
Prima visione romana: Cinema Modernissimo, novembre 1920
Avremmo voluto che gli americani e i tedeschi da poco partiti dall’Italia avessero veduta questa pellicola, e vorremmo che tutti i direttori e gli aspiranti direttori, tutti i riduttori, soggettisti o aspiranti idem, andassero a vedere e rivedere questa che non esitiamo a definire una perla della cinematografia. Chi non conosce il dramma di Henry Bataille non sa le difficoltà presso ché insormontabili che ha incontrato il riduttore Campanile Mancini nella sua aspra fatica.
La vergine folle è fatta più di dialogo che di situazioni. Le situazioni drammatiche anzi, sono determinate dal dialogo, che diventa così il tessuto principale del dramma, rendendolo difficilissimamente cinematografabile.
Gaetano Campanile ha assolto il suo compito con l’entusiasmo d’un poeta e con la compiutezza d’un artefice provetto, e ci ha data la prova che per un uomo d’ingegno che abbia compreso che cosa è il cinematografo, non esiste il « non cinematografabile ».
Maria Jacobini ha fatta la creazione d’un personaggio, che per quanto un po’ diverso, per necessità, da quello del dramma teatrale, è ammirabile.
Abbiamo vista e rivista la pellicola e la magistrale interpretazione dell’umanissima attrice nostra ha fatto affacciare alle palpebre le medesime lacrime, increspare le labbra al medesimo sorriso ai medesimi gesti, sempre. Troppo lungo sarebbe elencare le scene che più sono belle, che più ci hanno appassionati. Diremo solo che la grande Maria riesce « ad esser bambina » e « casta » fino al quarto atto, al momento in cui il fratello mette l’uomo da lei amato in pericolo di morire. È solo di fronte alla morte ch’essa diventa donna. Prima, con un amante che ha moglie, nel vortice d’una passione che i più timorati possono definire colpevole, la Jacobini è « fanciulla » è « casta » è « vergine », e questo stranissimo contrasto impressiona principalmente coloro che non lo anatomizzano e non se lo spiegano. Nel quarto atto, quando è già pronta all’estrema rinuncia, essa chiede ad Armaury: « Puoi tu proclamare che son io quella che tu ami? » Alla risposta affermativa, essa che non voleva che quella parola per compiere serena la grande rinunzia: morire — esprime la terribile gioia, la mortale gioia che la invade con un gesto che nessuna attrice cinematografica del mondo ha saputo trovare pari in efficacia e passione. E non ci si dica che esageriamo, perché nessun Chaplin, che pure alimenta con la sua gesticolazione le platee di migliaia di cinema, nessuna Negri, che ha avute delle interpretazioni meravigliose può gareggiare in « umanità » con questa troppo modesta donna italiana.
Tilde Teldi si è rivelata attrice di razza, meravigliosamente a posto nella sua parte, sicura, perfetta. Quando nel quarto atto, fra due porte, fa l’atto di abbracciare il marito si sente veramente un nodo alla gola.
Enta Drubezkoy ha efficacemente colorite le sue brevi e drammatiche scene. È la prima volta che posava in cinematografia. e davvero il suo è stato un eccellente debutto.
André Habay può essere giudicato con una brevissima frase: Non c’è nessuna differenza fra il vederlo sullo schermo o nella vita. È tale e quale. La sua semplicità, la sua spontaneità, la sua naturalezza danno, in certi momenti, anche al critico consumato e stufo l’idea di trovarsi di fronte alla realtà e non alla finzione.
Alberto Collo e Alfonso Cassini hanno gareggiato in bravura e non avrebbero potuto secondare meglio gli sforzi del riduttore e del direttore.
La fotografia è spesso brutta, talvolta pessima, veramente e solo negli interni bella. È la macchia del lavoro, uno dei pochissimi e più grandi difetti.
Gennaro Righelli. È il protagonista del film benché non appaia sullo schermo.
La vergine folle è un lavoro vecchio di due anni. Se fosse uscito in tempo avrebbe detto una parola nuova in cinematografia, uscito in ritardo è avvolto in un’aria di freschezza che sorprende. Con questa pellicola Righelli, con Gallone e qualche rarissimo altro, passa nell’olimpo dei direttori.
Egli non è solo un metteur en scène. È un poeta, è un pittore, è un musicista. È principalmente, una artista prodigio, pazzamente prodigio, che profonde tesori del suo ingegno e del suo cuore da gran signore, sicuro di non aver bisogno di fare delle economie, perché in un nuovo film troverà ancora e sempre cose nuove, belle, forti, graziose. Tutti gli attori sono « manovrati » — non s’adontino gli artisti di questo verbo — con una sicurezza di grande generale, con il gusto di un grande poeta. Per esprimerci con un paragone: ci sembra che tutta la pellicola sia un quadro perfetto, in cui ogni attore è una pennellata: una sinfonia in cui ogni attore ed ogni cosa è una nota, ogni pausa un accordo, ogni titolo un’armonia. È l’anima pittorico-musicale di questo meridionale trasognato che si rivela nella sua opera riboccante di sentimento e di poesia.
Conclusione: non un bel film, ma un autentico capolavoro giudicato tale dal critico più competente: il pubblico, che ha applaudito al freddo schermo come se su di esso si movessero degli uomini e non delle ombre.