Novembre 1918
Scrivo mentre si riaprono i cinematografi, i quali, come sapete, furono chiusi per l’affare della febbre spagnola. In proposito facevo ieri l’altro la seguente riflessione: « Tutti i malanni ormai si devono attribuire al cinematografo. L’arte, dicono, va degenerando col cinematografo. E la morale poi? Oh! la morale non è stata mai così offesa come dal cinematografo, poveretta! Meno male che la censura — Dio la benedica! — ha tratto fuori la sua durlindana, se no come andava a finire? All’inferno, s’andava a finire. Ed ora che c’è l’epidemia, di chi è la colpa? Ma del cinematografo, naturalmente. E voi vedrete che quando si farà la storia della guerra si accerterà che fu proprio il cinematografo a dar l’incentivo! ». Ma l’epidemia è stata quasi del tutto debellata, e la guerra è stata gloriosamente ed eroicamente vinta.
Ma che farà il cinematografo nel dopoguerra?
Come è noto, dalle molteplici e pletoriche commissioni del dopoguerra il cinematografo è stato escluso totalmente. Il governo continua a fare il cieco in fatto di cinematografo, e ciò comincia ad essere veramente grave. E poi avviene che quando un parlamentare vuole interessarsi di cinematografia nazionale, ecco che salta il Bellotti, nostra croce ormai e nostra delizia.
Ma che farà il cinematografo pel dopoguerra? Industriali, attenti!
Taccuino di Hec
Dicembre 1918
Il fenomeno dell’accanimento col quale la stampa quotidiana, i legislatori pubblici e i Sacerdoti della Bellezza Pura — con tre maiuscole come era di moda ai bei tempi del simbolismo trionfante — combattono il cinematografo, non è nuovo nella cronaca dei nostri tempi. Le stesse lamentazioni si ebbero per l’operetta che doveva uccidere l’opera lirica; per il caffè concerto che doveva uccidere il teatro, per il romanzo che doveva uccidere la letteratura, per il giornalismo che doveva uccidere il libro. Tutte le volte che una nuova forma d’arte — e dico “forma d’arte” intenzionalmente — incontrava il favore del pubblico, i guardiani della morale e del buon gusto scendevano in campo con tutte le loro forze mobilizzate.
È noto, infatti, come l’industria cinematografica sia una delle grandi industrie del mondo. La terza, mi dicono, che viene subito dopo il commercio del carbon fossile e del grano. Ora, in questo prodigioso sviluppo, l’Italia, per una quantità di circostanze fortunate, è la seconda nazione produttrice di films e si trova classificata a pena dietro l’America. Ebbene, tutte le polemiche, tutti i decreti restrittivi, tutte le interpellanze, tutti i progetti di legge concorrono oramai a questo unico scopo: uccidere questa industria e favorire l’importazione delle films straniere. Gli sforzi che fa l’America per batterci su questo terreno commerciale sono inauditi. Aspettando che la fine della guerra le permetta di stabilire da noi qualche grande succursale delle sue case più famose, tende con tenace abilità a conquistare il mercato. E per lei non è difficile, se si pensi che la sola vendita di una film negli Stati Uniti, paga interamente le spese di produzione, in modo che può guadagnarci ancora molto cedendola a prezzi irrisori alle altre nazioni; ed è quello che fa. Di più, in certi paesi ha esercitato una specie di boicottaggio a suo favore: rifiutandosi, cioè, di vendere pellicole proprie a tutti quei cinematografi che non mettano in proiezione esclusivamente films americane, e chiudendo così automaticamente il mercato alle case rivali. (…)
Diego Angeli
Lettera aperta a S. E. Berenini Ministro della Pubblica Istruzione. Eccellenza, vorrei trovarmi uno di questi giorni a quattro occhi con Lei per dirLe in un orecchio che — a guerra vittoriosamente conclusa — è lecito a un Ministro italiano rendersi direttamente conto delle cose del cinematografo, e come arte e come industria nazionale. (…)
Ora Le so dire che la produzione cinematografica italiana è ottima merce, e fino a ieri ottimamente proficua. Fino a ieri! Perché ormai la concorrenza americana va a poco a poco soppiantandola nei mercati esteri ove dominava egemonica. Fra non molto, se non si muta rotta, sarà un’altra industria italiana di grande esportazione che si ridurrà a cosa sfinita. E sa Ella come? Per gli inciampi che lo Stato italiano va creando a ogni levata di sole, con una così gioiosa fantasia inventiva che se le fosse volta a favore, Dio solo sa a quale grandezza e potenza smisurate potrebbe farla salire. Gli inciampi sono di varia natura: alcuni inerenti al farraginoso meccanismo dello Stato, come le lentezze burocratiche che, durante la guerra, sono riuscite a tanto da impedire materialmente l’esportazione delle pellicole. Ma altri guai si sono aggiunti; e precisamente i pregiudizi moralistici che il deputato Belotti ha elevato con prosopopea maccheronica a vere e proprie inibizioni e, — giunta alla derrata — i pruriti intellettualistici del senatore Molmenti che, avido com’è di nomea, non lascia intentato alcun passo per farsi avanti, pestando i calli e rompendo le scatole alla gente che lavora sul serio. Metta in pratica, Eccellenza, le proposte dei due poveruomini, e mi dica in qual modo l’industria cinematografica potrà vivere e riprendere la via dei grandi commerci se, per ogni pellicola, l’industriale dovrà sottostare a una lunga serie di controlli e di collaudi, passando dalla commissione dei padri di famiglia alla commissione dei dotti, discutendo commissario per commissario e quadro per quadro prima lo scenario scritto, poi la prova proiettata sullo schermo, infine il film compiuto. (…)
Tutta la questione è qui. Il deputato Belotti va giurando e spergiurando che la nostra produzione cinematografica è merce da bordello la quale appesta la nazione, e il senatore Molmenti non gli par vero di tenergli bordone tempestando che, se non è proprio peste, è per lo meno volgare contraffazione di armoniosa bellezza. (…)
Tomaso Monicelli
(tratto da in penombra, Roma, dicembre 1918)