(…) Ogni tanto nella D’Ambra Film di Roma il lavoro assumeva —considerati i tempi, il materiale e i locali — proporzioni gigantesche. Con due teatri di posa, uno grande e uno piccolo, nel 1919 furono realizzati contemporaneamente tre film di molta importanza: Amleto e il suo clown di Lucio D’Ambra, interpretato da Soava Gallone e Luciano Molinari, diretto da Carmine Gallone; Le Colonel Chabert di Balzac, ridotto da Lucio D’Ambra e da lui diretto, interpretato dal famoso vecchio attore francese Le Bargy; e Nemesis di Paul Bourget, ridotto e diretto da Carmine Gallone e interpretato da Soava Gallone.
La Soava Gallone era allora nel pieno fulgore della sua arte. I suoi successi, dovuti innegabilmente alla sua intelligenza e alla sua buona cultura, derivano però in gran parte dalla pazienza e dagli accorgimenti con i quali suo marito Carmine Gallone aveva saputo formarle una personalità artistica ponendo in rilievo tutti gli elementi e le possibilità che essa possedeva e che per il passato nessun direttore si era curato di scoprire e di valorizzare. Di una oscura attrice comprimaria interprete di brevi scene comiche e commedie musicali, Carmine Gallone era riuscito di fare un’attrice di valore e di importanza.
La Soava Gallone era polacca ma parlava l’italiano perfettamente. Gallone la curava e la vezzeggiava come una gallina che fa le uova d’oro e riusciva a creare intorno a lei una specie di insormontabile barriera che anche ai familiari era assai difficile scavalcare. Nella villetta che abitavano a Roma in via dei Villini, era quasi impossibile avvicinare la diva, a meno che non si trattasse di qualche giornalista straniero incaricato di una intervista. Soltanto allora avveniva il miracolo con una messa in scena squisitamente teatrale: la madre dell’attrice, una vecchia signora grossa, buona donna cerimoniosa e piagnucolosa, era tolta di circolazione e rinchiusa nella sua camera con una abbondante provvista di dolciumi; il cameriere rivestiva un gilet a righe verdi e blu con maniche nere di alpagas, pantaloni neri con il nastro di seta ai lati; la cameriera si trasformava in uno svolazzo di trine sulla cuffia e nel grembiule bianco inamidato. Gallone, con giacca di velluto nero e camicia bianca floscia, riceveva l’ospite nel suo studio. Egli parlava correttamente l’inglese, il francese e il tedesco, era un conversatore piacevole, astuto, intelligente, insinuante, signorile. Nulla vi era in lui, mai, delle volgarità tecniche esteriori e mestieraiuole che accompagnavano allora gli uomini del cinema (quelli di oggi non so come si comportino), e quando egli era riuscito a creare un’atmosfera favorevole alla moglie, sotto tutti i rapporti, allora la diva faceva la sua comparsa. Gallone fu sempre il migliore agente di pubblicità di sua moglie, senza darsene naturalmente le arie, e studiava e lavorava per lei più che per se stesso. Faceva, insomma, sul serio il suo mestiere; e quando nel 1920 il castello incantato della cinematografia italiana si sfasciò all’improvviso, anche Gallone andò all’estero come tanti altri per continuare a lavorare, ma scelse il paese più difficile da conquistarsi: non l’America con il miraggio di Hollywood, ma l’Inghilterra. E riuscì ad imporre la sua regia, i suoi scenari, e la moglie come attrice.
Un altro tipo curioso di casa Gallone, messo al bando durante le visite importanti, era il fratello della Gallone: un biondiccio alcolizzato, bolscevico fervente, che negli inverni mitissimi di Roma riparava la sua delicata epidermide in una pelliccia degna di un granduca in borghese.
È giustizia riconoscere che nella D’Ambra Film la Soava Gallone non si atteggiava mai a superdonna nei riguardi delle altre attrici anche se occasionali, ed osservava con tutti un’aria di cameratismo affettuoso che il marito —tacitamente — non sempre approvava. Il suo camerino, ad esempio, era il più umile e il peggio situato. Quelli delle attrici di D’Ambra somigliavano invece a dei salotti molto intimi, adatti ad ogni cosa fuorché all’uso per cui erano destinati.
Sulla fine dell’anno 1919, nella D’Ambra Film si trovarono riuniti a lavorare la Soava Gallone, Luciano Molinari e il francese Le Bargy. Insieme a loro un numero impressionante di attrici e di attori minori, comparse e saltimbanchi di professione. Questi ultimi necessari ad alcune scene dell’Amleto e il suo clown che si svolgevano in un circo equestre.
Nelle ore di sosta per la colazione, tutti se ne andavano a casa loro per mangiare e nessuno li rivedeva più fino all’indomani mattina, all’infuori di D’Ambra, Le Bargy ed alcune attrici di contorno, per i quali in una sala della Direzione veniva imbandita una tavola da un curioso tipo di bettoliere che disimpegnava anche le funzioni di portiere dello stabilimento: era grosso e nerboruto, vero tipo di “romano di Roma” sempre sboccato litigioso ma cuoco di una certa abilità, benché ladro più del credibile. A molti della mia generazione potrà venire in mente la sua fisionomia perché nel 1913 comparve sugli schermi di tutta Italia nel film Quo Vadis? incarnando Tigellino.
Le Bargy apprezzava molto le pietanze di Tigellino ma detestava le sue manacce grasse e luride troppo spesso in intimo contatto col brodo e lo stufato. L’antipatia tra Le Bargy e Tigellino però era reciproca, e il povero oste che doveva sopportare una volta al giorno per qualche ora le fulminanti occhiate grigie del francese, si rifaceva come gli era possibile, ricoprendolo di vituperii romaneschi pronunciati sorridendo a guisa di complimenti, sicuro di farla franca perché il Le Bargy non capiva una sillaba d’italiano. (segue)
Alberto Viviani