post l’eco delle proteste dei difensori della morale.

Alla prossima!

1. Aldo Bernardini, Vittorio Martinelli, Il cinema muto Italiano 1911 – I film degli anni d’oro; Biblioteca di Bianco e Nero – Centro Sperimentale di Cinematografia 1996.