Hesperia (Storia di una Diva dell’Arte Muta I)

Hesperia (Olga Mambelli) nel 1912
Hesperia (Olga Mambelli) nel 1912

« Io non ci pensavo affatto al cinematografo. Una fortunata presentazione al barone Fassini della Cines, decise il mio avvenire »

Roma, estate del 1912. Olga Mambelli, in arte Hesperia, famosa diva del varietà (“visioni di capolavori d’arte”), è in tournée al Teatro Apollo (ora Eliseo), primo numero della seconda parte.

Olga aveva sentito parlare del cinematografo, ma era andata a vedere i films una sola volta all’Olimpia di Parigi, in qualità di semplice spettatrice, si trattava di un esperimento combinato del Pathécolor col “cinema parlante”. Da principio parve non interessarsi quasi per nulla alla cosa; poi, richiesta la sua opinione, rispose subito, con il solito sorriso sulle labbra: « Una cosa buffissima ».

— Sicché non avete nessuna simpatia per il cinematografo? — le domandava il barone Alberto Fassini, allora direttore generale della Cines.

— Simpatia? Non so! Non lo conosco. Non ho la menoma idea di come sia fatto.

— Non immaginate neppure?

— Dio mio: ecco una domanda scabrosa! Immagino… che si facciano le fotografie in varii luoghi e che poi si proiettino sullo schermo… Ma come si fa poi a movimentarle? A proposito, sì: come si fa?

— Ah, la vostra curiosità comincia ad essere stuzzicata…

— Sia pure: lo confesso.

— Allora, se domani venite alla Cines: vedrete.

L’invito fu raccolto. Ma, poiché la platea rumoreggiava e tutto era pronto sul palcoscenico, la conversazione per quella sera non andò oltre.

L’indomani, però, alle 10 del mattino (ora dell’appuntamento), Hesperia dormiva tranquillamente. L’arte muta, ancora, non l’attirava nemmeno per ombra. Alle 11 la diva si svegliò e si mise a giocare con Mimosa, una grossa cagna pechinese, sua fedele compagna di vagabondaggio; poi si vestì, attese agli affari di… ordinaria amministrazione, e così fino alla sera.

Quando, alle 22, si trovò in camerino di fronte al barone Fassini che aveva l’aria leggermente imbronciata, solo allora Hesperia si ricordò dell’appuntamento. Chiese scusa, e fu scusata completamente: ma ella promise in modo formale — e questa volta in presenza della cagna — che l’indomani alle 10 sarebbe stata alla Cines, sia per fare ammenda onorevole, sia per soddisfare la sua legittima curiosità.

La mattina seguente, verso le otto e mezza, Mimosa era già sveglia e balzava qua e là per la stanza; poi cominciò a salire sul letto, a saltare, a fare rumore, per svegliare la sua padrona.

Conclusione: alle dieci precise padrona e cagna si trovavano alla porta della Cines, al numero 51 di via Macerata, il “più antico stabilimento per la manifattura cinematografica”.

Il barone Fassini, chiamato d’urgenza fuori un quarto d’ora prima, non poté ricevere degnamente la diva del varietà: vi supplì però, nel modo migliore, Guglielmo Torelli, allora addetto all’ufficio soggetti della casa.

Nel cortile dello stabilimento, quel giorno era « montata » una scena per un soggetto messo in scena da Enrique Santos: In pasto ai leoni. All’interno di una gabbia di leoni (gli stessi che qualche settimana dopo, sotto l’occhio sempre vigile del domatore Alfred Schneider, interpreteranno la parte dei… leoni nel Quo Vadis? di Enrico Guazzoni), era legata l’attrice Marcella Meyer, protagonista del film.

Il “quadro”, è inutile dirlo, divertì straordinariamente Hesperia, che volle assistere all’esecuzione di tutta la scena mentre Mimosa, per solidarietà… padronale, manifestava il suo vivo diletto saltando continuamente in aria.

Le visite alla Cines da parte di Hesperia, divennero presto quotidiane. La bella diva cominciò a familiarizzare sempre più col teatro di posa, colle scene, cogli sfondi, colla macchina da presa. Il barone Fassini si faceva in quattro per spiegarle l’esatto funzionamento di ogni arnese; il perché di ogni « sceneggiatura », il valore dei « primi piani », l’efficacia del « campo lungo », l’ausilio degli « esterni », ed a metterla al corrente di tutti i più minuziosi dettagli dell’interpretazione e della messa in scena.

Lentamente, nella testa di Hesperia cominciò a formarsi l’idea di prendere parte anche lei a qualche lavoro. Tentazione piuttosto confusa, non ben delineata ancora: ma c’era. Il barone Fassini, che spiava continuamente, sul volto di Hesperia l’effetto delle sue parole e delle sue spiegazioni, un giorno assalì quasi la futura diva dell’arte muta con una proposta a bruciapelo:

— Ho fatto preparare un « soggettino » appositamente per voi…

La risposta non si fece attendere:

— Siete pazzo!…

No: non era pazzo, il barone Fassini. Tutt’altro. Per quel giorno, però, non tornò più — e a bella posta — sull’argomento.

Ma la tentazione, nel cuore di Hesperia, ingigantiva. Ci fu — e perché no? — qualche notte insonne; qualche prova davanti allo specchio…

— Provare non costa nulla — disse un giorno Fassini —, provate ad interpretare il « soggettino » che ho fatto preparare appositamente per voi, direi quasi su misura… Poi, vedremo…

Il ragionamento, come ogni ragionamento rispettabile, non faceva una grinza… Dopo qualche altra esitazione, Hesperia finì coll’accettare.

E poiché tutto era pronto, il « soggettino » — come diceva il barone — che doveva servire di prova (Altruismo, così si chiamava: due parti, lunghezza 360 metri) fu condotto a termine in quindici giorni, con soddisfazione di tutti.

Una scena di Altruismo (1912), al centro Hesperia.
Una scena di Altruismo (1912), al centro Hesperia.

Ecco la trama di Altruismo: La signorina Hesperia, trascinata nella vita galante dal bisogno, ha saputo conservare intatto un puro affetto: quello che la lega ad una sorella minore — Niny — che a sue spese viene educata in un collegio.
Niny ha compiuta la sua istruzione ed è tempo, anche per la sua età, di venir tolta dall’istituto.
A rilevarla si reca Hesperia, accompagnata da Aldo il suo giovane amante, al quale ella si è attaccata come l’edera all’arbusto.
Le due sorelle si fanno delle confidenze ed Hesperia dice a Niny di amare Aldo più di sé stessa.
Un cena sontuosa riunisce in casa di Hesperia tutti i suoi amici che vogliono conoscere la piccola Niny.
Hesperia raccomanda agli amici di non usare frasi spinte alla presenza della sorella ignara. Aldo, che è rimasto colpito al vedere Niny la prima volta, durante la cena è distratto con Hesperia, ma non leva gli occhi di dosso a Niny che viene irresistibilmente attratta da quegli sguardi.
Hesperia comprende e non vuole comprendere che la sorella vuole, affascinata, toglierle il suo amore. Per accertarsi trova il mezzo di lasciar soli i due giovani.
Purtroppo ella non s’inganna: Aldo e Niny si amano diggià. Si amano? Ma ella vuole difendere sino a morire, sino a passare sul corpo della sorella, il suo bene.
Le due sorelle, divenute rivali d’improvviso, hanno un breve colloquio.
Niny tenta di schermirsi, ma Hesperia le sibila all’orecchio che sa tutto. Niny è corrisposta da Aldo? Ebbene, Hesperia si vendicherà.
Niny piega dolcemente l’animo allo strazio della sorella e decide di allontanarsi da quella casa che invece di tranquillità le ha procurato affanno. S’allontana infatti, lasciando un biglietto per Hesperia nel quale dice di aver trovata un’onesta occupazione, lasciando così libera di ostacoli la sua felicità.
Hesperia, che ha già avuta la confessione di Aldo, che adora Niny, ritorna dal giovane per un’ultima spiegazione. Aldo le ripete che adora sino alla follia la sorella.
Hesperia si fa promettere che la sposerà e quando apprende da Aldo che egli è pronto a sposarla anche subito, decide di fare col suo dolore la felicità della sorella.
L’infelice ha ormai compreso che nell’altro le resta che sacrificar se stessa per gli altri due.
Scrive a Niny di ritornare a casa, poiché Aldo è solamente suo, e compie il sacrificio avvelenandosi, mentre i due in un’altra stanza si giurano amore eterno.

Non finisce qui… alla prossima!

Za la Mort!

Confesso di non essere eccessivamente colto, riguardo al romanzo dei bassi fondi parigini. Ignoro perciò donde precisamente siano stati tolti Za la mort, Za la vie, Casque d’or ed altri celebri nomi d’apaches, che stanno creando una gloria immortale alla Tiber Film e ai suoi direttori artistici. Ma il lettore forse mi perdonerà, quando potrò dirgli che codesti sonori nomignoli del gergo parigino adornano i tre principali personaggi di una serie cinematografica d’avventure creata dalla fertile fantasia di Emilio Ghione, noto metteur en scène, celebre artista ed industrioso scombiccheratore di soggetti.

Za la Mort è il bandito simpatico, abbonato ferroviario della linea Parigi-Cayenne. Le donne più belle lo idolatrano; i valorosi compagni lo temono o l’invidiano; i poliziotti se ne lasciano volentieri burlare; i muri e il sottosuolo si aprono al suo passaggio; le acque si dividono come il Mar Rosso all’esodo degli Ebrei; il fuoco non lo tocca, il veleno e il pugnale lo rispettano. Come dio, egli è in ogni luogo; come il buon senso in cinematografia, è sempre irreperibile. Balla il tango, si capisce, e le danze degli apaches, a perfezione; maneggia il coltello come Juan Josè; sa baciare come la ragazza americana più civetta. È, per dirla in una sola parola, l’irresistibile.

Za la vie si noma la sua amante: perfida, astuta e vendicativa. Gli ha messe più volte le corna e gliele metterebbe ancora, se non fosse ammazzata in tempo da Casque d’Or, la bellissima innamorata del bruttissimo Za, che non si accorge o fa il sordo all’amore così spontaneamente offerto.

Za la mort aspetta, è naturale che Casque d’Or, trasbordata oltre l’Oceano, sia divenuta una ricchissima ballerina, e che dieci o dodici miliardari americani le facciano una corte spietata… Allora il bandito, trasformato anch’esso in miliardario (grazie all’eredità toccatagli di qualche migliaio di biglietti da mille falsi) comincia a spasimare per la bellissima fanciulla dalla chioma d’oro; che, naturalmente, lo respinge.

Ma Za la mort è l’uomo delle grandi trovate. Casque d’Or l’ha respinto? Ma è naturale: essa era innamorata di un apache, non del miliardario spacciatore di banconote poco autentiche. Quando però Za, indossata l’umile divisa di fattorino d’albergo, serve la bella giovane bionda che siede a tavola coi suoi spasimanti afflitti da tanti milioni, Casque d’Or, commossa dal sovrumano sacrificio, fa gli occhi languidi e, nel primo cantuccio solitario che le si offre, getta le braccia al collo del suo vecchio idolo, mormorando: Sono tua. L’apache, è vero, ha preso un nuovo abbonamento per Cayenne; ma le sue risorse sono infinite. Egli ne ritornerà subito, dopo mille spaventose peripezie, per godere la libertà e l’amore, lontano, nelle pampas sconfinate, dove ridiventerà quel che in fondo è sempre stato: un uomo onesto.

Resta ora da dire chi sia Emilio Ghione… La faccenda è un po’ più seria.

Le celebrità dello schermo s’incoronano di lauro con tanta fenomenale rapidità che appena s’arriva in tempo a conoscerne il luogo d’origine. Emilio Ghione dal viso glabro (è questo il particolare più spesse volte ripetuto negli avvisi cinematografici) è napoletano? siciliano? romano? E chi lo sa? Deduco che sia del mezzogiorno dall’enfasi ineffabile di certi titoli, onde abbellì le prime parti della sua serie Za la mort. Erano di una soave e grave profondità di concetto esposta in mistica ricercatezza di paroloni armoniosamente insensati. Pareva di sentir parlare uno di quei sensali, mezzo avvocati, mezzo inbroglioni, che sono purtroppo una epidemia di quelle nostre provincie, così ricche di belli ingegni destinati a sciuparsi…

Altro di Emilio Ghione non so, fuori di quello che s’impara dalle films dove agisce. Cioè, ch’egli è un attore molto efficace, dalla maschera di un orrido impressionante, dal corpo magro e muscoloso, straordinariamente adatto alla parte di apache. E anche non ignoro che i soggetti della serie Za la mort sono ideati da lui. Ideati? È un po’ troppo. Diciamo compilati. E la compilazione non è troppo felice. Voi vedete passare nell’azione tutti i più vieti motivi del romanzo d’appendice tipo Rocambole, ma senza il più lontano termine di confronto con le concezioni immaginose del visconte Du Terrail: i colpi di scena, i passaggi dall’uno all’altro mondo, le avventure nei meandri del sottosuolo parigino, le ridde fantastiche di milioni, che dalle vecchie concezioni rocambolesche sono man mano passate ai moderni Fantomas e Lupin e al romanzo inglese di Rider Haggard, di Boothby e di tanti altri.

Emilio Ghione però ha saputo dare una impronta sua propria a tutta questa materia, togliendone principalmente un grave difetto: il buon senso. Tutti questi soggetti cinematografici che costituiscono la serie Za la mort hanno l’indiscutibile pregio di essere semplicemente insensati. Sembrano tendere alla glorificazione di un malfattore che, se è molto più stupido di Rocambole e di Fantomas, in compenso fa delle cose meno fantastiche, meno grandiose, meno interessanti, ma molto più verosimili e inspiegabili.

Perché molto spesso viene alle labbra la domanda: Ma perché Za la mort si affana a compiere tante imprese perfettamente inutili? Perché sembra così spesso un turista, il quale, volendo compiere il viaggio da Londra a Parigi, stima necessario passare per il polo nord e traversare tutti cinque gli oceani?

Vorremmo dare al signor Ghione un consiglio. Una volta egli era attore, direttore, soggettista e compilatore dei titoli. L’arrivo alla Tiber del conte Negroni gli ha forse tolto di mano il mestolo per quel che riguarda i titoli e la messa in scena.

Perché, dietro l’ottimo effetto che ne è derivato, non rinuncia anche a ideare i soggetti? Non sarebbe tanto di guadagnato per la sua gloria?

Acer.
(Cinemagraf, 5 settembre 1916) 

Hesperia: Noi attrici del silenzio

Hesperia 1916
Hesperia 1916

La cinematografia è un arte? Quali rapporti fra il cinematografo ed il teatro?

Per molto tempo non s’è potuta aprire una rivista cinematografica senza che una delle due su riportate frasi vi saltasse agli occhi, scritta con caratteri cubitali, come titolo di testa di un articolo di almeno cinque colonne.

Ora, finalmente, dopo che autori ed attori celebri hanno data l’opera loro al cinematografo, grazie a Dio, siamo d’accordo. Anche il cinematografo è una forma d’arte.

Io veramente ho sempre pensato, anche quando la cinematografia non aveva raggiunta la forma più organica d’oggi, che un posticino, magari piccolo, fra le manifestazioni d’arte, le spettava. Sì, perché cinematografia e teatro sono due forme d’arte rappresentativa che, pur rimanendo assai distinte fra loro, tendono allo stesso scopo, e cioè alla rappresentazione di un brano di vita reale, l’una con l’ausilio della parola, l’altra con la visione successiva di situazioni. Il teatro ha la parola, ma stretto nell’ambientazione, non può rappresentare al pubblico che una parte del dramma, ed è obbligato a servirsi appunto della parola per raccontare tutto quello che non può rappresentare: la cinematografia manca della parola, ma sconfinata nell’ambientazione può svolgere in una serie infinita di quadri e di scene successive tutta un’azione in tutte le sue situazioni ed in tutti i suoi dettagli.

Ho letto, tempo addietro, non ricordo più in quale rivista, le impressioni provate da una delle maggiori attrici del nostro teatro, posando per la prima volta in uno scenario cinematografico. Comprendo benissimo come essa dicesse di aver sentito la mancanza di qualche cosa, come dicesse di esserle sembrato di fare un’interpretazione a metà, di non aver potuto immedesimare completamente il tipo del personaggio da rappresentare. Lo capisco benissimo, perché abituata ad ottenere i migliori effetti con la dizione, con l’inflessione della voce, le erano mancate le migliori risorse della sua grande arte.

Noi attrici del silenzio, mentre interpretiamo i nostri tipi, non sentiamo questa mancanza.

Abituate a esprimere i nostri sentimenti col gioco della nostra maschera facciale, questo sopra ogni altro curiamo, e facciamo tesoro di ogni piccola mossa della nostra persona, di ogni posa, ed anche di una migliore o peggiore esposizione alla luce.

Per questo si dice da qualcuno che lavoriamo meccanicamente. Non è vero.

Non è vero che si lavora meccanicamente, si sente, avanti all’obiettivo, si sente come, e forse più, che avanti alla platea gremita.

Bisogna abituare il cervello ad una ginnastica speciale, bisogna abituare i muscoli ad obbedire istantaneamente alla volontà, bisogna sentire la parte, immedesimarsi nella scena che si rappresenta, montarsi a freddo, non fingendo ma sentendo realmente il dolore e la gioia e dall’uno passare all’altra quasi istantaneamente.

Occorre perciò uno studio paziente ed accurato dello scenario cinematografico, bisogna far suo il tipo da rappresentare, intonare a quello tutto, dalle acconciature, dalle toilettes alle movenze, il modo di camminare, di gestire e mantenere il tipo per venti giorni, un mese, il tempo che dura la messa in scena di un film.

Un’attrice cinematografica non può darsi il lusso di preferire un dato genere di soggetti. Il gusto del pubblico cinematografico è così variabile ! E gli industriali hanno tanta fretta di seguire il gusto del pubblico !

Mentre oggi si domandano alle case cinematografiche dei films sensazionali, domani saranno ricercati i soggetti passionali o sentimentali; mentre oggi sono messi al bando i soggetti storici, domani forse essi torneranno a formare la delizia dei frequentatori del cinema. Bisogna acconciarsi a quello, come si suol dire fra noi, che il mercato richiede.

Detesto i soggetti di avventura o sensazionali, e poco simpatizzo coi soggetti storici. Preferisco i soggetti moderni d’ambiente chic, specialmente quelli semplici, di vita reale, e vado matta per quei soggetti che pur ricamati su una trama sentimentale o passionale, sono trattati in forma brillante, magari… con una punta comica.

Hesperia (Olga Mambelli)