Mario Bonnard: un divo contro il divismo

La morte ride, piange e poi... s'annoia di Mario Bonnard
La morte ride, piange e poi… s’annoia (1921) film di Mario Bonnard

Roma, Marzo 1921

Un divo contro il divismo. Pare impossibile, ma è così. L’ho dovuto constatare ierlaltro, assistendo alla prima visione di un film, proiettato dinanzi ad un pubblico ristretto d’invitati. E sono rimasto meravigliato ed ammirato di questo coraggioso gesto che rivela, nell’artista di eccezione, anche la sensibilità di un acuto conoscitore della psicologia del pubblico nostro e straniero. Il quale pubblico è ormai stufo e arcistufo di films nei quali il soggetto, l’ambiente, lo scenario, la tecnica, le masse, le luci — tutto insomma — debba essere soltanto scusa per far brillar in innumerevoli primi piani gli artificiosi sorrisi, gli svenevoli gusti e le caricaturali toilette delle prima parti…

Il pubblico diserta altresì, e a ragione, le sale dove vengono proiettate pellicole scritte, ridotte o inscenate da gente, che, avendo fallito nell’arte del teatro o in quella del romanzo, si è data al cinema dove, con aria di infinita degnazione e con un enorme corredo di prosopopea, cerca di gabellare per autentico un blasone d’intellettualità sul quale ci sarebbe molto da discutere.

Presa così fra il divismo, l’incompetenza e il pseudo-intellettualismo, l’arte e l’industria del cinematografo corrono in Italia grande pericolo, specialmente per opera delle Case americane le quali, con senso di praticità e mezzi enormi, tentano di sopraffarci su tutti i mercati.

Era quindi ora di reagire. Di reagire dimostrando come anche da noi si sappia — quando si vuole — ideare ed inscenare films che presentino tutto un complesso di elementi atti ad affermare l’attenzione dello spettatore, a farlo sorridere e ridere, a commuoverlo, cogliendo spunti di vita e deformandoli con garbato senso di caricatura o con elegante paradosso. Mario Bonnard ha saputo far questo: bisogna riconoscerlo. Ha segnato una pietra miliare sulla via del progresso nell’arte dello schermo. Ha fatto insomma qualcosa di assolutamente nuovo o di sicuro esito, già affermato nella prima visione dal non facile pubblico che assisteva. C’erano spettatori della produzione, numerosissimi monopolisti e concessionari di vendita di pellicole, per l’Italia e per l’estero. C’erano le notabilità più in vista della critica e c’era anche una numerosa rappresentanza della capitale: dal senatore Pompeo Molmenti al marchese Franco Sacchetti, dal duca Lante al marchese Gerin, al marchese Patrizi.

E il film La morte ride, piange e poi s’annoia ebbe applausi unanimi, schietti entusiastici, non soltanto ad ogni fine di atto, ma anche — come suol dirsi  in gergo teatrale — a scena aperta. Perché questo grottesco sensazionale ha in sé una quantità di elementi di irresistibile vis comica, garbata fine, profonda, umana, e nel contempo scevra da ogni volgarità — da allietare grandi e piccini, pubblici raffinati e folle domenicali. C’è un humour così incisivo e tagliente, una caricatura così precisa e originale della vita e… dell’arte — che il sorriso, il migliore, sale alle labbra o il riso prorompe istantaneo , irresistibile. E l’azione, fitta organica, brillantissima per contrasti, si snoda attraverso il prologo e le cinque parti, lasciando il pubblico nella continua ansietà di “saper come vada a finire”, incatenato dall’interesse sempre crescente della favola e avvinto dalle trovate genialissime che si susseguono di quadro in quadro.

Non dovrei parlare del film, perché altrimenti cadrei sotto le sanzioni della pubblicità: ma, per una volta tanto, col consenso dell’amico Bommartini, dò uno strappo alla regola: non potrei del resto farne a meno per giustificare dinanzi al pubblico l’intonazione di questo mio scritto.

C’è dunque in questo film, un accuratezza di particolari — non solo — ma di scelta delle persone e degli artisti, che superano quanto abbiamo visto nelle migliori cinematografie d’oltre Alpe e d’oltre Oceano. Ogni tipo è stato scelto con cura: nella scena del Club della Morte, da Van Riel, che funge da presidente, all’ultimo figurante, tutti sono a posto nel fisico del ruolo. Nella scena del Circolo dei nobili spiantati — una mansarde in cui un rigoroso cameriere gallonato serve acqua fresca in vecchie bottiglie di champagne e una sigaretta soddisfa a turno il desiderio di fumare di otto o dieci blasonati decaduti — ogni attore è una persona: non c’è più l’odiosa massa dei cachets scalcinatissimi, con parrucche messe di traverso e con le barbe convenzionali… Ci sono tipi veri scovati chissà dove. Tipi e figure che, messe sullo schermo, equivalgono una precisa descrizione di abile penna o di magistrale pennello, superando anzi, perché sono veramente vivi, perché appartengono a quel realismo di vita che l’arte rappresentativa  deve talvolta scolorire per non apparire incredibile e inspirata a esagerazione di fantasia.

Mario Bonnard non ha temuto di circondarsi di autentici elementi di vita nella sua interpretazione d’arte. Autore, sceneggiatore ed attore, ha rinunciato (con modestia alla quale non siamo abituati negli ambienti della scena) ad ogni facile esaltazione della propria personalità. Ha saputo mirabilmente conservare le proporzioni ed i piani della vita reale con una abilità prospettica mirabile per gusto artistico. Ha superato con un mirabile slancio il Bonnard — che pure era stato meritatamente apprezzato in Rouge et noir ed in Papà Lebonnard, nel Rifuggio all’alba e in Mentre il pubblico ride — rivendicando al proprio intuito ed alla propria personalità artistica meriti che lo mettono in primissima linea nel mondo dei creatori di films.

La morte ride, piange e poi s’annoia avrà in Italia e all’estero un successo enorme: sarà veramente uno di quei films che si ricordano a distanza di tempo, come quei rari libri che possono essere considerati i classici dell’umorismo e della satira. Il pubblico inglese che conosce il Bonnard attraverso Rouge et noir, proiettato con grande successo anche in un teatro londinese, comprenderà e gusterà questo film con una espressione di gaio e profondo humour , degno di Twain. Il pubblico parigino gusterà tutta la finezza di questo pince sans rire che possiede quell’arma dinanzi alla quale Napoleone diceva non essere difesa: lo spirito della beffa.

Ma di un’altra cosa bisogna riconoscere il merito di Bonnard: di essere un assiduo, tenace, fervido lavoratore, un appassionato della sua arte e un illuminato e contenzioso direttore artistico. Il quale non infarcisce la sua produzione di zavorra da imporre poi ai concessionari insieme ai films di successo. Egli crea ed esegue soltanto lavori di eccezione che possono essere accettati a scatola chiusa essendo sufficiente per garantirgli l’origine editoriale. Di questa signorilità anche nel ramo industriale dell’arte non potevamo tralasciare di farne cenno. E per ciò siamo fin d’ora sicuri che le nuove pièces in lavorazione alla Bonnard Film: L’amico di Marco Praga, interpretato da Vittoria Lepanto, e L’amor mio non muore, ideato e diretto da Wladimiro Apolloni, riusciranno nobilissime opere d’arte e lavori di grande successo.

Carlo Dall’Ongaro
(Il Piccolo)

L’invasione Pittaluga e l’industria cinematografica

Cinema Gambrinus Firenze
Il Cinema Gambrinus di Firenze, veduta dalla galleria.

(Dalla stampa, agosto 1921). Come sviluppo di programma connesso al graduale ampliamento della Zona di influenza nello esercizio dei Cinematografi, la Società Anonima Stefano Pittaluga, anche in unione a spiccate personalità del mondo commerciale e finanziario, ha favorito l’iniziativa della Costituzione di Enti Immobiliari aventi per finalità diretta l’acquisto e la costituzione di Locali di Pubblico Spettacolo.
Così in Roma venne costituita la Società Anonima Immobiliare Pinciana, il suo Consiglio di Amministrazione venne formato dai Signori: Conte Ludovico Taverna; Aboaf Comm. Alessandro; Stefano Pittaluga; Levi Isaia; Cav. Pietro Ceriana; Ing. Orti Manara; Ing. Guglielmo Olivetti; Cav. Vecchio Verdarame; Comm. Avv. Alfredo Foligno; Avv. Vittorio Sacerdote.
Il capitale di Lire 1.000.000, è in corso di aumento a Lire 2.400.000 per sottoscrizioni già assicurate.
In Firenze venne inoltre costituita la Società Anonima Immobiliare Cinematografica Toscana, col capitale di Lire 1.000.000, interamente versato, colla nomina ad unico Consigliere d’Amministrazione del Signor Stefano Pittaluga. Trattasi di iniziative che pure essendo dirette a finalità distinte vengono ad integrare la Società Anonima Stefano Pittaluga rinforzandola e consolidandola nella sua posizione.

Un gruppo di fiorentini insieme ad un lungo manoscritto, ci ha fatto pervenire la seguente lettera:

Spett. Direttore:

La presente “orazione” per la verità delle cose, per il decoro delle genti e per tale decoro che almeno le genti sappiano e che insieme alle genti corbellate anche Messer Pittaluga sappia il pensiero nostro.

Orazione
L’invasione Pittaluga e l’industria cinematografica

Anche in Toscana come in Piemonte – Liguria, come a Roma è piovuta la disgrazia nell’Industria Cinematografica.

La ridda dei milioni ha danzato la danza macabra dell’assolutismo; ha segnata l’ora triste e desolata in cui il marchio vergognoso della servile sete di oro impresso alle coscienze comprate, è apparso alla piena luce del giorno senza più alcun pudore e ritegno: vittorioso di quelli che volenti o nolenti hanno dovuto sentire immediatamente dopo il turpe mercato bruciare nelle mani quei fogli di grosso taglio; di quelle coscienze che hanno dovuto sentire nella strozza un singulto di amaro come il tossico per il pentimento della moneta raccolta con servile sollecitudine, e una lama che non perdona (il rimorso), deve aver loro inciso una parola terribile nel cuore per non aver saputo resistere all’abbarbagliamento dei milioni che Satana gli ha posto davanti agli occhi, e difendere invece la propria industria come la propria creatura: vile… e piangeranno lacrime di acqua scipita e si batteranno il petto senza rimedio: vile… e quella lama che ha scolpito così nel loro cuore, ha scolpito così fendendo profondo, e per molto e molto resterà il solco nel loro sangue.

Perché hanno aperto la Casa all’invasore? Erano al crollo della loro azienda? No, erano al benessere dell’Industriale che ha accumulata la ricchezza con le fatiche di molti anni di lavoro: Che bisogno impellente hanno avuto?

Il bene dell’Industria? No.

L’invasione Pittaluga non può essere un bene ma è un male grande dell’Industria stessa. È un ciclone enorme che schiaccia e demolisce e frantuma quella che è già per sé una male organizzata Industria Cinematografica.

Il Pittaluga piomba a volo di corvo sul desolato campo di battaglia perduta, ed irride ai morti, ai moribondi ed ai feriti, e fa accozzaglia di tutto.

Buono, cattivo, zavorra…

« Qua a me cosa avete in bottega » egli dice.

Pelle nuova e vecchia, cenci, bardature, scarpe vecchie, ferramenta, rottami, mota… che importa? Quanto? Quanto pesa?

L’interpellato non ha più fiato… Teme sognare…

« Sono cinquanta chilometri di negativo e 250,000 di positivo…».

Pittaluga è marmoreo… non batte ciglio:

« Quanti quintali? ».

« Faccia lei ».

L’interpellato è sgomento; non ha parole, ma il miliardario, ripete secco, impassibile come nella conquista dell’Europa:

« La Nota: fatemi avere la nota dei films che avete in magazzino e dei Cinematografi di cui disponete… ».

L’interpellato respira appena.

« Un milione a quintale; Va bene? » offre Pittaluga.

« Anche i Cinematografi… ?? ».

L’interpellato teme gli crepi il cuore dall’emozione: col capo ciondoloni si genuflette fino a terra. Il sogno si avvera: C’è la ridda dei milioni.

E dove porterà tutti quei vagoni di rottami? Per chi saranno tutti quei rimasugli di guerra? Tutti quei fondi di magazzino? Chi pagherà tutte quelle tonnellate e tonnellate di zavorra? Chi??? Il pubblico d’Italia. Diamine… Il popolo Italiano…

L’ardito genovese è convinto che il popolo Italiano sia un grande imbecille; è convinto che del pubblico se ne può fare quel che si vuole; è convinto che il pubblico che vuole andare al Cinematografo andrà a vedere tutto ciò che lui vorrà; tutto ciò che gli imporrà di vedere; tutto quello che da lui fu comprato a tonnellate e a suon di milioni, per spazzare il terreno al suo trono di cartone, il pubblico sarà obbligato ripagarlo a once con il biglietto d’ingresso. Spettacolo per spettacolo. Una volta padrone di tutti i locali d’Italia le case produttrici se vorranno vendere nel loro paese saranno e già sono alla sua mercè. Senza più temere concorrenza alcuna egli può comprare e non comprare; scegliere e non scegliere; pagare venti e pagare due a seconda che gli piacerà. E se pagherà due là dove sarebbe stato giusto pagare  venti (a parte se ciò può essere o no un beneficio all’Industria) chi ne ritrarrà l’utile maggiore se il pubblico dovrà sempre pagare il suo biglietto a quota fissa come d’abitudine stabilito?

In mezzo a tanta pusillanimità CHE ALMENO IL PUBBLICO SAPPIA:

In Italia c’era un’Industria sola rimasta in piedi poderosamente: IL CINEMATOGRAFO. Ed il pubblico, nella città in cui era curata la scelta delle films con criteri d’Arte, come da un Cinema Corso di Roma, aveva dimostrato di accettare con grande entusiasmo lo studio e perfezionamento della scena muta. E questo studio che doveva essere sprone ed incitamento a correggere, a tentare vie nuove e vincere e sorpassare il tragico momento di una forte crisi all’Estero, è stato travolto tragicamente dal ciclone Pittaluga. Egli raccontò un giorno alle sue Banche amiche che il Pubblico porta a bizzeffe tutti i suoi quattrini ai Cinematografi: « Immaginate che affaroni se potremo essere i padroni di tutti i locali d’Italia?!!… ».

I banchieri per un attimo si sentirono svenire poi si riebbero, spalancarono gli occhi; corsero alle rispettive Casse e indicandole a Pittaluga esclamarono in coro genuflettendosi dinanzi a lui: « Tutto è nelle tue mani… ».

 

Cabiria

Una scena di Cabiria Itala Film 1914
Fulvio Axilla (Umberto Mozzato), Croessa (Gina Marangoni) e Maciste (Bartolomeo Pagano) in una scena di Cabiria (Itala Film 1914)

Roma, 31 Marzo 1921

Ho riveduta l’immortale pellicola sullo schermo del Modernissimo di Roma, in cui da sei giorni si pigia una folla attenta e assorta in una ammirazione che ha del religioso.

Sette anni fa, sul Piccolo di Napoli, parlando di questa pellicola, dissi che con essa l’industria italiana avrebbe valicato le Alpi e gli Oceani; e così fu difatti. Ma non dissi, e non potevo prevederlo, che dopo quel film che nessuno è ancora riuscito a superare, avremo avuta l’abilità di perdere tutti i mercati del mondo.

Rivedendo in Cabiria il magnifico giuoco delle panoramiche e dei carrelli, la sapiente e umana sceneggiatura, la fotografia in moltissimi punti resa stereoscopica dal movimento panoramico, l’elegante giuoco scenico, la meravigliosa e non ancora superata messa in scena, mi sono chiesto: Ma che cosa vanno arzigogolando tutti i miei amici nemici e così così, da Stame a Coscia, da Bianchi a Fiori, da Zanotta a Pittaluga, da Ambrosio a Carlucci, da Righelli e Guglielmo Zorzi, da Barattolo a Lombardo: che cosa vanno cantando questi amici nemici e così così, sulla tecnica nuova, sul progresso che dovremmo fare e non facciamo, sulla marcia nostra inferiorità, sulla insanabile nostra capacità di uguagliare — non superare! — gli americani?

Che cosa mi vanno dicendo tutti questi nobili amici nemici e così così?

Ma basterebbe solamente che tornassimo all’antico, basterebbe solamente togliere a quell’antico un po’ di cartapesta soverchia o dipingerla meglio e con più cura, per superare, non uguagliare, di dieci miliardi di chilometri tutti quanti!

Che forse a Cabiria si possono paragonare Madame Dubarry o la Signora del Mondo? Nemmeno per sogno! Intolerance è, relativamente, inferiore ed ha, di fronte a Cabiria, un tremendo difetto: non è capita dal grande pubblico.

Infine la famosa spezzettatura, il dettaglio per cui va pazzo il buon Righelli, diventa una ridicolaggine messa contro quel meraviglioso movimento panoramico che va in primo piano o in sfondo massimo, con una dolcezza, una precisione, un effetto bellissimo!

Che cosa mai vale il primo piano d’un pugno che si stringe (per indicare, come se non bastasse l’atteggiamento di tutta la persona, che l’attore è furibondo) in confronto della penultima scena di Cabiria, quando su Sofonisba morta si piegano pietosamente Fulvio Axilla, Cabiria e Maciste, e la macchina porta in primo piano, perfettamente inquadrato e perfettamente in luce, il bellissimo quadro, senza uno sbalzo, senza una sovrimpressione — che a lungo andare stufano la cicoria, confessiamolo pure! — senza nessuno di quegli artefici americani che imperversano oggi?

La tecnica di Cabiria non è superata: la verità è che nessuno è più buono — o crede d’esser buono — a farla. Questo è. Tutto il progresso sta in una fotografia un po’ più luminosa: e contro questo progresso sta l’assoluta deficienza di soggetti degni, di direttori capaci e di attori all’altezza del loro compito.

Gli americani hanno avuto tutte le loro ragioni spezzettando il film a decine di centimetri. Essi che hanno incominciato a fare della cinematografia con i cow-boys, non potevano certo diffondersi in scene per cui occorrevano degli attori. E così è venuta fuori la moda d’esprimersi con dei primi piani di orologi, di campane, di parti di macchine, di animali, di aspetti della natura, di gambe, braccia, mani… con tutto fuori che con attori — perché attori non c’erano. E i giovani artisti sono così persuasi e conquisi dal nuovo metodo che non fanno più nessuno studio, nessuno sforzo: e corriamo pericolo davvero di dover dar ragione a quel direttore artistico napoletano che diceva e dice: Datemi un bel fesso in frak e gli faccio fare Kean!

Tutto questo perché? Perché dopo aver vedute le prime films americane ci siamo messi ad imitarle, senza nemmeno dubitare che quello che ci veniva di fuori valeva meno di ciò che avevamo in casa, e, prima perché ogni imitazione è inferiore all’originale, poi perché il temperamento dei nostri artisti — almeno di quei pochi che ci rimangono — mal si adatta a far la parte di salame in barca nelle scene di venti centimetri, le nostre film non hanno avuto più pubblico. Ed ecco come e perché, avendo fatto Cabiria, siamo oggi battuti dalla Triangle!

Pure, perché fra Cabiria e il disastro presente siano scorsi quei quattro secoli di storia che si chiamano Guerra Europea, c’è da notare che tutti gli artefici di Cabiria sono vivi. D’Annunzio, Pastrone, l’Itala Film, Sciamengo, Chomón, Italia Almirante Manzini, Umberto Mozzato, Maciste, Vitale de Stefano, Lidia Quaranta, sono vivi vegeti e robusti. Esistono ancora le Alpi, il deserto, il mare, il cielo, il genio della stirpe, la bellezza delle donne, l’elegante forza degli uomini: tutto quello con cui fu fatta Cabiria. Perché non se ne fa un’altra? Qual’è la ragione che lo impedisce? Gli uomini d’allora ci sono anche oggi, e i mezzi d’allora sono enormemente più forti oggi, che abbiamo (non dico questo per fare una freddura) anche la Banca Italiana di Sconto. Perché non si fa?

La risposta è una sola: perché abbiamo voluto camminare nelle orme degli altri, troppo piccole per il nostro piede. Se avessimo continuato a fare, e se rifaremo ancora, l’arte e l’industria secondo il nostro temperamento, secondo il genio della nostra razza, attingendo in noi tutte le forze e non disperdendole in imitazioni transalpine e transoceaniche, di Cabirie ne avremmo fatto e ne faremo, non una, ma cento.

Ciò dico senza ipocrisia e false pietà, e senza falso orgoglio, con buona pace degli amici, nemici e così così, di parere contrario.

Guglielmo Giannini