La casa di vetro – Fert 1921

La casa di vetro di Luciano Doria - Onesti passatempi di provincia: La tombola.
La casa di vetro di Luciano Doria – Onesti passatempi di provincia: La tombola.

Gaby Printemps (Maria Jacobini), viaggiando in compagnia del paziente, indivisibile amico Max Andreani (Oreste Bilancia), vuol restare sola, ad un piccolo paese sparso fra i monti, in cui si sta preparando la festa di S. Gabriella, la santa protettrice del luogo.

Presa in breve dalla semplice, primitiva e tranquilla vita del paese, ella prolunga assai la sua sosta: il tempo necessario per innamorarsi d’un giovane buono e forte, Roberto Landi (Amleto Novelli), e far innamorare questo pazzamente di lei.

La casa di vetro di Luciano Doria - Sogno nella luna.
La casa di vetro di Luciano Doria – Sogno nella luna.

I due colombi prendono il volo, uniti, lasciando al loro dolore infinito una dolce, mite fanciulla, Grazia (Orietta Claudi), la fidanzata di Roberto, ed i vecchi genitori. Roberto e Gabriella vivono giornate ardenti di passione. Max Andreani, l’ombra del passato, li rintraccia e si appiccica loro, attendendo, attendendo sempre che Gaby, stanca degli altri, si decida infine a riposarsi con lui.

Ed inizia la sua opera di distruzione, allegro e inconscio strumento d’un destino che vuol compiersi.

La casa di vetro di Luciano Doria - Il cinico amico ed il vecchio padre.
La casa di vetro di Luciano Doria – Il cinico amico ed il vecchio padre.

Roberto Landi non tarda ad avvedersi dell’abisso che s’apre profondo fra il metodo di vita — artificioso e fatuo — i gusti, i desideri di Gabriella ed i suoi così semplici, sani, rustici. Mente Gabriella si sente sempre più attratta dalla sua vita di “prima” e tende a tornare la Gaby mondana, irresistibile, adorata d’un giorno. E la tragedia si compie. Max ne è un po’ l’occulto strumento. Quando Roberto apprende dal vecchio padre suo (Alfonso Cassini), venuto a ritrovarlo in città, che Gabriella è « una di quelle donne che si amano senza sposarle », malgrado la passione che ancora lo tiene a lei, sente il distacco ormai necessario. E torna, la notte di Natale, a lenire il suo dolore fra le braccia ansiose del padre, condotto, un un sublime atto d’amore, dalla stessa Gabriella. Gaby annega il ricordo della sua passione nel calice cristallino colmo di champagne, che si spezza alla stretta convulsa delle sue mani. « Come tutte le case di vetro ».

La casa di vetro di Luciano Doria - Triste Natale.
La casa di vetro di Luciano Doria – Triste Natale.

Luciano Doria – La casa di vetro al Corso Cinema Teatro.

La casa di vetro ha attenuto un grandissimo successo. Questo è il secondo romanzo di Luciano Doria. La casa di vetro mostra tante lodevoli intenzioni, una bella armonica costruzione nelle scene, con facilità di espressione e un egregio valore letterario che noi vorremmo stringere, ben lieti, la destra di Luciano Doria.
Gaby è una donnina allegra; una di quelle giovani che passano ne la vita dell’uomo lasciandogli forse il ricordo di un’ora, l’oblio di un momento. Gaby, per uno di quegli inesplicabili « casi » che si presentano durante il corso degli eventi, ode una voce sopita, da tanto tempo, nel suo giovane cuore; ed essa è indecisa al richiamo. Sul volto le alberga un sorriso che vuole essere la più veritiera negazione di quel che le agita in seno. Vuole disconoscere ciò che è pur suo, che fa parte della sua anima, del suo spirito novo che sorge e vuole un altro mondo.
Vinta, la moderna contigiata si chiama Gabriella; un nome che è puro perché spetta ad un passato pieno d’alati sogni. E lei, mentre rivive nel paesotto di montanari, giorni felici, conosce un uomo che è legato da promessa a la buona cugina, la cara cugina della nostra infanzia.
Una «degnità » Vichiana, dice: « L’uomo fa sé, regola dell’universo », e Roberto Landi, che aveva fatto, invece, « del paese, regola di sé stesso » a la vista di Gabriella, di una creatura da lui mai vista superiore, dimentica tutto; un giorno parte con « lei » fin che la bufera, rotta qua e là da un vento improvviso, non cessa, ed egli torna a la casa ove il focolare si riaccenderà ancora una volta ad illuminare gli affratellati visi de’suoi famigliari. Ma Gabriella? Oh, essa è tornata a la, « vita », parola ben amara per lei!
Il passato è una larva a cui l’oblio
Va cancellando i languidi profili:
Il presente non altro è che il veloce
Avvenire che passa. Ecco la vita:
Un gaudio preso, una caduta lagrima
Che la terra bevè; forse una colpa
Travestita in rimorso, è una speranza
che fugge e irride come fatua fiamma,
Allo smarrito in tenebrosa lauda
Luciano Doria ha scritto questo « Romanzo-film » con acceso vigore e con fine psicologia. Solo le ultime
pagine risentano di un distacco; quasidi una «ripresa» dopo un certo lasso di tempo. Vi sono pagine felicissime, d’una spontanea bellezza, di un disegno fine e polito. La casa di vetro è, con Il volto di Medusa, uno dei migliori scritti apparsi sinora, e per compiutezza, di figura, per indovinata scelta di immagini, per valore di contenuto, primeggia su tutti gli altri.
Ma il Doria cerchi di abbandonare quel « frasario » speciale che usò ampiamente ne La bambola e l’amore e che qui fa, ogni tanto, capolino. Questo lavoro ha punti di contatto con La fiamma e le ceneri, di G. Campanile Mancini, e ciò può servire, per un appassionato cultore di cose cinematografiche, ad esaminare il pensiero che guida i due ben conosciuti autori.
Carlo M. Guastadini (Kines, Roma 5 febbraio 1921)

La casa di vetro di Luciano Doria, per l’interpretazione di Maria Jacobini (Edizioni Fert) al Cinema Orfeo di Genova.

Il soggetto è forse la cosa meno bella di questo bellissimo film. Luciano Doria ha voluto rivestire di nuovi panni alcuni vecchi motivi cinematografici e letterari.
Ha saputo farlo con parecchio buon gusto e fine senso artistico. E questo è un merito che non gli togliamo, ma la quale avremmo voluto aggiungere quelli d’una maggiore originalità e ispirazione di artista. La storia è tenue e fine come un ricamo. È uno episodio commovente della travagliata vita d’una donnetta allegra.
Tipi veramente riusciti, anche letterariamente, sono Max Andreani il vecchio “Dandi”, la piccola ingenua Grazia. Gaby e Roberto sono più che altro figure cinematografiche, esseri destinati a vivere una loro vita effimera sulla scena. Come sovente accade ai protagonisti dei romanzi, cinematografici e non. Ma ne sono interpreti Maria Jacobini e Amleto Novelli.
Maria Jacobini è la più completa, la migliore delle nostre attrici. È perfetta come artista e come donna. Il che fa la perfezione in arte muta. E non ha chi le si possa paragonare: non perché ella superi ogni altra, ma perché da tutte è profondamente diversa, ha un carattere, una vita scenica tutta sua, che avvince, che trascina all’ammirazione. L’arte sua sana, profonda, semplice e umana ha creato in Gaby un’anima che non c’era. Gaby in essa vive una nuova vita. E non la si scorderà facilmente.
Amleto Novelli, che è uno dei più forti e caratteristici attori della scena muta, è assai costretto nelle vesti di Roberto. Alla sua azione scenicamente uniforme e cupa, ha cercato per quanto gli era possibile, di dare un po’ di varietà e forza. Ed in parte è riuscito.
Oreste Bilancia è in una delle sue migliori interpretazioni. Ha compresso bene il suo Max e lo ha impersonato come sa far lui.
Per Alfonso Cassini non occorrono parole. Ha momenti superbi nel ruolo del vecchio Landi.
Orietta Claudi è una graziosa… Grazia.
Terminiamo con una lode massima al maggiore autore dell’opera: Gennaro Righelli, che s’è ormai posto all’avanguardia dei direttori artistici. A lui è dovuto in massima parte il successo del film, come a colui che effettivamente l’ha costruito, pietra su pietra, donandogli il soffio di arte che lo anima, realizzandolo.
Fa bene al cuore e alla mente dir bene di cose belle e buone.
Adamo (La Cine-Fono, Napoli 10-26 aprile 1921)

La vergine folle – Tiber Film 1920

Maria Jacobini
Maria Jacobini

Prima visione romana: Cinema Modernissimo, novembre 1920

Avremmo voluto che gli americani e i tedeschi da poco partiti dall’Italia avessero veduta questa pellicola, e vorremmo che tutti i direttori e gli aspiranti direttori, tutti i riduttori, soggettisti o aspiranti idem, andassero a vedere e rivedere questa che non esitiamo a definire una perla della cinematografia. Chi non conosce il dramma di Henry Bataille non sa le difficoltà presso ché insormontabili che ha incontrato il riduttore Campanile Mancini nella sua aspra fatica.

La vergine folle è fatta più di dialogo che di situazioni. Le situazioni drammatiche anzi, sono determinate dal dialogo, che diventa così il tessuto principale del dramma, rendendolo difficilissimamente cinematografabile.

Gaetano Campanile ha assolto il suo compito con l’entusiasmo d’un poeta e con la compiutezza d’un artefice provetto, e ci ha data la prova che per un uomo d’ingegno che abbia compreso che cosa è il cinematografo, non esiste il « non cinematografabile ».

Maria Jacobini ha fatta la creazione d’un personaggio, che per quanto un po’ diverso, per necessità, da quello del dramma teatrale, è ammirabile.

Abbiamo vista e rivista la pellicola e la magistrale interpretazione dell’umanissima attrice nostra ha fatto affacciare alle palpebre le medesime lacrime, increspare le labbra al medesimo sorriso ai medesimi gesti, sempre. Troppo lungo sarebbe elencare le scene che più sono belle, che più ci hanno appassionati. Diremo solo che la grande Maria riesce  « ad esser bambina » e « casta » fino al quarto atto, al momento in cui il fratello mette l’uomo da lei amato in pericolo di morire. È solo di fronte alla morte ch’essa diventa donna. Prima, con un amante che ha moglie, nel vortice d’una passione che i più timorati possono definire colpevole, la Jacobini è « fanciulla » è « casta » è « vergine », e questo stranissimo contrasto impressiona principalmente coloro che non lo anatomizzano e non se lo spiegano. Nel quarto atto, quando è già pronta all’estrema rinuncia, essa chiede ad Armaury: « Puoi tu proclamare che son io quella che tu ami? » Alla risposta affermativa, essa che non voleva che quella parola per compiere serena la grande rinunzia: morire — esprime la terribile gioia, la mortale gioia che la invade con un gesto che nessuna attrice cinematografica del mondo ha saputo trovare pari in efficacia e passione. E non ci si dica che esageriamo, perché nessun Chaplin, che pure alimenta con la sua gesticolazione le platee di migliaia di cinema, nessuna Negri, che ha avute delle interpretazioni meravigliose può gareggiare in « umanità » con questa troppo modesta donna italiana.

Tilde Teldi si è rivelata attrice di razza, meravigliosamente a posto nella sua parte, sicura, perfetta. Quando nel quarto atto, fra due porte, fa l’atto di abbracciare il marito si sente veramente un nodo alla gola.

Enta Drubezkoy ha efficacemente colorite le sue brevi e drammatiche scene. È la prima volta che posava in cinematografia. e davvero il suo è stato un eccellente debutto.

André Habay può essere giudicato con una brevissima frase: Non c’è nessuna differenza fra il vederlo sullo schermo o nella vita. È tale e quale. La sua semplicità, la sua spontaneità, la sua naturalezza danno, in certi momenti, anche al critico consumato e stufo l’idea di trovarsi di fronte alla realtà e non alla finzione.

Alberto Collo e Alfonso Cassini hanno gareggiato in bravura e non avrebbero potuto secondare meglio gli sforzi del riduttore e del direttore.

La fotografia è spesso brutta, talvolta pessima, veramente e solo negli interni bella. È la macchia del lavoro, uno dei pochissimi e più grandi difetti.

Gennaro Righelli. È il protagonista del film benché non appaia sullo schermo.

La vergine folle è un lavoro vecchio di due anni. Se fosse uscito in tempo avrebbe detto una parola nuova in cinematografia, uscito in ritardo è avvolto in un’aria di freschezza che sorprende. Con questa pellicola Righelli, con Gallone e qualche rarissimo altro, passa nell’olimpo dei direttori.

Egli non è solo un metteur en scène. È un poeta, è un pittore, è un musicista. È principalmente, una artista prodigio, pazzamente prodigio, che profonde tesori del suo ingegno e del suo cuore da gran signore, sicuro di non aver bisogno di fare delle economie, perché in un nuovo film troverà ancora e sempre cose nuove, belle, forti, graziose. Tutti gli attori sono « manovrati » — non s’adontino gli artisti di questo verbo — con una sicurezza di grande generale, con il gusto di un grande poeta. Per esprimerci con un paragone: ci sembra che tutta la pellicola sia un quadro perfetto, in cui ogni attore è una pennellata: una sinfonia in cui ogni attore ed ogni cosa è una nota, ogni pausa un accordo, ogni titolo un’armonia. È l’anima pittorico-musicale di questo meridionale trasognato che si rivela nella sua opera riboccante di sentimento e di poesia.

Conclusione: non un bel film, ma un autentico capolavoro giudicato tale dal critico più competente: il pubblico, che ha applaudito al freddo schermo come se su di esso si movessero degli uomini e non delle ombre.

Beatrice Cenci – Pittaluga Film 1926

Beatrice Cenci 1926
Una scena del film

Torino, settembre 1926.

Il personaggio di Beatrice Cenci, figura viva della nostra storia lontana, già più di una volta aveva attirato l’attenzione di direttori artistici dello schermo, ai quali non sfuggiva la constatazione del grande lavoro che con essa protagonista  si sarebbe potuto ricavare. Ma anche quelli che, dopo molta esitazione e molto studio si erano accinti alla grande prova, sempre avevan poi piegato di fronte ad uno o l’altro ostacolo presentandosi improvvisamente dinanzi.

Luciano Doria, soggettista di grido e tra i migliori italiani, non ha invece esitato punto a trattare il difficile argomento allorquando la Pittaluga-Film gliene propose la sceneggiatura. Alacremente  studiando, in breve volger di tempo egli è riuscito ad approntare un copione dalle linee grandiose e che, pur presentando il fatto storico della vita di Beatrice Cenci, svaria in una infinità di particolari, i quali, anche se la storia non ricorda, certo non hanno potuto a meno di integrare l’esistenza travagliata della bella figlia del Cenci. Questo soggetto affidato alle cure di un direttore artistico sperimentato quale è il Conte Baldassarre Negroni e con protagonista la nostra bella Maria Jacobini, non poteva a meno di far prevedere la creazione di un nuovo lavoro, non solo degno del massimo rispetto, ma destinato certo a lasciare una impronta duratura nell’arengo cinematografico nostro ed internazionale, oltre che segnare poi in maniera  particolare una bella nuova vittoria per Maria Jacobini.

Ricostruite con attenzione massima e ricerca assoluta del particolare negli stabilimenti di Madonna di Campagna i quartieri popolari della Roma Papale del XVI Secolo, l’interpretazione vera e propria del soggetto ha richiesto quattro mesi ininterrotti di lavoro.

La ricostruzione e le scene sono opera pregevolissima di due noti scenografi italiani, di cui il primo già alla Pittaluga-Film da parecchi anni, Giulio Lombardozzi ed il secondo, Domenico Gaido, giuntovi in questi ultimi mesi appunto per la realizzazione di Beatrice Cenci a fianco del collega.

Dell’interpretazione del film, data la presenza nel complesso artistico di Maria Jacobini è quasi ovvio parlare, giacché la programmazione del film è già stata iniziata.

Ma anche gli attori, considerati ciascuno particolarmente a se, dicono alto il valore che può assumere un ruolo affidato alle loro cure.

Franz Sala, Raimondo Van Riel, Gemma De Santis, Maria De Valencia, Lillianne Lill, Caterina Collo, Ida Morus, Nino Beltramo, Celio Bucchi per non citare che i primi del lungo elenco, possiedono già tutti una spiccata personalità di fronte al pubblico, il quale quindi, con gli interpreti di Beatrice Cenci non si trova di fronte ad attori nuovi, bensì va incontro a cari amici, a figure già molto favorevolmente note della nostra arte muta.

Di Beatrice Cenci però, mentre si ottiene il giudizio italiano è già stata iniziata la vendita all’estero, ed esso (a parte la grande attrazione destata per la nuova grande interpretazione della regina delle dive del nostro schermo, Maria Jacobini), per il soggetto in se, molto rapidamente ha avuto un esito ottimo. La figura leggendaria della sfortunata figlia del Cenci, passata alla storia per la crudeltà del padre e per quanto di lei scrisse il grande Stendhal nel secolo scorso e più recentemente, in Italia, Corrado Ricci, non ha mancato di suscitare viva attenzione, tanto più poi che ancor oggi, a distanza di secoli, non si è certi nell’affermare che la dolorosa fanciulla abbia avuto veramente parte all’uccisione del suo perverso padre.

La figura di Beatrice, che viene presentata nel film interpretato da Maria Jacobini, ha assunto un aspetto di martire, quello cioè che pare più attendibile fra le due versioni storiche, ed accertante l’innocenza della donna, mentre in tutto il lavoro e poi il susseguirsi ininterrotto delle passioni torturanti e delle speranze vane nel domani di una donna dalla bellezza fatale.
(da Films Pittaluga)