Hollywood sul vulcano

Herbert Brenon
Herbert Brenon, fotografia di Pinto, Roma 1919

Siete in partenza per le vacanze o rimanete a casa? Se rimanete a casa non perdete questo e i prossimi post sulle prime giornate rivoluzionarie del cinema muto italiano. Una storia che potrebbe servire di spunto per girare un film. Ha tutto il necessario: ambientazione “vintage-glamour” perchè si svolge nel mondo del cinema d’altri tempi; il periodo storico degli anni ’20, personaggi noti e sconosciuti della storia del cinema e della politica, conflitti sociali, ricatti, vendette, cariche delle forze dell’ordine, persino briganti… Non manca niente.

Come avevo scritto nel post precedente, le critiche impietose della stampa italiana verso i film girati in Italia dalla coppia Marie Doro-Herbert Brenon, nascondono un retroscena. Questo retroscena non ha molto a che vedere con la qualità dei film, come conferma si possono consultare le recensioni in altri paesi fuori dall’Italia. Come mai la stampa cinematografica professionale, in particolare la stampa torinese, aveva la penna così avvelenata contro gli ospiti americani?

Andiamo indietro di qualche mese.

Roma, 30 gennaio 1919:

E’ costituita, con sede in Roma, una Società anonima per azioni, sotto la denominazione Unione Cinematografica Italiana, avente per oggetto di esercitare, sia in Italia che all’estero, l’industria e il commercio cinematografico sotto qualsiasi forma, compreso l’esercizio dei cinematografi e tutte le altre industrie sussidiarie.(…)

La Banca Commerciale Italiana, rappresentata legalmente dai signori Benucci cav. uff. Lamberto e Pescetti cav. Mario, sottoscrive per n. 480.600 azioni privilegiate, che ammontano a lire 12.165.000, e per n. 97.400 azioni ordinarie, che importano lire 2.435.000; la Banca Italiana di Sconto, rappresentata dal sig. Tiziano Martinello, sottoscrive per n. 486.000 azioni privilegiate, che importano lire 12.165.000, e per 97.400 azioni ordinarie ammontanti a lire 2.435.000. Totale lire 29.200.000 (del 1919!).

L’avvocato Giuseppe Barattolo conferisce in natura alla Società, come sopra costituita, gli stabilimenti della Caesar Film, posti in Roma, comprendenti metri quadrati 16.000 circa di terreno, teatri di posa, magazzini e uffici ed altri fabbricati e manufatti, il tutto sul terreno stesso. (…)

L’avvocato Mecheri apporta in natura alla Società, come sopra costituita, lo stabilimento della Film d’Arte Italiana, sito in Roma in via Alessandro Torlonia, con tutti i manufatti e costruzioni (…)

Il sig. Fasola Alfredo conferisce in natura, alla Società come sopra costituita, gli stabilimenti della I.N.C.I.T. (già Film Artistica Gloria), dei quali è proprietario, situati in Torino e comprendenti circa metri quadrati 7000 di terreno di cui circa 2800 fabbricati (…)

La Società è amministrata da un Consiglio di amministrazione composto da 18 amministratori. A componenti il primo Consiglio di amministrazione vengono nominati i signori:
Colonna principe don Prospero, senatore del Regno, Fenoglio gr. uff. Pietro, Pogliani gr. uff. Angelo, Volpi gr. uff. Giuseppe, Conte di San Martino e Valperga Enrico, Corsi gr. cr. Camillo, Soro avv. cav. uff. Francesco, Contestabile della Staffa conte Antonio, Masciantonio on. Pasquale, Mecheri avv. Gioacchino, Diatto comm. ing. Vittorio, Capodagli comm. Eugenio, Barattolo cav. avvocato Giuseppe, Pietrasanta cav rag. Angelo, Gelmini Giuseppe, Biagi cav. Fortunato, Fassini barone Alberto, Fasola Alfredo.

Chi ha interesse a leggere l’intero atto costitutivo può consultarlo in biblioteca nel Bollettino Ufficiale Società Azionarie, o la riproduzione parziale pubblicata nel volume di Riccardo Redi, La Cines – Storia di una casa di produzione italiana, Centro Nazionale Cinematografia 1991. Per quello che riguarda la nostra storia, penso che bastino i nomi e i dati riportati sopra.

Questa società, finanziata e diretta dalla Banca Commerciale e dalla Banca di Sconto, era sorta con l’ambizioso scopo di impadronirsi della produzione italiana, raggruppando le diverse case allora esistenti, garantendo loro la distribuzione internazionale sotto la bandiera UCI. La notizia fu accolta come un buon auspicio per la “rinascita” della produzione in Italia, e la riconquista dei mercati esteri. Come in molte altre occasioni, prima e dopo il 1919, il cinema italiano era in “crisi”. Nei mesi successivi, l’entusiasmo verso le manovre dell’Unione Cinematografica Italiana (d’ora in avanti: UCI) era ai minimi, sopratutto fra il personale tecnico. Così ricordava quei tempi l’operatore Arturo Giordani:

Nel 1919 il mio stipendio era di 3000 lire al mese. Ma quello fu l’ultimo anno di lavoro. L’amministratore della Tespi mi offerse infatti un contratto da firmare dicendomi: Firma questo contratto, perchè nel cinema non lavorerai più; te lo do per premio. Era infatti cominciata la smobilitazione del nostro cinema, cui contribuì validamente la politica del grande trust costituito da Alberto Fassini, Giuseppe Barattolo e Gioacchino Mecheri. Fu praticamente mercé l’ausilio di questi tre magnati se il cinema americano poté scalzare e poi mettere a terra la nostra industria cinematografica.

E così  altro operatore, il pioniere Giovanni Vitrotti:

Ero a Torino intorno al 1914 quando la Leonardo Film, di cui ero direttore e azionista, fallì. L’amministratore della società era stato irretito da Barattolo, uno dei fondatori dell’UCI, con un contratto complicatissimo per cui tutti i prodotti dalla Leonardo dovevano essere dal Barattolo stesso distribuiti, mentre invece furono “messi a dormire”.

Fu uno dei primi esempi di quella concorrenza sleale che Barattolo proseguì, ai tempi dell’UCI, ai danni delle Case indipendenti. Ricordo, fra l’altro, l’esempio significativo di una Casa minore che stava realizzando un film sul Paradiso di Dante. Barattolo si offrì a comprare il film, a un prezzo irrisorio. La Casa si rifiutò di vendere. Allora Barattolo annunciò che egli avrebbe prodotto un film sul Paradiso di Dante e infatti diede ordini in questo senso, con la consegna di procedere alla realizzazione del film a tempo di primato. Spaventati dall’annuncio e dai potenti mezzi finanziari di Barattolo, i produttori indipendenti dovettero piegarsi al suo ricatto vendendogli il film al prezzo che voleva. Tra le cause della crisi, la politica monopolistica dell’UCI che soffocò le iniziative degli indipendenti va dunque messa in prima linea; e del resto era opinione comune a quei tempi che gli uomini di affari dell’Unione non si limitassero a ciò, ma intendessero favorire con la loro politica il successo della concorrenza straniera, americana sopratutto.

Tra le altre cause della crisi metterei il divismo – cioè quel dispotico dominio delle prime donne, per cui il montaggio del film veniva fatto, spesse volte, dalla diva stessa, in funzione diretta del suo prestigio e dei suoi primi piani – e la scarsa serietà industriale di molti produttori.

Secondo queste testimonianze (ed altre molto simili), il fallimento dell’industria cinematografica è dovuto a tre cause: il cinema americano, la scarsa serietà dei produttori, e i capricci delle dive. Ma questi amari ricordi sono del 1954.

Ritorniamo al 1919. Verso l’autunno di quell’anno il regista americano Herbert Brenon firmava un contratto con l’UCI per girare una serie di film in Italia sotto il marchio Brenon Film. Una cortesia di Giuseppe Barattolo che in realtà non significava nulla, come nel caso della Bertini Film, la produzione era al cento per cento UCI. Barattolo pensava che il nome, o meglio, i nomi di Brenon e Marie Doro, sotto il “marchio” Brenon Film, servissero a vendere meglio il film fuori dalle frontiere italiane. Lo credeva sul serio? Io non ho dubbi in proposito.

Marie Doro ed il suo regista partirono verso il paese fantastico di Turania, secondo altre fonti Ruritania, ambientato a Venezia, in compagnia della numerosa troupe tecnica e artistica Made in Italy, per finire le riprese nell’incantevole Capri, come direbbe una qualsiasi guida turistica.

Per le riprese di Il colchico e la rosa e Beatrice, fu scelta Taormina. Durante le riprese in Sicilia, per essere esatti, durante una passeggiata dopo una pausa pranzo sull’Etna, Brenon sparisce. Dopo quattro giorni di “ansia”, era il mese di gennaio 1920, e sul vulcano c’era la neve, l’intrepido regista ricompare e racconta che è stato “rapito” da alcuni banditi che lo avevano catturato, ma è stato rilasciato “when he was found to be an american”. Di questa avventura si fa eco il New York Times, la stampa italiana, diplomaticamente, ignora l’incidente. Sicuramente il meno preoccupato è lo stesso Brenon, le riprese vanno avanti ancora per qualche settimana.

Verso febbraio 1920, la troupe ritorna a Roma. Mancano le riprese degli interni, e qualche esterno. Brenon è sicuro di completare il montaggio del primo film in poche settimane, gli altri due saranno pronti prima dell’estate. Ma nella capitale lo aspetta una sorpresa, anzi due, quando Marie Doro, ribattezzata dalla stampa Marie D’Oro, non vede arrivare i suoi bagagli nell’albergo. Un dettaglio di niente, i teatri di posa sono vuoti, tutto il personale ha fatto sciopero…