Maria Jacobini

La lenta agonia dell’industria italiana

Maria Jacobini

L’esodo degli italiani all’estero – L’invasione degli stranieri in Italia

Torino, Marzo 1923

Il film: La Vie de Bohéme, ha ottenuto a Berlino un successo addirittura entusiastico, decretato da un pubblico sceltissimo, composto di alte personalità politiche, artistiche, letterarie. La presenza dell’Ambasciatore d’Italia, del Corpo Consolare e di un centinaio di giornalisti, ha dato alla visione un vero aspetto di avvenimento mondano e ne ha fatto un’affermazione d’italianità grandiosa.

Questo ci trasmette il nostro corrispondente (come in altra parte della Rivista pubblichiamo) e questo riferiscono i giornali berlinesi d’ogni forma e colore.

Ci sentiamo lusingati e i nostri migliori sentimenti d’italianità, non mai smentiti, sorretti da una fede indistruttibile in noi e nel nostro avvenire, si gonfiano di legittimo orgoglio. Che Gennaro Righelli fosse un maestro dell’inscenatura cinematografica; che Maria Jacobini fosse un’artista somma, tale che nessuna tedesca può pareggiare, sapevamo è ne eravamo persuasi; ma ci piace che il Neue Berliner 12 uhr an Mittag e il Vorwärts ce lo confermino dalle loro colonne non certo use a portare ai sette cieli l’opera di stranieri.

Tutto questo è bello, commovente se vogliamo, per ciò che riguarda la nostra idealità…

… Ma se, dopo il primo impeto di soddisfazione ideale scendiamo un po’ più terra terra e pensiamo alla praticità, a quel sacro egoismo che non certo solo di ideali si nutre, ma ch’è dovere d’un qualunque figlio d’una qualunque nazione…; se scendiamo ad analizzare in breve le conseguenze che tali successi (questo di cui parliamo non è nè il primo, nè l’ultimo del genere) sono per produrre alla causa cinematografica del nostro Paese, la gioia lascia in breve il posto allo sconforto, l’orgoglio alla vergogna, al dubbio, alla sfiducia,

I nostri migliori artisti, i migliori ingegni che l’Italia abbia prodotti nel campo dell’arte muta; quelli che gli stranieri ci invidiano e non osano uguagliare; quelli che il nome d’Italia fanno risonare alto e rispettato nelle platee dei teatri esteri, sono perduti per noi. Dopo aver resistito con tutte le loro forze alla crisi da noi imperversante, dopo aver tentato invano di esplicare le loro attitudini sotto il nostro ironico bel cielo, prima l’uno, poi l’altro, prima separatamente, quasi di nascosto, poi a frotte, hanno emigrato per lontani lidi: hanno dovuto emigrare là dove il lavoro è più sicuro, più saldamente organizzato, più rettamente condotto, e le Case estere si fregiano dei nostri più bei nomi e si valgono di essi.

Così, quando noi vorremo vedere le interpretazioni dei nostri migliori, dovremo comperare le pellicole dall’estero; e stranieri porteranno per i mercati di tutto il mondo i più quotati nomi italiani. Si vestiranno della pelle del leone, in apparenza, ma in effetto ne avranno tutti i guadagni e terranno per sé le spoglie opime.

E noi? Quando avremo una ripresa della nostra lavorazione — se pur l’avremo, è ormai il caso di dire — ci contenteremo di… ciò che ci rimane e che l’estero non ha voluto, e ci vedremo, naturalmente, sempre più chiuse le porte alla nostra produzione, mentre gli altri se le faranno spalancare alla propria dal lavoro e dall’ingegno italiano.

Risultato oltre ogni dire umiliante, oltre che economicamente disperante.

Abbiamo detto « se pur l’avremo », parlando della ripresa della nostra produzione, e con profonda malinconia, con amarezza somma abbiamo espresso questo dubbio angoscioso.

E tuttavia oggi, ormai, la superproduzione nostra è finita, la fabbricazione nostra, nonché bastare a mercati lontani, neppur più è tale da sopperire ad una parte della richiesta di films per i nostri teatri. Infatti, da tempo, nelle nostre sale non si proiettano quasi più che lavori stranieri, alcuni bellissimi, molti buoni, alcuni mediocri o scadenti addirittura, ma sempre tedeschi, americani, inglesi, scandinavi….. — Italiani? Gli ultimi che rimangono, da parecchi anni editati, anche; le scorie che finora erano state tenute in disparte, gli aborti da prima scartati. Non ce n’è altri, e nessuno ne fabbrica di nuovi.

Si assicurava che la primavera avrebbe portato un rifiorimento di lavoro; tutto faceva apparire logica la cosa. Riaprirà Tizio, riprenderà Caio, lavorerà Sempronio…

Ma la primavera è venuta, il tempo è più propizio, il mercato ha sete di lavori e li cerca lontano non trovandone in casa; e le Case cinematografiche rimangono ostinatamente chiuse. I nostri teatri, i migliori d’ogni luogo senza alcun dubbio, che non domanderebbero se non un più moderno e completo impianto di luce artificiale per essere insuperabili; vedono crescere le ragnatele sotto le loro volte vetrate, o si trasformano in magazzini…

Intanto, a Roma, a Napoli, nelle località più belle, più suggestive della nostra Italia, troupes di Case americane, ogni giorno più numerose, girano i loro films, magari ammettendo nelle loro file qualche elemento italiano, ma rubandoci il nostro cielo, il nostro mare, le nostre sublimi, storiche bellezze naturali, i nostri magnifici sfondi, i panorami invidiati, la nostra arte che nessun luogo e nessuno potrà mai uguagliare.

Così, mentre i nostri artisti lavorano per gli uni, gli altri sfruttano il nostro Paese. Rimarremo dunque inerti e passivi finché vedremo troupes d’italiani girare in Italia, usufruendo anche dei nostri teatri, a tutto vantaggio di Case straniere?

E poi ci si lagna se i mercati d’oltr’Alpe o d’oltre mare son chiusi alla nostra produzione… quando tutto quanto noi possiamo dare in uomini e in natura è da essi posseduto senza ricorrere a noi!

I nostri industriali non hanno capito ancora — forse non capiranno mai — che questa è la tomba della cinematografia italiana in quanto industria. Ma qualcuno più in alto di loro dovrebbe pur vedere quale fonte grandissima di guadagno si sta inaridendo; dovrebbe vedere tutta la convenienza economica, non solo, ma morale e politica (anche politica, sì) che sarebbe per l’Italia il far da sé e per sé anche nel campo cinematografico.

E tutto ciò non potrà essere compreso che da un Governo illuminato qual’è l’attuale, e geloso custode di quanto sia italianità, nazionalismo ben inteso.

Già prima che questo Ministero sorgesse, un Ministro, S. E. Teofilo Rossi, aveva ricevuto a Roma tutti i maggiori esponenti della cinematografia e aveva ascoltato le loro proposte, i loro desideri, le loro necessità. Oggi egli stesso dovrebbe convocarli nuovamente, per concretare con loro un piano di lavoro pel quale non dovessimo diventare completamente schiavi dell’estero, proprio in una industria ch’era nostro vanto e ch’è stata un tempo quasi nostro monopolio nel mondo.

Siamo in tempo ancora, oggi.

Domani, chi sa?

La Vita Cinematografica

Saetta Film

Saetta Film

Nella perdurante inoperosità delle principali case di films, Domenico Gambino, l’ineffabile Saetta, non ha esitato ad affrontare coraggiosamente la crisi. Così come nei suoi films a sensation affronta le più inverosimili avventure per divertire il suo pubblico che lo ama e lo segue amorosamente nell’aspro cammino artistico.

Saetta ha piantato le sue tende a Torino dopo una non breve permanenza a Degli, dove, mi si dice, ha compiuto alcune pregevoli opere, profondendo in esse la sua inesauribile « verve », il suo brio indiavolato, la sua eterna ironica filosofia del « me ne frego ».

Infatti Saetta — senza essere fascista — è un perfetto « menefreghista ». Le situazioni più scabrose, i passi più difficili, le vicende più dolorose, le raffiche più violente passano e si agitano freneticamente intorno alla sua figura, senza che egli ne sia turbato. Compare talora una lacrima sul suo ciglio: non è che un’attimo di commozione che le fa arrossire, poi lacrima e rossore scompaiono sotto il suo sorriso motteggiatore.

Quella che ho visitato in questi giorni è una nuova Saetta Film. Una Saetta Film creata a somiglianza del suo titolare e direttore generale. Tutti scapigliati, tutti allegri, tutti spensierati. Mossi unicamente dal desiderio di creare dei films che piacciano al pubblico, che lo ricreino, che gli facciano dimenticare per un’ora le melanconie di questa ignobile cosa che è la vita.

Alla Saetta è finito recentemente Saetta e la Ghigliottina, e si inizia ora la lavorazione di Quel ficcanaso di Saetta! dovuto alla fervida fantasia di Emilio Vardannes.

Di questo soggetto si parlerà diffusamente nei prossimi numeri: ora, mandiamo a Saetta e ai suoi valorosi collaboratori il nostro augurale saluto e l’espressione della più viva ammirazione.

Torino, gennaio 1923

I Titani di Lilliput

Abbiamo dovuto sospendere per un mese i nostri commenti alla cosiddetta politica cinematografica e, naturalmente, in un mese, moltissimi avvenimenti si sono sovrapposti a quelli passati, modificando l’aspetto di quella che è la dinamica della grande industria cinematografica. Preghiamo d’altra parte il lettor cortese a non dare alla nostra espressione di «grande industria» quel significato iperbolico che si è avvezzi generalmente a darle.

Naturalmente, l’uomo del giorno è sempre Pittaluga, il tenace genovese, colui che si ritiene debba sconvolgere l’ordine astrale di questa simpaticissima industria nostra. È scoppiata infatti, giorni or sono, la bomba dell’accordo Pittaluga-Fiori, ciò che ha fatto saltare per aria molti grandi e piccoli interessi che, come asteroidi, si andavano evoluzionando intorno a questi due astri. Se lo spazio non ce lo vietasse, noi avremmo trovato sommamente dilettoso ed istruttivo illustrarne largamente l’attività e l’intraprendenza. Forse avremmo potuto dimostrare che i suoi successi sono dovuti più che alla sua indiscussa capacità negli affari, all’incompetenza ed alla suggestione della massa. Ci riserviamo, però, di ritornare sull’argomento. Il pericolo Pittaluga, in rapporto alle condizioni generali dell’industria, è uno studio tnteressante più che non si creda.

Per ora ci limitiamo a domandarci: Perchè l’accordo intervenuto fra Pittaluga e Fiori non è stato fatto dall’Unione?

Cerchiamo di illustrare la situazione servendoci di quelle informazioni che dobbiamo credere esatte e che dormono da qualche settimana nel nostro tiretto di redazione.

È noto che da tempo Pittaluga rimuginava il riavvicinamento dei gruppi Barattolo-Mecheri-Fiori. Questa iniziativa ha subìto alternative da altalena: da un momento all’altro appariva come una realtà indiscussa o come una chimera inafferrabile. A chi la colpa di queste alternative? Se lo chiedevate a Fiori, vi rispondeva: Per i tentennamenti di Barattolo. Se volevate prestar fede ai turibolanti di Barattolo, avreste dovuto attribuirli alle condizioni inaccettabili che imponeva il binomio Mecheri-Fiori. Sta di fatto che mentre più fervevano le trattative, Barattolo credette più igienico andarsene a Berlino. L’entente con i tedeschi era forse più interessante: dell’accordo in casa propria.

Evidentemente gli esponenti massimi dell’organizzazione Pittaluga non trovarono di eccessivo buon gusto un invito a Roma per…
constatare de visu che Barattolo da poche ore aveva preso il diretto per Berlino! Fiori non potette resistere alle pressioni di quegli enti che intendevano, per veder chiaro, venire ad una qualsiasi soluzione, e così, messi da parte Barattolo e l’Unione, Pittaluga trovò opportuno stringere l’accordo con Fiori.

Chè nel frattempo la Fert si era costituita in anonima col capitale di 5 milioni di cui tre milioni e mezzo erano stati versati dalla Banca di Firenze, un milione dalla Società Generale di Credito e la rimanenza da Fiori, dal cav. Francolini e dal cav. Olivieri. Ciò fece pensare non poco i dirigenti dell’anonima Pittaluga, i quali si domandavano dove si sarebbe andati a finire, dato anche il compromesso esistente tra la Fert e la Orlandini per i due locali di prima visione di Torino, di proprietà della Fert. Infatti un più stretto accordo Fiori-Orlandini, incuneandosi nel l’accordo Pittaluga-Unione avrebbe sensibilmente ostacolato il raggiungimento degli scopi prefissi dalla Ditta Pittaluga, particolarmente in seguito alla perdita dei due locali di prima visione a Torino.

Qui viene il tratto di genio di Pittaluga. Egli, accantonando Barattolo che si era dato al mestiere di Fabio Massimo, e preoccupandosi solo dell’interesse della sua Ditta, si fece cedere dalle due Banche entrate nella combinazione Fert una gran parte di azioni, strinse nuovi accordi per la gestione dei locali e finì con l’assorbire l’anonima Orlandini che, come abbiamo annunziato in un numero scorso, ha rinunziato, in favore di Pittaluga, al noleggio film ed ai locali che aveva in gestione, limitando la sua attività soltanto al monopolio di acquisto e vendita di films.

Così la tattica temporeggiatrice di Barattolo — a proposito, congratulazioni vivissime per la Commenda della Corona d’Italia —ha avuto un effetto che non ci crediamo facoltati a giudicare in merito agl’interessi di questo. Evidentemente egli ha dovuto fare bonne mine au mauvais jeu ed accettare il fatto compiuto.

Ecco dunque come stanno le cose nell’Olimpo cinematografico. Portate in altri campi che non sieno quelli dove l’arte si erge su piedistalli industriati e finanziarii, le vicende che abbiamo illustrate sarebbero state come le fasi di operazioni d’interessi privati, delle quali ognuno avrebbe potuto benissimo disinteressarsi e dalle quali nessuna influenza l’industria avrebbe potuto subire. Ma la nostra industria è monopolizzata da uomini che vogliono avere una preminenza assoluta in tutti gli avvenimenti ed ai quali la stampa amica e nemica offre a buone condizioni l’onore di una pubblicità superiore a quella che veramente è la loro influenza sull’andamento dell’industria.

Seguiamo dunque la corrente anche noi, ma non preoccupiamoci soverchiamente delle conseguenze. L’avvenire della cinematografia Italiana è più che mai sulle ginocchia di Giove ed i suoi giganti sono soltanto tali attraverso le lenti d’ingrandimento. E, come il famoso colosso di Rodi… hanno, un po’ tutti, i piedi d’argilla!

Ciò che non è molto igienico…

la Cine Fono, Marzo 1921