Malombra di Antonio Fogazzaro, Cines 1917

Amleto Novelli e Lyda Borelli in Malombra di Fogazzaro Cines 1917

Il nome del mite e grande romanziere vicentino imporrebbe al critico, prima di addentrarsi nella disanima dell’opera cinematografica, di parlare del romanzo dal quale l’opera stessa fu tratta, quantunque per principio io soglia giudicare le films per se stesse, nella particolare loro forma e in rapporto alle conquiste, al progresso e alle condizioni cinematografiche del momento in cui esse vengono proiettate, senza curarmi affatto della loro fonte.

Tuttavia, ogni regola soffre la sua eccezione, e qui cadrebbe assai acconcio ammetterla. Ma… io mi guarderò bene dal rileggere il romanzo di Fogazzaro, e farei altrimenti se credessi che il parlarne potesse giovare al film, o se farne il sunto sul testo potesse giovare al « soggetto » o servisse a decorare maggiormente l’opera.

Basta dare una scorsa al prolisso manifestino che — caso raro — è abbastanza bene redatto, per convincersi che Fogazzaro non è stato trattato con quel rispetto che il suo nome meritava. Non cito questo caso perché da simili sunti si debba senz’altro formulare un giudizio qualsiasi su ciò che può essere una proiezione; oh! no; il Cielo me ne guardi! La citazione mi vien suggerita dal fatto che per un attimo — altro caso raro — quest’umile foglietto volante riproduce fedelmente tutta l’azione del dramma nell’esatta forma in cui vien proiettato. Forma che non è soltanto estranea a Fogazzaro, ma a qualsiasi romanziere, per quanto novellino.

Prescindendo dalla protagonista — di cui dirò in seguito — io mi domando quale soffio d’arte e di pensiero anima in questo lavoro i personaggi, e se talora essi sono veramente personaggi o non piuttosto delle ombre che girano attorno alla figura maggiore, che vanno, vengono senza scopo, e spesso senza una ragione qualsiasi. Degli esseri imbarazzati ed imbarazzanti, che mostrano di esser vivi, soltanto perché si muovono. La loro azione, nel soggetto, è quasi nulla; oppure non è appena accennata, che tosto è finita. Entrano per caso; fanno parte del dramma come gente di passaggio, direi quasi come gente chiamata … ad aiutare Lyda Borelli a sopportare le 5 parti del lavoro, nelle quali par davvero si trovi molto imbarazzata.

No! così non deve aver pensato Fogazzaro. Non bastava seguire pedissequamente lo scritto del romanzo; bisognava estrarne l’anima. Non bastava far muovere gli attori; bisognava farli vivere. Non bastava farli parlare, bisognava farli esprimere. Ed infine, non bastava farli partecipare all’azione, ma bisognava che fossero parte dell’azione.

Questo errore avviene sempre quando si parte da un preconcetto: ci si fissa in quello e si perde l’esatta visione di tutto ciò che a quello non fa capo.

Si è pensato a Malombra, e da questa a Lyda Borelli; o forse si è pensato a Lyda Borelli e si è trovato per lei Malombra. Tutto il resto non fu considerato che come accessorio più o meno trascurabile. Al di fuori di lei non vi è un carattere, non vi è un tipo; non vi è neppure un personaggio. Vi sono degli attori, come vi sono dei mobili sui quali la protagonista può assidersi, stendersi o appoggiarsi.

Lyda Borelli, ormai, nel campo cinematografico è, fra le artiste drammatiche, quella che maggiormente si è affermata. Senza perdere nulla, o assai poco, del suo carattere di artista della scena, essa ha saputo ottimamente modellare la sua virtuosità in questa nuova forma rappresentativa, in modo da imprimerle — dirò così — una fisionomia tutta speciale e sua propria. Ed infatti ricordo fin dalla sua prima manifestazione, in Ma l’amor mio non muore, di essere stato colpito dalla sua forma d’arte, più che dalla sua interpretazione, ch’è pure fra le maggiori che in cinematografia si siano viste.

Molto si è discusso; molto si è detto sulle sue interpretazioni, e molto si è errato; sia che la si volesse portare ai sette cieli, che farla discendere al livello d’una attrice qualsiasi. Ho potuto constatare che molto spesso, tanto i denigratori, che i laudatori, si trovavano nella singolare condizione di avere egualmente torto e ragione.

Egli è che forse nessuna delle due parti pensava, non già alla possibilità d’un punto di vista diverso, ma ad un fatto semplicissimo: cioè, che non è una interpretazione nuova o speciale quella che ci dà la Borelli, ma una forma d’arte nuova. Essa è più efficace che espressiva; più plastica che impressionante; più artistica che vera. L’insieme di queste parti, positive e negative, genera quell’equivoco nel quale molti sono caduti nell’emettere un giudizio assoluto sulle sue manifestazioni, sia traendolo da una qualità positiva, a cui si poteva contrapporre una qualità negativa, che viceversa. Comunque si pensi, la Borelli resta sempre la maggiore interprete del campo cinematografico italiano, non ostante i suoi difetti. Vi sarà a chi non piace, ma il gusto non può emanar decreti, né in arte ha mai dettato legge.

Ho creduto necessario quest’affermazione, in quanto ché in Malombra essa mi è apparsa al di sotto della sua fama. Quantunque il dramma graviti tutto su di lei, non è certo detto che le manchino le forze per poterlo reggere, — che ben altri pesi ha sopportato, di gran lunga maggiori —; sono gli appigli che le mancano, sui quali potersi attaccare; ragione per cui il dramma minaccia ad ogni istante di scivolargli di mano.

Se un cosiffatto lavoro la Borelli dovesse svolgerlo di seguito, come sulla scena, arriverebbe al quinto atto •esausta, come se avesse fatto una lunga corsa contro vento con un ombrello aperto in mano.

Non voglio nemmeno ammettere un istante che le si debba ascrivere a deficienza di virtuosità artistica, l’assenza di progressività che essa ci dovrebbe dare nella manifestazione dei sintomi di alienazione mentale  che esiste indubbiamente nel romanzo — da poi ché tutto il romanzo è imperniato su questa alienazione progressiva. È quella che ci dà Ibsen di Osvaldo, negli Spettri. La riduzione cinematografica ebbe di mira più il fatto che lo studio; e di questo fatto non v’è materia solida che alla semi-finale: quando Malombra irrompe nella camera del moribondo. Ecco la deficienza.

Dopo detto questo, dovrei parlare della decorazione che, se togli la festa di fiori sul lago, c’è ben poco di veramente bello.

Degli interni non parliamo; fatta eccezione della biblioteca — per la sua forma grandiosa —della loggia, un semi-esterno con un buon effetto di luce, il resto non è all’altezza della « Cines ». Quell’interno del castello, dipinto a chiaro-scuro, e quella stanza piena di fiori, che hanno tanto preoccupato l’operatore al punto di non lasciarci capire se si tratta di una stanza o di un recinto qualunque, sono tutt’altro che capolavori di mise-en-scène.

La fotografia è ottima per chiarezza e nitidezza.

Ed ora si dirà che la critica anche questa volta si è mostrata severa. E sia; ma si tratta di una grande Casa; si tratta della « Cines » che ha mezzi a dovizia, e personale artistico di prim’ordine. Da questa Casa non possiamo accettare delle manifestazioni deficienti od incomplete, poiché ci ha abituati a lavori che hanno tracciato un solco nella storia della cinematografia italiana.

Pier Da Castello
(La Vita Cinematografica)

Malombra – Cines 1917

Lyda Borelli e Amleto Novelli in una scena di Malombra, Cines 1917
Non so nulla, non ricordo nulla. Non ho vissuto mai, mai tranne adesso. Sapevo solo che sarebbe venuto, questo momento. Ho la frenesia di goderlo. (Lyda Borelli e Amleto Novelli in una scena di Malombra)

Tra i tentativi d’arte che, da serie parti, per varii modi, cercano di sollevare la cinematografia a più alte ambizioni Malombra è da segnarsi tra i maggiori e tra i migliori. Ancora si discute periodicamente, nei giornali che hanno spazio e tra le persone che hanno tempo da perdere, se la cinematografia possa o no essere un’arte. Più che le risposte date alle inchieste parlano, già affermativamente, i fatti. Quando la fantasia d’uno scrittore, lo stile di un’attrice, la genialità d’un direttore di scena e l’arte di un fotografo compongono uno spettacolo come Malombra le discussioni su le possibilità della cinematografia sono tempo perduto: l’arte è già raggiunta.

In Malombra coesistono la meravigliosa plasticità di un’attrice e l’atmosfera tragica liricamente creata da un metteur en scène. Queste due armonie e queste due bellezze relegano in secondo piano, per parlare in stile cinematografico, l’interesse stesso dell’azione drammatica. La plastica dell’attrice e l’atmosfera in cui questa si muove creano in noi un’emozione artistica ed estetica, vaga, imprecisa, inafferrabile, ma irresistibile, oserei dire musicale poiché come quella della musica è fatta d’indeterminato e d’indefinito.

Lyda Borelli con la sua bellezza, con la sua arte d’atteggiamento, con la sua linea severa e pura, compone ormai figure di così potente espressione tragica per cui bisogna augurare all’attrice insigne di doversi misurare nella composizione della maggiore tra le figure tragiche create dalla fantasia dei poeti. Pensavo ieri, seguendo l’attrice in alcune scene di Malombra, alla bellezza ch’ella potrebbe raggiungere se dovesse comporre su lo schermo gli atteggiamenti e le espressioni di Lady Macbeth. La figura dell’attrice si stacca, nel quadro, con la purezza e la severità di linee d’una figura d’altorilievo. Sembra che un grande artista l’abbia plasticamente foggiata in innumerevoli immagini d’incontrastabile bellezza.

Attorno a quest’arte così fatta di elementi suggestivi occorreva creare la suggestione del quadro, quell’atmosfera che la linea, il paesaggio, il colore compongono attorno alla figura. Già Carmine Gallone aveva, con Lyda Borelli, raggiunto quest’armonia nella Marcia nuziale e nella Falena. Mai l’aveva tuttavia così interamente raggiunta come in Malombra. Qui l’artista che è Carmine Gallone crea in ogni quadro, interno od esterno, la cornice che conviene alla bellezza della figura tragica. Lo scenario, il colore, il taglio del quadro, l’effetto di luce, tutto concorre a creare l’atmosfera suggestiva in cui la figura naturalmente e spontaneamente respira. Nulla è lasciato al caso e agli accomodamenti delle messe in scena solite, governate da un criterio spicciativo ed approssimativo d’atelier industriale. Il teatro in cui un’attrice come Lyda Borelli e un direttore come Carmine Gallone compongono un spettacolo estetico come Malombra è casa d’arte.

Ogni particolare ha il suo fine e la sua armonia, ogni quadro, ha la sua poesia, ogni frammento ha la sua bellezza. E con quanta grazia, con quanto sapore elementi di commedia s’innestano in questo cupo dramma d’incubo e di follia in cui un’anima da sé stessa e in sé stessa crea la sua tragedia; basterà accennare al diffondersi del piccolo pettegolezzo mondano quando Marina rimanda al giorno dopo il suo matrimonio e ai quadri in cui, in un vecchio salone milleottocentotrenta, rivive, evocato magistralmente, tutt’il colore di un’epoca lontana. Lo spirito d’un poeta e l’occhio d’un artista sono presenti in ogni quadro di Malombra. Ed è certamente arte questa che avvia la riproduzione cinematografica per il grande cammino che, nei drammi e nella tragedia, può segnare il maggior tentativo artistico le arti figurative possono raggiungere alla musicalità che solo la poesia sa dare.

La gente che crede di poter pigramente far sempre della realtà di oggi la realtà di domani alza le spalle se si parla così. Per loro il cinematografo è destinato a rimanere — lui solo fermo nel mondo che va avanti — lo spettacolo grossolano e inconcludente dei films soliti; una attrice bella e popolare (che abbia talento, non importa), un soggetto qualunque tanto da tirarne fuori mille e cinquecento metri di gente che va e viene (che vada e venga  a dispetto del senso comune, non importa) e una messa in scena affidata al buon gusto e al criterio del capo-macchinista e al capriccio dei vecchi fondi da magazzino ( e che il risultato del bric-a-brac sia un’ira di Dio, non importa neppure! Fatto questo, un po’ di réclame a furia di grossi aggettivi e l’affare è riuscito. C’è, dicono, un capolavoro di più. Ma nessuno ci crede.

La Cines segue, fortunatamente, altre vie: quelle cioè, che conducono il Cinematografo all’arte, quelle per cui giunge a sostituire allo strepito degli aggettivi altisonanti — aggettivi tenorili e dentisti — l’autorità delle prove  vittoriose. Col Cristo in proporzioni gigantesche, con Malombra in proporzioni più adatte a una produzione frequente, il barone Fassini e i suoi collaboratori cercano e trovano un plauso che non è fatto di soldi agitati nelle cassette piene. In una casa d’arte questi artisti non cercano solo una ragione industriale al loro lavoro: gli cercano e gli trovano — è il loro vanto e il loro orgoglio — prima di tutto una ragione d’arte.

Non con l’a maiuscola di quelli che non sanno che cosa l’arte sia. Ma con l’a serio…

Lucio D’Ambra

Alla Cines mentre si gira Malombra

Una scena del film
Una camera di dolce stile arcaico…

Roma, agosto 1916. Di fuori, l’afa del pomeriggio è rotta da qualche fremito di brezza. Ma nell’interno del teatro il caldo è insopportabile. Nemmeno l’ombra delle tende, nemmeno gli ampi spiragli aperti qua e là nelle pareti di vetro, valgono ad attenuare la snervante intensità del calore. E, quel che è peggio, non è nemmeno possibile di mandare una imprecazione a Febo. Egli è il vero Dio del cinematografo, e come tale deve essere rispettato. Gli attori, infatti, almeno qualche volta, lo rispettano. I cachets, le umili e modeste comparse, lo venerano, lo adorano, lo invocano addirittura. È il loro tormento e la loro speranza. Conviene dunque sopportarlo… D’altra parte, il quadro che vi si presenta dinanzi agli occhi vi fa presto dimenticare l’afa opprimente.

Si gira Malombra. Osservate. Una camera di dolce stile arcaico. Non c’è alcun dubbio. Quella in fondo è Lyda Borelli. Una divinità. Le spalle statuarie, il volto bianchissimo, la lunga chioma disciolta che ha riflessi dorati, contrastano mirabilmente con le stupende forme del corpo modellate da una vestaglia nera, triste, solenne. Le sta accanto Amleto Novelli. Sul letto, sotto una coltre di damasco rosso, dorme Augusto Mastripietri. Più avanti, quasi in primo piano, siede Giulia Cassini-Rizzotto, l’attrice modesta e valorosa che ha dato al suo volto la maggiore austerità d’una parte vetusta sacrificandolo in una nobile e dignitosa parrucca grigia. Più avanti ancora si muove l’accurata eleganza di Francesco Cacace.

Carmine Gallone, il valoroso ed instancabile direttore artistico, segue, con occhio vigile e pronto, la mimica degli attori. Tutta la scena si svolge in silenzio. Solo l’operatore (Giovanni Grimaldi) si diletta ad alta voce di una sua speciale esercitazione aritmetica contando a più riprese i giri di manovella.

Il quadro è finito. Posso scambiare qualche parola con Lyda Borelli: ma per pochi istanti poiché l’affascinante attrice deve correre in camerino a prepararsi per una nuova scena. Posso anche stringere la mano all’amico Gallone che parla, discute, passeggia, ma non perde d’occhio il lavoro, non si distacca per un istante dall’opera ardua e magnifica che lo ha violentemente e completamente avvinto con tutti i suoi eccezionali requisiti per un tentativo cinematografico rinnovatore.

Gallone non è davvero un mestierante del cinematografo. In ogni suo lavoro apparisce una lucida impronta di dignità e di bellezza. C’è in lui una continua inquietudine di superamento, un ansia costante e febbrile di percorrere vie inesplorate, d’elevarsi verso più ardite forme d’originalità e di perfezione. Malombra è una creatura del suo sangue, dei suoi muscoli, del suo cervello. Egli solo poteva avere la forza a l’audacia di trasportare in cinematografia il romanzo di Fogazzaro, un romanzo così complesso, così vasto, così profondo, in cui l’elemento psicologico è fuso con l’elemento fantastico e tutti e due sono integrati da un soffio di vivo e possente lirismo.

Torna Lyda Borelli abbigliata per i nuovi quadri. La veste nera è ora sostituita da una veste bianca. Ma l’infinita bellezza del volto nulla ha perduto nel risalto nuovo. Quella di Lyda Borelli è sempre una figura stupenda, sia che l’adorni una toilette fastosa, sia che nella vita fittizia della scena, la ricopra un’umile e semplice veste. Solo così si spiega il grande fascino ch’ella ha saputo suscitare anche nell’amorfo e primitivo pubblico dei cinematografi.

Gallone mi lascia perché deve ancora girare una scena senza la Borelli. Ne approfitto per scambiare qualche parola con la valorosa e gentile amica. Ho anche la fortuna di trovare un angolo in cui s’apre un’ampia finestra tutta coperta d’edera: il lieve sospiro del vento attenua assai l’insopportabile calore interno. L’angolo è delizioso per una conversazione sentimentale. Ma, ahimè!, non si parla che di cinematografo. Sarebbe assurdo parlare d’altro quando, a pochi passi da noi, l’operatore continua il monotono conteggio dei giri della manovella…

L’argomento, forse, non è il più simpatico, ma la conversazione di Lyda Borelli è sempre piacevolissima. In quello che dice c’è una grande semplicità ed una grande sincerità. E tanto più la semplicità e la sincerità appariscono evidenti in quanto il cinematografo è un po’ il mondo dell’esagerazione. Se parlate con una delle più o meno celeberrime dive dell’arte — fortunatamente! — muta, non tardate a formarvi, se siete ingenuo, il convincimento che il cinematografo sia la più difficile, la più astrusa, la più complessa di tutte le forme di finzione scenica. Non troverete una « diva » che non vi sostenga, con la candida disinvoltura della mediocrità, di non avere trascorso lunghe notti insonni per prepararsi ad un’interpretazione, di non aver sudato quattro camicie nell’arduo e faticoso studio d’una figura da impersonare, di non aver sofferto e gioito dinanzi all’obiettivo cinematografico. Ah, le scimmie!…

Niente di tutto questo in Lyda Borelli. Ma Lyda Borelli è sopratutto una donna di una rara e squisita intellettualità. Il cinematografo? È quello che è; non è ancora quello che potrebbe essere. Una cosa come un’altra che ha il suo lato buono ed il suo lato cattivo, il suo lato facile ed il suo lato difficile, il suo lato trascurabile ed il suo lato interessante. Tutto dipende dal punto di vista.

Quanta modestia nelle parole dell’affascinante attrice. E quanta bontà! Voi potete, per inveterata abitudine del vostro spirito, compiacervi di qualche piccola perfidia, di quella sottile ed inoffensiva malignità intorno a questo mondo di « bluff » e d’esagerazione, ma Lyda Borelli non vi risponde se non con una parola d’indulgenza. Per questo nel regno dell’arte, ella gode del meritato privilegio d’una simpatia generale. Tutti le vogliono bene, tutti, amici e amiche, compagni e — caso più unico che raro — compagne, dai primi ruoli alle ultime comparse, ne parlano un senso d’infinita devozione, di gratitudine, di entusiasmo, d’affetto.

Le chiedo, naturalmente, la sua impressione su Malombra.

— Ne sono entusiasta, mi risponde. Il romanzo del Fogazzaro racchiude elementi cinematografici di una grande originalità. Basta con le solite vicende d’amore e d’adulterio! Occorre che il cinematografo si rinnovi e Malombra rappresenta davvero un magnifico tentativo di rinnovamento.

— Credete dunque che questo film susciterà molto interesse?

— Non ne dubito. La sua vicenda è così vasta ed intensa che dovrà necessariamente vincere tutte le esigenze del pubblico. E poi la Cines nulla risparmia perché anche questo film riesca un autentico capolavoro.

— Dopo Malombra di quali altri lavori cinematografici sarete interprete?

— Non so. Ma di cinematografo torneremo a parlare nella quaresima dell’anno venturo. Col 15 settembre ritornerò al teatro, al mio teatro, da cui mi sono allontanata per un breve periodo di necessario riposo.

Cerco ancora di raccogliere qualche indiscrezione, ma i direttori di scena non sempre sono gli alleati dei giornalisti. Una voce grida: « Signorina, tocca a lei! ». Così alla mia ultima domanda, Lyda Borelli, fuggendo, non può rispondere, che con un sorriso ed un gesto di desolazione.

Il sole comincia ad illanguidirsi.  Siamo agli ultimi quadri della giornata. Una forte scena fra Mastripietri e la Borelli ed una con la Borelli sola. Per quest’ultima è necessario l’intervento delle lampade Jupiter.

Lyda Borelli
Lyda Borelli

L’intensa luce irradia di violaceo la figura ieratica dell’attrice che, in primo piano, nello sfondo quasi mistico d’un piccolo « interno » atteggia il volto ad una magnifica espressione.

Finalmente, posso ipotecare Gallone per avere da lui qualche notizia più dettagliata intorno a questo eccezionale lavoro. Il giovane e valoroso direttore, gentilissimo, comincia col farmi passare nel secondo teatro del grande stabilimento al fine di mostrarmi alcune scene costruite espressamente per Malombra. Sono « interni » del castello antico, l’ambiente in cui l’azione si snoda e si sviluppa, sale vetuste e solenni riprodotte con uno squisito senso d’arte e con una mirabile fedeltà.

— È dunque vostra l’idea di trasformare in film questo strano e suggestivo romanzo del compianto scrittore?

— Sì, da molto tempo ne vagheggiavo l’idea; la Cines ha subito compresa tutta l’importanza di un’opera di questa mole e nulla ha trascurato per assecondare il mio proponimento…

— Eppure non tutti sono dell’opinione che Malombra contenga eccezionali requisiti di risalto cinematografico.

— Se vogliamo ostinarci a chiamare risalto cinematografico la solita avventura di passione e di morte, hanno ragione quelli che non vedono il film in questo romanzo del Fogazzaro. Ma se vogliamo considerare come risalto cinematografico l’originalità assoluta dello spunto e la novità della vicenda, la consistenza cinematografica di Malombra non può essere messa in dubbio. D’altra parte, opere così vaste e complesse debbono suscitare necessariamente un grande fervore di discussione. È tempo ormai che il cinematografo segua una via nuova. Oggi si sforza troppo per apparire teatro…

— Mentre il teatro è una cosa così diversa…

— Precisamente. Il cinematografo dovrebbe limitarsi a rendere quello che non è possibile rendere al teatro. Per questo mi sono appassionato a Malombra. La vicenda di questo romanzo è tale che solo le risorse della tecnica cinematografica possono rappresentarlo. Malombra contiene elementi di grande fascino per chi, come me, ha la convinzione che il cinematografo debba rinnovarsi. È un’opera che, per la sua fusione di fantastico e si psicologico, può stare fra la Falena e Avatar.

— Credo che la riduzione cinematografica di un lavoro come questo debba presentare grandi difficoltà.

— Non è certamente un compito facile. Ma io l’ho assunto con entusiasmo e con fede. La maggiore difficoltà consisteva nella sceneggiatura: m’è costata venti giorni d’intenso, febbrile, gravoso lavoro ma l’ho superata felicemente. Ne sono soddisfatto.

— Fra quanti giorni il film sarà pronto?

— Occorreranno ancora due mesi. Dobbiamo metterci in giro per l’Italia per riprendere gli esterni più suggestivi e pittoreschi dei nostri laghi. Anche per la messa in scena Malombra costituirà un lavoro d’eccezione. Sarà certamente uno degli avvenimenti memorabili del prossimo autunno, che pure si ripromette così denso di grandi premières.

La Cines, con la tradizionale signorilità, non mi ha limitato i mezzi, poiché vuole che il film sia in tutto e per tutto degno dei precedenti. Per mia parte ne sono troppo entusiasta, sono troppo preso della grande bellezza di un’operazione così originale e suggestiva, per non esserne convinto del successo. Anche l’interpretazione sarà degna del lavoro. La Borelli ha completamente e perfettamente assimilato lo spirito della strana e complessa figura che deve rappresentare. Ci darà una nuova interpretazione in cui l’efficacia psicologica sarà superbamente integrata da mirabili espressioni estetiche. Come nei precedenti lavori ammireranno in lei l’acuto e sottile senso di assimilazione e la plastica meravigliosa. Anche questa volta, insomma, ho trovato nella Borelli un consenso spirituale che, per me, è la più bella e la più gradita forma di collaborazione. Gli altri interpreti ne faranno degna corona: sono tutti nomi notissimi nell’arte nostra: la Cassini, il Cacace, il Novelli, il Mastripietri, ecc.

L’ora è tarda. Carmine Gallone che deve dividere la sua attività fra i teatri della Cines ed il servizio militare, mi tende la mano per correre frettolosamente al Ministero della Guerra ove l’attendono alcune ore serali di lavoro burocratico. Come riposo, dopo le aspre fatiche del giorno, non c’è male!…

Ugo Ugoletti
(Il Tirso)