
Roma, 21 settembre 1940
Ad «Addio giovinezza » risale il mio primo contatto con il cinematografo. Non riesco a ricordare se fu durante le vacanze o un giorno che non ero andato a scuola: quello che ricordo è una mattina di sole, primavera inoltrata o principio di autunno.
Sul grande prato fra Piazza di Siena e la Casina delle Rose incontrai il cinematografo. Si era radunata un po’ di folla intorno alla macchina da presa e agli inservienti che reggevano i riflettori di stagnola. Sulla strada erano ferme alcune automobili con le tendine misteriosamente abbassate: dall’automobile uscì un personaggio truccato, poi un secondo, L’uomo era Augusto Bandini, un caratterista che ricordo in altri film muti, la donna una generica, Si doveva girare una scena in cui Leone vive l’avventura che poi racconterà abbellita agli amici, C’erano anche Carmen Boni e Walter
Slezac, ma senza trucco.
Ricordo che Bandini, sospinto violentemente, doveva andare a urtare una signora, una specie di granatiere in gonnella. Augusto Genina, lo ricordo con lo stesso viso di oggi, fece ripetere la scena tre o quattro volte, incontentabile.
Appartenevo allora ad una società ginnastica che ha la sua sede lungo le mura pinciane. Qualche giorno dopo un altro amico ci chiese se avremmo voluto partecipare ad una scena per il cinematografo. Andammo di mattina presto a Piazza di Siena, a mettere in mostra le nostre qualità atletiche, In mezzo a noi c’era Slezac, il Mario della terza edizione, anch’egli in maglietta e mutandine. Si doveva girare la scena in cui Elena — era Elena Sangro — incontra per la prima volta Mario. La fatalissima stava sul poggiolo avanti alla casina dell’orologio, avvolta in veli e pelliccie, come se si fosse trattato di una serata di gala all’Opera.
Il film però lo vidi molto tempo dopo, in un cinema rionale che adesso non esiste più, insieme a un gruppo di compagni e compagne di scuola. Ricordo che ci commovemmo tutti ai casi di Dorina e al suo doloroso amore. Quando dal ponte Dorina salutava il treno che porta via per sempre il suo amore avevamo un nodo alla gola, e, a luce riaccesa, potemmo constatare che le ragazze avevano gli occhi lucidi di pianto. Questo ricordo ha un particolare significato poichè con noi c’era Maria Denis, quella che sta per essere la quarta Dorina che conoscerà il pubblico italiano.
Qualche anno è passato, non tanti ma neppure pochi, e adesso Dorina torna per la quarta volta sullo schermo. Quali siano le ragioni di questa vitalità dell’opera di Camasio e Oxilia, non sapremmo forse dire troppo bene. Ma le sentiamo, vecchi sentimentali, non per età ma per il tempo da cui crediamo all’immortalità di certi sentimenti, ci lasceremo sempre prendere dalla mestizia della storia di Dorina, tanto vecchia e tanto nuova, che trova risonanza nella vita di ciascuno di noi. Si può avere il cuore arido e aver sempre aspirato alla carriera di agente delle imposte ma una volta ciascuno ha avuto vent’anni alla maniera di Mario, e in fondo al cuore avrà un indistinto rimorso per una Dorina che si chiamò magari Elvira.
Nino Oxilia era un poeta, e si è poeti soltanto perché si è avuto dalla Provvidenza il divino dono di saper scegliere, fra i casi della propria vita, quelli che hanno risonanza nell’animo di tutti. Quando si tocca una corda la cui nota ha il potere di echeggiare su ogni parete, anche la più piatta, l’opera di poesia è compiuta né verrà il giudizio di nessun critico a stroncarla.
Quella di Camasio e Oxilia è, nel genere romantico, un’opera perfetta. Ha la profondità di richiamo di una canzone napoletana: sul piano estetico avrà magari assonanza con le romanze di Tosti ma nessuna critica avversa potrà diminuire il richiamo che esercita sul pubblico.
No, forse profondità non c’è. Almeno se vogliamo tenere in concetto di profondità l’analisi minuta, fondata su dei canoni precisi e senza possibilità di deflezioni, Ma la profondità è nel sentimento che la storia suscita, in quell’ondata indistinta di ricordi, di sensazioni. Il merito degli autori è stato soprattutto di avere scritto un’opera che ha sempre vent’anni e che ha, soprattutto, il merito di ricordare a tutti quell’età favolosa che non è soltanto una stagione, ma la sintesi della vita. E in fondo ad una vita triste, accorata, troppo convulsa o troppo noiosa ci sarà sempre, per ognuno, il ricordo dei vent’anni ad accendere un sorriso che non è soltanto di melanconia.
Per questo, in fondo, quella di Dorina è una favola. Si chiamano favole quelle storie in cui ciascuno può specchiare i sogni
che non ha osato avere.
Ancora una volta, dunque, Dorina tornerà. La fanno rivivere ogni domenica gli attori delle compagnie filodrammatiche. L’ha fatta rivivere un’operetta che ha girato a suo tempo tutta l’Italia e che ancora qualche volta arriva fino al nostro studio dall’apparecchio radio del vicino. Tre volte fino ad oggi, il cinema ha dato un volto preciso a Dorina: fu Laetitia Quaranta nella prima, Maria Jacobini nella seconda e Carmen Boni nella terza.
Carmen Boni portava allora i capelli cortissimi e le vesti cortissime. È stata una Dorina nella sua epoca, uguale alle ragazze che gli adolescenti vedevano passare frettolosamente lungo le vie illuminate alle sette del pomeriggio. Per noi, a cui i trent’anni non sono più una mèta, il volto di Dorina resterà quello, tanto simile ai volti che incontriamo in certe fotografie ingiallite, ricordo di gite scolastiche, che non abbiamo mai il coraggio di buttar via.
Adesso torna Dorina con un altro volto, quello di Maria Denis. Un volto caro al pubblico, specialmente al pubblico più giovane. Ma anche noi andremo a rivederla e al ricordo vecchio si sovrapporrà quest’altro, ma delle due immagini confuse non avremo alcun fastidio perché quanto resterà in fondo a noi sarà sempre un volto ideale, che assomiglia in modo impressionante a una donna che rivediamo di tanto in tanto e che tiene per mano due bambini che non sono i nostri.
Vogliamo sperare soltanto che il film sia messo in circolazione subito, appena finito. Nei giorni in cui l’ottobre declina nel novembre. Allora, quando usciremo dal cinematografo, dopo aver incontrato di nuovo Dorina, ci sarà facile ritrovare nei viali bui, nello scricchiolio delle foglie ingiallite sotto i nostri piedi, nell’odore di caldarroste che si sprigiona da ogni cantonata, l’atmosfera della sessione autunnale di laurea. E ritroveremo la profonda malinconia di un attimo in cui la vita sembra finita, insieme ad un mucchio di libri gialli sgualciti che non servono più.
Umberto de Franciscis