Le necessità del momento

Cine Mondo Torino, 5 Febbraio 1928

Torino, 5 febbraio 1928

La Cinematografia italiana è ad una svolta pericolosa del suo cammino. Bisogna, di questo fatto, rendersi conto finalmente. Chi non vede o è cieco, o è in perfettissima malafede. Le concorrenze straniere premono con le loro formidabili organizzazioni — vere e proprie macchine guerresche d’assalto — sulla Industria nazionale.

La lotta che noi dobbiamo sostenere è difficile e aspra.

È lotta di montagna: eroica più d’ogni battaglia combattuta a viso a viso. Ma in questa lotta — il pubblico è un fedele alleato. Egli si riavvicina, con evidente simpatia, alla produzione italiana: anche se questa non è qualitativamente ancora all’altezza della situazione delicatissima nella quale il nostro mercato cinematografico si trova. In questo riavvicinamento spontaneo e cordiale si denota da parte della folla una ricerca assidua di originalità. Essa domanda dai films di nostra produzione, qualcosa che con essi definitivamente la riconcilii: nuovi motivi d’arte, nuove espressioni tecniche, valentìa di interpreti e di inscenatori. Vuole, in una parola, che la cinematografia del suo paese, rinascente, riconquisti il tempo perduto, rimettendosi al passo con le altre grandi Industrie straniere alle quali tutto insegnò e dalle quali, purtroppo, per una infinita quantità di ragioni, si lasciò superare.

Noi ci sentiamo spesso domandare se la nostra Cinematografia, superato il periodo attuale della sua crisi, potrà riprendere le posizioni perdute. La nostra convinzione è che sì. Vediamo, per mille segni inconfondibili, che essa è già sulla buona strada: se pure ai primi passi. Dobbiamo, perciò, aiutarla, sorreggerla, appoggiarla; darle uomini di fede provata, industriali saggi, i quali abbiano una profonda comprensione delle particolari e peculiari esigenze commerciali, non disgiunta da una sensibilità d’arte tale quale è richiesta dall’ora che volge.

È necessario che i nostri cinematografisti e intendiamo riferirci a quelli degni per competenza ed intelligenza, di tale qualifica — ricordino che noi fummo all’avanguardia della Cinematografia di tutto il mondo e che le più belle opere silenziose nacquero ideate dalla fantasia di scrittori italiani, realizzate da direttori italiani, interpretate da artisti italiani, con il riflesso del nostro sole, con gli scenari incantevoli e insorpassabili della nostra divina Terra. Memori di questo passato, non tanto lontano, debbono i nostri industriali cercare la collaborazione di elementi giovani e avveduti e preparati per il giorno in cui la Cinematografia italiana dovrà iniziare una lavorazione intensa e muovere, in pieno assetto di guerra, alla riconquista del mercato interno e di quel-
li esteri.

Abbiamo noi elementi degni di essere valorizzati?

Certamente. Tutto sta a saperli trovare. Ma bisogna che sia relegata definitivamente nel dimenticatoio quella idropica e bottegaia mentalità che sbarrò alle giovinezze più promettenti e fattive le porte dei teatri di posa e che negò ad esse, con una caparbietà delittuosa della quale le dolorose conseguenze tutt’oggi soffriamo, ogni possibilità di lavoro.

I nostri cinematografisti hanno da fare un severo esame di coscienza. E poi mettersi all’opera con rinnovato spirito di collaborazione. Perchè, al di sopra dei loro interessi personali, è l’Industria nazionale: un’Industria che fu felice e prosperosa e che all’antico e non dimenticato splendore noi vogliamo assolutamente riportare.

Giuseppe Lega
(testo e immagine archivio in penombra)

Mascherata d’amore al Cinema Ambrosio

Carmen Boni e Jack Trevor in Mascherata d'amore
Carmen Boni e Jack Trevor in Mascherata d’amore (Liebeskarneval) di Augusto Genina

Torino, Novembre 1928

La duchessina Jacqueline Lorraine si innamora pazzamente di Pietro Dalmas, autore di romanzi sentimentali di gran moda. Le ville dove abitano i sue giovani sono vicinissime e numerose le occasioni per incontrarli. Un giorno, durante una gita sul lago, Jacqueline cade in acqua e, quando approda, vede l’uomo dei suoi sogni in compagnia di una donna. Ritorna furibonda a casa, chiede consiglio alla nonna e decide di mettere in pratica quello che essa le ha detto: « Io sono riuscita a liberarmi della rivale più pericolosa, facendola conquistare da un altro uomo ».

Però, Jacqueline s’avvede di non possedere l’uomo che si presti al suo stratagemma; senza frapporre indugio prende essa abiti virili, e si lancia alla conquista della donna amata da Pietro Delmas. La fortezza si lascia spugnare con incredibile facilità; il romanziere apprende il nome del rivale, corre da lui, ma, naturalmente, non lo trova. C’è, invece, sua sorella, la graziosa Jacqueline, alla quale non par vero di ricevere Dalmas; essa giura per il fratello che nulla di grave è avvenuto nell’avventura amorosa… Pietro si tranquillizza, la fanciulla restituisce la visita. L’amante di Dalmas, vedendo il suo spasimante vestito da donna, crede ad uno stratagemma per poterla avvicinare anche davanti allo scrittore. Dopo alcuni incidenti, giungiamo alle spiegazioni. Jacqueline si discolpa: « Prima di tutto deve sapere che io sono pazzamente innamorata di lei ». Il film ha termine con un felicissimo « a quattr’occhi ».

Il soggetto dimostra come Carmen Boni sia, questa volta, nel ruolo che più si addice: L’ultimo Lord l’aveva lanciare verso la celebrità, ma Scampolo, Matrimonio in pericolo, Storia di una piccola parigina, lavori poco rispondenti alle sue qualità di attrice, la avevano costretta a battute di aspetto che minacciavano di ricondurla al punto di partenza.

La Boni acquista forza interpretativa dalla parte, foggia, poi, a sua volontà l’incarnazione, di scena in scena, animando i personaggi con la sua grazia e la sua giovanile freschezza. Essa deve, a parer mio, ridurre il numero delle produzioni, attenersi esclusivamente a questo genere, preferire i travestimenti.

Al suo fianco, Jack Trevor si muove da abile cineasta, trova l’espressione senza alcun rude sforzo della memoria o dei nervi; semplice, franco, egli non mancherà di farsi notare nella schiera dei giovani attori di cui l’industria cinematografica europea ha tanto bisogno.

Diresse l’allestimento Augusto Genina; eleganza, gusto, proprietà, lo hanno guidato; Mascherata d’amore cancella dallo stato di servizio dell’ormai famoso nostro direttore gli appunti fattigli per Scampolo. Limpida, appariscente la fotogenica degli interni, pittoreschi, in luce, i suggestivi esterni.

Enrico Chiri 
(immagine e testo archivio in penombra)

Cinque anni di Cinematografo

La Fert riapre i battenti
Ottobre 1923

1923. L’Unione Cinematografica Italiana concludeva in quell’anno con un netto insuccesso la sua produzione triennale e, di tutte le altre Case, soltanto l’Alba Film stava preparando L’Arzigogolo, mentre la Lombardo Film si tirava su grazie alla “bellissima e simpatica” Leda Gys e le “visioni” di Napoli.

L’Anonima Pittaluga rilevò gli stabilimenti della Fert e si mise al lavoro, seguendo un coraggioso programma, con tre attrici: Diomira Jacobini, Pauline Polaire ed Elena Sangro; tre acrobati: Luciano Albertini (Sansonia), Domenico Gambino (Saetta) e Carlo Aldini (Ajax); il “gigante buono” Maciste; un “amoroso” Alberto Collo; e un “brillante” Oreste Bilancia. Come prima pellicola, venne scelto un soggetto di Giovacchino Forzano, diretto da Eleuterio Rodolfi: Il nipote di America, che richiese una traversata sul Duilio e parecchi esterni “dal vero” a Genova, Napoli e New York. La prima serie comprendeva inoltre Saetta impara a vivere di Guido Brignone, e un documentario Dall’Italia all’Equatore di Massimo Terzano, che si spinse sino al cratere del Tungurahua, a 5087 metri.

I lavori presentati al pubblico nel 1924, ebbero successo, e la Pittaluga provvide subito a preparare un’altra serie, con Maciste imperatore, una farsa francese, La taverna verde di Luciano Doria, e La casa dei pulcini che scrisse e diresse un giovanissimo parente di Augusto Genina, certo Mario Camerini.

Prevaleva il genere avventuroso, che però non imitava “le scorribande americane” e nemmeno preferiva misteri di delitti e intrighi polizieschi, ma era “una sana avventura di uomini coraggiosi e intrepidi”, con qualche sfumatura sentimentale e una “ricerca accurata di suggestivi esterni”. Attori e direttori avevano molta volontà di far bene e lavoravano senza perdere tempo, così che in un anno si poteva contare una decina di “films”, quasi tutti abbastanza buoni. Era stato riaperto anche lo stabilimento della Rodolfi Films e si stava preparando un grande teatro di posa a luce artificiale, particolarmente adatto alla macchinosa costruzione di “fantastici” ambienti per Maciste all’inferno di Brignone.

Questo film, e gli altri che seguirono in breve tempo, erano apposta grandiosi ed esagerati nello sfarzo, e quindi nel costo, secondo il criterio commerciale ed affaristico che soltanto la pellicola “eccezionale” può avere probabilità sul mercato mondiale, mentre la produzione normale trova sempre e dovunque il mercato già saturo. Ad ogni modo, si spesero somme enormi.

Maciste all’inferno venne presentato al Concorso cinematografico della Fiera di Milano, con Scaramouche della Metro, e ottenne il premio del Ministero dell’Economia Nazionale, mentre La casa dei pulcini di Camerini e il documentario di Terzano ebbero il diploma d’onore.

Mario Camerini, dopo una commedia con Linda Pini, aveva tentato il genere avventuroso e, riuscitogli bene un soggetto con Saetta, aveva assunto la direzione del nuovo film Maciste contro lo Sceicco, girato quasi tutto in Tripolitania, presso Leptis Magna, e terminato a Torino il 21 luglio 1925. Il 22 luglio, Guido Brignone incominciava a Savona Maciste nella gabbia dei leoni con Elena Sangro e Alberto Collo. I nomi sono sempre quelli e l’attrazione più grande rimane Maciste. Per lui occorrono soggetti strampalati, smaglianti, favolosi, e tutte quelle storie romanzesche, appena appena sentimentali per una particina d’attrice, portavano a una rievocazione decorativa e coreografica, che presto o tardi sarebbe sboccata nella ricostruzione storica. Il film storico non si fece attendere molto, anzi ne arrivarono subito due. Amleto Palermi — complice Carmine Gallone — ebbe l’infelice idea di resuscitare per lo schermo Gli ultimi giorni di Pompei, sciupando, in tempi già poco fortunati, tre milioni, mentre Luciano Doria, più modesto, si limitò a sceneggiare il dramma di Beatrice Cenci. Per interpretare la protagonista fu scelta Maria Jacobini, che avendo trovato successo e fortuna a Berlino, insieme all’inseparabile Gennaro Righelli, venne convocata in Italia per girare un Carnevale di Venezia, che prometteva Rinascita e finì in coriandoli, tra le maglie della critica e la censura.

La produzione contemporanea non sapeva offrire che un altro lavoro di Maciste, girato a Passo Tre Croci, e riuscito poco interessante; mentre Aldo De Benedetti e Ferdinando Paolieri scrivevano per lo schermo il romanzo dell’eroe dei due mondi e signora: Giuseppe e Anita Garibaldi, impersonati da Guido Graziosi e Rina De Liguoro; poi La bellezza del mondo con Italia Almirante Manzini e Renato Cialente; e un dramma popolare con Leda Gys che suggerì a Matilde Serao grandi elogi.

In compenso, arrivò sugli schermi una commedia “rosea e garbata”: L’ultimo Lord con Carmen Boni, Lido Manetti e Oreste Bilancia. Augusto Genina, che non si era mai interessato alle prodezze di Maciste e le acrobazie di Saetta, era uno dei pochi che sapesse, in quel periodo avventuroso, ancora condurre con sentimento e mano leggera, una tenue vicenda, e la piccola interprete del Focolare spento era la più adatta per quella interpretazione.

Nel 1927 — come già quattro anni prima — per un buon successo bisognava tornare a Maciste. Il gigante era sempre la salvezza della cinematografia italiana, ma la sua stessa figura e la sua unica risorsa di una forza irrefrenabile gli imponevano sempre i medesimi casi, e bisognava ogni volta trovare un ambiente nuovo, per salvare almeno le apparenze. Baldassarre Negroni lo collocò dapprima nell’epopea napoleonica, e poi, seguendo le vicende di un popolare romanzo, lo deportò in Siberia. La produzione era scarsa e non aveva grandi meriti artistici, tuttavia si credeva di andare verso la Rinascita, e il Governo meditava l’obbligo di una aliquota notevole di films italiani, sotto il controllo di una Commissione artistica, e S. M. il Re assisteva, all’Augusteo, alla visione privata di Frate Francesco, elaborazione mistica di Carlo Zangarini, Aldo de Benedetti e Giulio Antamoro.

Le grandi dive del muto erano partite o non lavorano più. L’ultima arrivata, Carmen Boni, lavora per le case tedesche, e spesso con Genina. In Italia rimangono ancora Elena LundaElena Sangro e Rina De Liguoro. Con Jia Ruskaja si tenta il drammone biblico, inserito arbitrariamente in una vicenda moderna, e con quella ingloriosa morte di Oloferne, termina la carriera cinematografica di Bartolomeo Pagano, alias Maciste. Quando il buon gigante di ritira, la Pittaluga chiude gli stabilimenti. La coincidenza è fortuita, ma sulle sue poderose spalle si erano basate le migliori speranze di successo della Casa torinese.

Mentre il cinema napoletano tenta di sopravvivere (e ci riesce abbastanza bene), Aldo De Benedetti e Gaetano Campanile Mancini tentano fortuna con La grazia di Grazia Deledda, richiamando in patria Carmen Boni, film ricevuto dalla critica come l’ennesima delusione, e dal pubblico con scarso interesse. Il pioniere Giuseppe Barattolo, tornato in campo con una versione moderna della mitica Caesar Film dei tempi gloriosi, offre a Roberto Leone Roberti una riedizione di Assunta Spina, dal dramma di Salvatore Di Giacomo, interpreti Rina De Liguoro e Febo Mari. Girato negli stabilimenti della Quirinus a Roma. La nuova, nuovissima versione del dramma interpretato quindici anni prima da Francesca Bertini, esce nei primi mesi del 1930 e riceva una condanna senza appello, quasi all’unanimità, dalla critica: « Rimpiangiamo di non avere l’eloquenza di un Demostene, che cadrebbe in acconcio parlare dei veri  nemici della nostra cinematografia, di quelli che la fanno diventare “cosa” senza nome, profondamente immorale, bassa, inestetica, volgarissima. La stiratrice Assunta Spina in costume da bagno all’americana — maillot Jantzen a striscioni — tra i giocatori di water-polo! Assunta Spina con le gonne corte e i capelli alla garçonne! ”.

Sembrava tutto finito quando finalmente sorse il Sole! di Alessandro Blasetti e da lì a poco la Pittaluga, promettendo di ritornare al più presto a Torino, riaprì i battenti a Roma, negli stabilimenti della vecchia Cines.