Visioni bibliche sulle rive del Po

Giuditta ed Oloferne 1928
Giuditta ed Oloferne, messa in scena di Baldassarre Negroni, operatori Ubaldo Arata e Massimo Terzano, interpreti principali Jia Ruskaja, Bartolomeo Pagano, Franz Sala

Le poche persone che l’altra sera si trovavano al Villaggio Coloniale dell’Esposizione, godettero, senza aspettarselo, di uno spettacolo insolito.

Il villaggio era, o sembrava, già addormentato. Le capanne somale ed eritree, le costruzioni libiche, si erano fasciate di ombra e di silenzio. Solo nei viali, le grosse lampade brillavano, gettando fasci di luce fredda sui candidi intonachi e sui tetti di stoppia. Di tratto in tratto s’intravvedeva lo scivolare rapido di un barracano o lo spostarsi lento dell’alta e sottile figura di un ascaro. Sotto i portici del mercato, da una tenda abbassata, usciva il tamburellare monotono di una nenia araba, che scendeva lenta sul paesaggio immobile, quasi a conciliare il sonno.

Era l’ora in cui è possibile trovare nel Villaggio Coloniale, l’illusione esotica dell’Africa mediterranea ed orientale. Ed ecco che questa illusione cominciò a divenire quasi realtà. Dall’ombra cupa delle viuzze giunse qualche rumore strano ed un misterioso parlottare sommesso. Poi si profilarono delle ombre, che presero corpo avanzando e comparvero delle figure gigantesche, dal torso nudo, con un gonnellino ricamato e multicolore, stretto ai fianchi da una cintura d’oro e con un cerchio d’oro intorno ai crani lucidi e rasati. Innanzi a loro, dondolante e ancor deforme, per l’oscurità, la sagoma di un cammello insonnolito.

Il silenzio era tornato. Ed in silenzio la carovana procedette verso l’uscita del corso Sicilia, ove tra le case ed il fiume nel largo triangolo coperto d’erba e di cespugli, la tranquillità della notte era stata improvvisamente violata da una scena curiosa e a prima vista indefinibile.

Nella radura erbosa, alcune tende erano state rizzate. Tende curiose, altissime e rotonde, fatte di tela variopinta, quali venivano usate dai più antichi eserciti. Ed infatti intorno ad esse gironzolavano strani guerrieri, con lucenti corazze sulle corte tuniche, con bizzarri elmi piumati e lunghe lance, dalla punta larga e dentellata. In disparte, poi, un gruppetto di donne, dalla carnagione dorata e le lunghe trecce chiuse in diademi, immobili e silenziose, avvolte in lunghi mantelli di lana a strisce bianche e rosse.

Lo spettacolo era sconcertante, ma lo diveniva ancora di più, allorché si guardava dalla parte opposta. Di qui non più figure antiche, ma agitarsi di signori con la paglietta e di operai scamiciati, intorno a strane macchine poste su cavalletti e ad un grande autocarro, il cui motore di tratto in tratto brontolava rapido e convulso, scatenando lampi di luce accecante da dieci riflettori, posti un po’ ovunque e che da esso ricevevano l’energia elettrica.

L’illusione dell’Oriente misterioso veniva diminuita da questa seconda scena e finì del tutto allorché si vide correre in lungo e in largo la caratteristica figura del conte Negroni, che forniva con la sua presenza la spiegazione dell’arcano. Il conte Negroni, famoso direttore artistico cinematografico, spiegava senza parlare la ragione dello spettacolo insolito. Si trattava indubbiamente della “presa” di un film, e le strane macchine su cavalletti, intorno alle quali si affaccendava l’operatore, erano macchine cinematografiche.

Dai dintorni, accorreva la folla degli abitanti, sorpresa e incuriosita. Non è di tutti i giorni la possibilità di vedere come si “gira” una scena cinematografica all’aperto e la novità metteva in allegria gli spettatori che seguivano con attenzione tutti i preparativi. Si viene a sapere che la sponda destra del Po diverrà momentaneamente paesaggio biblico, perché biblico è il dramma che rappresenterà il film. In cinematografia tutto è possibile, anche tramutare in ambiente orientale la parte trascurata di un corso cittadino.

Un mormorio di sorpresa ed ammirazione saluta l’apparire della “diva” che sotto un ricco mantello moderno nasconde il leggero e scintillante costume orientale carico di gemme e di ornamenti. Nella gerarchia cinematografica il primo posto è tenuto dal direttore artistico, il secondo dall’operatore e il terzo dalla stella o dal primo attore. Ma per il pubblico ha importanza soltanto l’attrice o l’attore, perché sono quelli che lo commuovono o l’esaltano allorché appare sullo schermo. Vederne uno in persona è quindi un privilegio. Nel caso presente, poi, gli spettatori occasionali sono ancora più lieti, perché possono ammirare da vicino una prima attrice che fa la sua apparizione nel cinematografo dopo aver furoreggiato sulle scene dei massimi teatri con l’arte della sua danza mirabile. La “diva”, infatti, che dovrà impersonare una famosa figura biblica, è la celebre danzatrice Jia Ruskaja.

Essa rappresenterà Giuditta e dovrà tagliare la testa ad Oloferne. Ma la folla di corso Sicilia non vedrà tanto. Le scene che si devono girare comprendono la partenza di Giuditta verso il campo nemico e l’arrivo in esso. I preparativi vengono ultimati; le macchine da presa a posto, i riflettori in posizione giusta. Echeggiano gli ultimi ordini e le raccomandazioni del conte Negroni. Il pubblico tace. Soltanto il motore brontola quasi ad illustrare lo stato d’animo tragico della vedova vendicatrice.

Jia Ruskaja, pardon, Giuditta, prende commiato dai suoi, e, avvolta in un ampio mantello azzurro, sale sul cammello, che avanza lento e dondolante sullo sfondo cupo del cielo, fra i cespugli e l’erba alta. Segue la fida serva a piedi. L’illusione rinasce. Poi la scena si interrompe. Altri preparativi, altri ordini, apparire di nuovi personaggi.

Un’altra scena viene “girata”. In fondo, le tende coniche del campo di Oloferne. Gli eritrei, con le torce in mano, rigidi come statue, illuminano lo spettacolo. Giuditta giunge sul cammello, il quale si inginocchia sulle zampe posteriori e poi si accascia al suolo, perché la donna possa scendere dalla sua groppa. Una fila di soldati sbarra il passo alla visitatrice. Si avanza un ufficiale dalla elegante corazza e dall’elmo monumentale. « Chi sei, cosa vuoi? » « Sono Giuditta, conducimi da Oloferne ». L’ufficiale scruta diffidente la donna impassibile; poi si decide: « Vieni! ». Giuditta passa attraverso i soldati ed entra nel campo nemico. La scena termina ed il pubblico, che aveva trattenuto il respiro, commenta allegramente. Infatti non è che una finzione. Ma domani sullo schermo, la stessa scena sembrerà realtà e commuoverà gli spettatori che hanno assistito al meccanismo della “presa” del film.

Jia Ruskaja riprende il mantello moderno e sale sull’automobile che la condurrà in albergo. Gli attrezzi vengono smontati, caricati sull’autocarro e la zona ripiomba nelle tenebre. Gli eritrei ed il cammello rientrano nel Villaggio Coloniale. La folla si scioglie soddisfatta e il paesaggio biblico ridiventa la sponda destra del Po.

C. P.
(dalla Gazzetta del Popolo- Il Corriere Cinematografico, Torino 4 agosto 1928)

Beatrice Cenci – Pittaluga Film 1926

Beatrice Cenci 1926
Una scena del film

Torino, settembre 1926.

Il personaggio di Beatrice Cenci, figura viva della nostra storia lontana, già più di una volta aveva attirato l’attenzione di direttori artistici dello schermo, ai quali non sfuggiva la constatazione del grande lavoro che con essa protagonista  si sarebbe potuto ricavare. Ma anche quelli che, dopo molta esitazione e molto studio si erano accinti alla grande prova, sempre avevan poi piegato di fronte ad uno o l’altro ostacolo presentandosi improvvisamente dinanzi.

Luciano Doria, soggettista di grido e tra i migliori italiani, non ha invece esitato punto a trattare il difficile argomento allorquando la Pittaluga-Film gliene propose la sceneggiatura. Alacremente  studiando, in breve volger di tempo egli è riuscito ad approntare un copione dalle linee grandiose e che, pur presentando il fatto storico della vita di Beatrice Cenci, svaria in una infinità di particolari, i quali, anche se la storia non ricorda, certo non hanno potuto a meno di integrare l’esistenza travagliata della bella figlia del Cenci. Questo soggetto affidato alle cure di un direttore artistico sperimentato quale è il Conte Baldassarre Negroni e con protagonista la nostra bella Maria Jacobini, non poteva a meno di far prevedere la creazione di un nuovo lavoro, non solo degno del massimo rispetto, ma destinato certo a lasciare una impronta duratura nell’arengo cinematografico nostro ed internazionale, oltre che segnare poi in maniera  particolare una bella nuova vittoria per Maria Jacobini.

Ricostruite con attenzione massima e ricerca assoluta del particolare negli stabilimenti di Madonna di Campagna i quartieri popolari della Roma Papale del XVI Secolo, l’interpretazione vera e propria del soggetto ha richiesto quattro mesi ininterrotti di lavoro.

La ricostruzione e le scene sono opera pregevolissima di due noti scenografi italiani, di cui il primo già alla Pittaluga-Film da parecchi anni, Giulio Lombardozzi ed il secondo, Domenico Gaido, giuntovi in questi ultimi mesi appunto per la realizzazione di Beatrice Cenci a fianco del collega.

Dell’interpretazione del film, data la presenza nel complesso artistico di Maria Jacobini è quasi ovvio parlare, giacché la programmazione del film è già stata iniziata.

Ma anche gli attori, considerati ciascuno particolarmente a se, dicono alto il valore che può assumere un ruolo affidato alle loro cure.

Franz Sala, Raimondo Van Riel, Gemma De Santis, Maria De Valencia, Lillianne Lill, Caterina Collo, Ida Morus, Nino Beltramo, Celio Bucchi per non citare che i primi del lungo elenco, possiedono già tutti una spiccata personalità di fronte al pubblico, il quale quindi, con gli interpreti di Beatrice Cenci non si trova di fronte ad attori nuovi, bensì va incontro a cari amici, a figure già molto favorevolmente note della nostra arte muta.

Di Beatrice Cenci però, mentre si ottiene il giudizio italiano è già stata iniziata la vendita all’estero, ed esso (a parte la grande attrazione destata per la nuova grande interpretazione della regina delle dive del nostro schermo, Maria Jacobini), per il soggetto in se, molto rapidamente ha avuto un esito ottimo. La figura leggendaria della sfortunata figlia del Cenci, passata alla storia per la crudeltà del padre e per quanto di lei scrisse il grande Stendhal nel secolo scorso e più recentemente, in Italia, Corrado Ricci, non ha mancato di suscitare viva attenzione, tanto più poi che ancor oggi, a distanza di secoli, non si è certi nell’affermare che la dolorosa fanciulla abbia avuto veramente parte all’uccisione del suo perverso padre.

La figura di Beatrice, che viene presentata nel film interpretato da Maria Jacobini, ha assunto un aspetto di martire, quello cioè che pare più attendibile fra le due versioni storiche, ed accertante l’innocenza della donna, mentre in tutto il lavoro e poi il susseguirsi ininterrotto delle passioni torturanti e delle speranze vane nel domani di una donna dalla bellezza fatale.
(da Films Pittaluga)

Intervista con Baldassarre Negroni, maggio 1915

Baldassarre Negroni
Baldassarre Negroni

Era a me noto che il conte Baldassarre Negroni si trovava a Roma e a dir la verità non volevo lasciarmi sfuggire la felice combinazione di incontrarmi con l’uomo che ha tanta e indiscussa autorità nel campo della Cinematografia italiana; senza tanta difficoltà la cortesia di lui mi permise di potere avere un colloquio.

Non appena ebbi il piacere di stringere la mano al conte Negroni, questi mi disse:

— Già so il motivo per il quale ella viene a me…

— La importuno forse?

— Tutt’altro: mi offre l’occasione di esprimere il mio plauso a La Tribuna che molto opportunamente ha pensato di dedicare le autorevoli colonne del giornale alla nostra industria della quale finora si sono soltanto occupate le riviste professionali le quali non avendo la diffusione di un quotidiano, non hanno potuto mettere in più diretto contatto la Cinematografia e il pubblico che a questa nuova manifestazione d’arte tanto s’interessa.

— Mi dica di grazia, la Cinematografia è arte o industria?

— È l’una e l’altra è… un’altra cosa ancora: commercio. L’industria prepara il complicato e ingegnoso canovaccio sul quale poi si dovrà tessere l’arte; il commercio porta il lavoro artistico a contatto col pubblico.

— Secondo lei, prevale l’arte o l’industria ?

— Indubbiamente l’arte: il pubblico osserva e giudica l’arte non l’industria; spesse volte mi è capitato di sentire nelle sale di proiezione certe osservazioni mosse dal pubblico (e il pubblico è sempre intelligente) che a dir vero avevano molto fondamento. Però è bene si sappia che non si può fare vera arte e ciò per molte ragioni; principale fra tutte quella finanziaria. Con ciò non si deve intendere che non vi siano Case che possono e vogliono mettere a disposizione del metteur en scène i mezzi richiesti per produrre una vera film artistica; la questione finanziaria va intesa in un senso più lato. Una Casa per ricoprirsi delle spese del negativo ha bisogno di vendere 30 o 40 copie: poiché il mercato italiano assorbe 4 o 5 copie solamente, è facile intendere che le altre copie si dovranno vendere all’estero. Ma poiché le legislazioni che regolano la produzione e la proiezione cinematografica nei diversi paesi variano tra loro per l’indole etica del popolo, la Casa produttrice à costretta a rimaneggiare i soggetti e gli svolgimenti delle azioni in modo da non incappare sotto la censura di alcun paese. Evidentemente questa condotta di schivare i rigori delle censure, non concorre alla buona e perfetta esecuzione artistica.

— È vero che il pubblico è divenuto molto esigente?

— In maniera eccezionale: una volta il pubblico si contentava della scena panoramica, della comica fatta di corse e di rincorse…. ora tutto ciò può servire soltanto come complemento del programma il quale vuole essere formato di un grande lavoro di grande intreccio e di grandi emozioni. Se il pubblico conoscesse le fatiche e i rischi che si debbono incontrare e superare nei lavori cinematografici, compatirebbe alle volte qualche lieve stonatura.

— A lei sembra utile o dannosa I’esigenza del pubblico?

— Dal punto di vista artistico è certamente utile, perché obbliga direttori di scena ed artisti a curare sempre di più la lavorazione dei films. Dal punto di vista industriale… ecco, se lei interrogasse il proprietario o il direttore generale di una Casa cinematografica io credo che si sentirebbe rispondere che l’esigenza sempre crescente del pubblico è ormai diventata una cosa insopportabile, che obbliga a sempre maggiori spese di produzione, che minaccia seriamente l’industria. Viceversa, a mio debole parere, l’esigenza del pubblico è, o sarà, un bene anche per l’industria. Senza adesso addentrarci nel complicato congegno del commercio cinematografico, è certo che il pubblico ora conosce ed apprezza più o meno le marche e fa una selezione della nostra produzione ed accorre nei cinematografi dove sa che vedrà dei lavori della Casa A o B che più accontenta i suoi gusti. Ciò aumenta la richiesta di produzione alle Case che hanno saputo o sapranno meglio organizzare il lavoro nei loro stabilimenti, e di questo l’industria s’avvantaggerà, poiché man mano che la produzione, migliorando, soddisferà l’esigenza del pubblico, questo accorrerà sempre più numeroso ai cinematografi.

— Che ne pensa lei del Pathé Exchange?

— La cosa va considerata sotto due aspetti, quello commerciale e quello artistico. Per la parte commerciale sarà meglio che lei si rivolga ad altra persona più addentro di me nella questione; per ciò che riguarda il lato artistico, posso senz’altro confermarle che l’imposizione fatta alle Case italiane aderenti al Pathé Exchange col manuale pratico per uso dei direttori di scena italiani del signor Gasnier (l’alter ego di Pathé), che tende ad americanizzare la lavorazione dei films, non può trovare l’acconsentimento di coloro i quali, non solo conoscono le grandi fonti e le grandi caratteristiche dell’arte italiana, ma hanno altrettanta fiducia del primato che la cinematografia italiana può mantenere sulla produzione internazionale. Esiste, è vero. una notevole differenza tra il gusto delle diverse nazioni: salvo alcuni lievi temperamenti, si può dire che la Germania, l’Austria, la Russia, la Spagna e l’America del Sud hanno una speciale predilezione per la produzione italiana considerata sia dal lato artistico che da quello tecnico; mentre l’Inghilterra e le Colonie inglesi si compiacciono maggiormente della produzione Nord Americana. Non vorrei azzardarmi a definire questo compiacimento come conseguenza di uno spirito nazionalistico, ma d’altra parte non comprendo la ragione per la quale il signor Gasnier che ha avuto a sua disposizione direttori, artisti e teatri americani non è riuscito, pur lavorando a New York, a soddisfare completamente il gusto anglo-americano (tutti hanno vista la produzione americana della Casa Pathé) ora che M. Charles Pathé ricorre alla produzione italiana, pretenda che questa si conformi ai dettami da lui formulati. Effettivamente il signor Gasnier ci richiede in modo assoluto ciò che noi facevamo da tempo in maniera relativa: alludo alle scene in primo piano. Io, per esempio, sin dai primissimi lavori allestiti alla Celio tre anni fa, adopero i primi piani per quelle scene che richiedono una più profonda analisi della maschera degli artisti per comprendere più chiaramente l’espressione dei sentimenti loro. Secondo me, il primo piano non va considerato che un complemento allo svolgersi dell’azione cinematografica, mentre per il signor Gasnier tutta l’azione deve svolgersi prevalentemente in primo piano; ed ella comprende quanto si perda nell’esecuzione artistica di una film adottando il principio americano: l’ambiente, la decorazione, lo sfondo, il quadro, non dovrebbero più preoccupare l’inscenatore, il quale al contrario, avrebbe limitate le sue qualità artistico intellettuali a far muovere soltanto i personaggi in un campo troppo ristretto per l’azione cinematografica… un po’ di logica. Nessuno potrà negarci la nostra superiorità in ogni manifestazione d’arte e quindi nessuno dovrebbe fissarci i limiti e i modi delle estrinsecazioni delle nostre innate attitudini artistiche.

— Ella ha perfettamente ragione. Ed allora perché diverse Case italiane hanno aderito al Pathé Exchange?

— Per la solita ragione finanziaria. Oggi il grande mercato ancora aperto è quello americano e naturalmente le Case si preoccupano di risolvere il problema affaristico producendo lavori che trovino facile vendita e non pensano davvero all’affermazione dell’arte italiana. Sono convinto però che una migliore organizzazione finanziaria e commerciale toglierebbe la nostra produzione da questo stato di asservimento e segnerebbe il principio di un migliore e caratteristico orientamento della cinematografia italiana.

— Esiste una crisi cinematografica?

— Sì, esiste, ma esclusivamente dipendente dalla situazione internazionale; gli scambi e i trasporti dei prodotti sono divenuti estremamente difficili. Le basti sapere che le spedizioni di films all’estero devono esser fatte con speciali corrieri i quali molto facilmente incontrano lungo il viaggio difficoltà per il proseguimento. Da ciò comprende bene che l’unica causa della crisi che attualmente affligge la cinematografia italiana è la situazione politica e che nulla potrà farsi fino a quando questa non si sia rasserenata. Mi procurerebbe piacere di parlarne ancora di altre cose, ma mi riserbo di farlo un’altra volta poiché ella mi deve permettere di salutarla, avendo fra pochi minuti un appuntamento.

Ringraziai vivamente il conte Negroni della cortesia usatami e gli espressi il sincero desiderio di rivederlo fra breve.

Massimo
(La Tribuna)