
Le poche persone che l’altra sera si trovavano al Villaggio Coloniale dell’Esposizione, godettero, senza aspettarselo, di uno spettacolo insolito.
Il villaggio era, o sembrava, già addormentato. Le capanne somale ed eritree, le costruzioni libiche, si erano fasciate di ombra e di silenzio. Solo nei viali, le grosse lampade brillavano, gettando fasci di luce fredda sui candidi intonachi e sui tetti di stoppia. Di tratto in tratto s’intravvedeva lo scivolare rapido di un barracano o lo spostarsi lento dell’alta e sottile figura di un ascaro. Sotto i portici del mercato, da una tenda abbassata, usciva il tamburellare monotono di una nenia araba, che scendeva lenta sul paesaggio immobile, quasi a conciliare il sonno.
Era l’ora in cui è possibile trovare nel Villaggio Coloniale, l’illusione esotica dell’Africa mediterranea ed orientale. Ed ecco che questa illusione cominciò a divenire quasi realtà. Dall’ombra cupa delle viuzze giunse qualche rumore strano ed un misterioso parlottare sommesso. Poi si profilarono delle ombre, che presero corpo avanzando e comparvero delle figure gigantesche, dal torso nudo, con un gonnellino ricamato e multicolore, stretto ai fianchi da una cintura d’oro e con un cerchio d’oro intorno ai crani lucidi e rasati. Innanzi a loro, dondolante e ancor deforme, per l’oscurità, la sagoma di un cammello insonnolito.
Il silenzio era tornato. Ed in silenzio la carovana procedette verso l’uscita del corso Sicilia, ove tra le case ed il fiume nel largo triangolo coperto d’erba e di cespugli, la tranquillità della notte era stata improvvisamente violata da una scena curiosa e a prima vista indefinibile.
Nella radura erbosa, alcune tende erano state rizzate. Tende curiose, altissime e rotonde, fatte di tela variopinta, quali venivano usate dai più antichi eserciti. Ed infatti intorno ad esse gironzolavano strani guerrieri, con lucenti corazze sulle corte tuniche, con bizzarri elmi piumati e lunghe lance, dalla punta larga e dentellata. In disparte, poi, un gruppetto di donne, dalla carnagione dorata e le lunghe trecce chiuse in diademi, immobili e silenziose, avvolte in lunghi mantelli di lana a strisce bianche e rosse.
Lo spettacolo era sconcertante, ma lo diveniva ancora di più, allorché si guardava dalla parte opposta. Di qui non più figure antiche, ma agitarsi di signori con la paglietta e di operai scamiciati, intorno a strane macchine poste su cavalletti e ad un grande autocarro, il cui motore di tratto in tratto brontolava rapido e convulso, scatenando lampi di luce accecante da dieci riflettori, posti un po’ ovunque e che da esso ricevevano l’energia elettrica.
L’illusione dell’Oriente misterioso veniva diminuita da questa seconda scena e finì del tutto allorché si vide correre in lungo e in largo la caratteristica figura del conte Negroni, che forniva con la sua presenza la spiegazione dell’arcano. Il conte Negroni, famoso direttore artistico cinematografico, spiegava senza parlare la ragione dello spettacolo insolito. Si trattava indubbiamente della “presa” di un film, e le strane macchine su cavalletti, intorno alle quali si affaccendava l’operatore, erano macchine cinematografiche.
Dai dintorni, accorreva la folla degli abitanti, sorpresa e incuriosita. Non è di tutti i giorni la possibilità di vedere come si “gira” una scena cinematografica all’aperto e la novità metteva in allegria gli spettatori che seguivano con attenzione tutti i preparativi. Si viene a sapere che la sponda destra del Po diverrà momentaneamente paesaggio biblico, perché biblico è il dramma che rappresenterà il film. In cinematografia tutto è possibile, anche tramutare in ambiente orientale la parte trascurata di un corso cittadino.
Un mormorio di sorpresa ed ammirazione saluta l’apparire della “diva” che sotto un ricco mantello moderno nasconde il leggero e scintillante costume orientale carico di gemme e di ornamenti. Nella gerarchia cinematografica il primo posto è tenuto dal direttore artistico, il secondo dall’operatore e il terzo dalla stella o dal primo attore. Ma per il pubblico ha importanza soltanto l’attrice o l’attore, perché sono quelli che lo commuovono o l’esaltano allorché appare sullo schermo. Vederne uno in persona è quindi un privilegio. Nel caso presente, poi, gli spettatori occasionali sono ancora più lieti, perché possono ammirare da vicino una prima attrice che fa la sua apparizione nel cinematografo dopo aver furoreggiato sulle scene dei massimi teatri con l’arte della sua danza mirabile. La “diva”, infatti, che dovrà impersonare una famosa figura biblica, è la celebre danzatrice Jia Ruskaja.
Essa rappresenterà Giuditta e dovrà tagliare la testa ad Oloferne. Ma la folla di corso Sicilia non vedrà tanto. Le scene che si devono girare comprendono la partenza di Giuditta verso il campo nemico e l’arrivo in esso. I preparativi vengono ultimati; le macchine da presa a posto, i riflettori in posizione giusta. Echeggiano gli ultimi ordini e le raccomandazioni del conte Negroni. Il pubblico tace. Soltanto il motore brontola quasi ad illustrare lo stato d’animo tragico della vedova vendicatrice.
Jia Ruskaja, pardon, Giuditta, prende commiato dai suoi, e, avvolta in un ampio mantello azzurro, sale sul cammello, che avanza lento e dondolante sullo sfondo cupo del cielo, fra i cespugli e l’erba alta. Segue la fida serva a piedi. L’illusione rinasce. Poi la scena si interrompe. Altri preparativi, altri ordini, apparire di nuovi personaggi.
Un’altra scena viene “girata”. In fondo, le tende coniche del campo di Oloferne. Gli eritrei, con le torce in mano, rigidi come statue, illuminano lo spettacolo. Giuditta giunge sul cammello, il quale si inginocchia sulle zampe posteriori e poi si accascia al suolo, perché la donna possa scendere dalla sua groppa. Una fila di soldati sbarra il passo alla visitatrice. Si avanza un ufficiale dalla elegante corazza e dall’elmo monumentale. « Chi sei, cosa vuoi? » « Sono Giuditta, conducimi da Oloferne ». L’ufficiale scruta diffidente la donna impassibile; poi si decide: « Vieni! ». Giuditta passa attraverso i soldati ed entra nel campo nemico. La scena termina ed il pubblico, che aveva trattenuto il respiro, commenta allegramente. Infatti non è che una finzione. Ma domani sullo schermo, la stessa scena sembrerà realtà e commuoverà gli spettatori che hanno assistito al meccanismo della “presa” del film.
Jia Ruskaja riprende il mantello moderno e sale sull’automobile che la condurrà in albergo. Gli attrezzi vengono smontati, caricati sull’autocarro e la zona ripiomba nelle tenebre. Gli eritrei ed il cammello rientrano nel Villaggio Coloniale. La folla si scioglie soddisfatta e il paesaggio biblico ridiventa la sponda destra del Po.
C. P.
(dalla Gazzetta del Popolo- Il Corriere Cinematografico, Torino 4 agosto 1928)