Girotondo di undici lancieri, Lucio D’Ambra Film 1918
Questa perfettibilità doveva ottenere un ben più luminoso riconoscimento. Un industriale intelligente e moderno, dallo spirito stupendamente proclive ad ogni audace manifestazione di bellezza, il Cav. Fasola — simpaticamente noto in cinematografia per aver dato vita all’Eletta Film — ha voluto, con rara tenacia di fede, assicurarsi l’opera preziosa di Lucio D’Ambra in una forma che è la più dignitosa valutazione dell’ingegno. La Lucio D’Ambra Film, infatti, si è finanziariamente costituita su basi sociali. Il cav. Fasola volle anche assicurarsi la produzione che, in virtù di precedenti impegni, Lucio D’Ambra avrebbe inscenato con la Do-Re-Mi stipulando per questa casa un preventivo ed assoluto impegno di acquisto di tutti i lavori da essa editi.
Tutto ciò fu compiuto rapidamente, decisamente, senza esitazioni, senza dubbi, senza incertezze: con la disinvoltura di un mecenate e con l’oculatezza e la precisione di un industriale. In pochi giorni il primo lavoro della nuova marca fu imbastito. Giù a via Monesiglio (adesso Casalmonferrato nota del curatore), l’aprico stabilimento della Do-Re-Mi vide rapidamente popolarsi i suoi viali, i suoi giardini, i suoi boschetti dei caratteristici personaggi di Girotondo d’undici lanceri. Un film, questo, che per la concorde volontà di Fasola e di Lucio D’Ambra dovrà idealmente ricongiungersi a Il re, le torri, gli alfieri, l’opera cinematografica che per vastità di linea e magnificenza di contenuto segnò una data veramente memorabile negli annali della cinematografia, l’opera che percorse di trionfo in trionfo tutte le città e tutti i paesi e che oggi ancora, alla distanza di qualche anno, fa periodicamente la sua ricomparsa nei piccoli e grandi cinematografi rinverdendo e riconsacrando i passati entusiasmi.
Girotondo d’undici lanceri sarà veramente un’opera grandiosa. Su Il re, le torri, gli alfieri, avrà il privilegio d un’azione più vasta, più varia, più interessante poiché in nessun lavoro cinematografico si assommarono tanti elementi antitesi e disparati come in quelli che costituiscono il fulcro di questo film. In Girotondo d’undici lanceri, il geniale scrittore ha voluto effettivamente racchiudere ogni requisito di successo.
In una concezione di una viva e palpitante umanità egli ha fatto in modo che dramma e commedia, avventura e romanzo si avvicendassero, che la fusione della fantasia con la realtà scaturisse dai contrasti estetici, di una vicenda tramata di poesia, di sentimento, di commozione e di bellezza. Ha voluto che ambienti e personaggi fossero il frutto di una ideale armonia di stilizzazione: infatti, al bizzarro e fantastico costume dei lancieri fanno contrasto i frac e le sontuose toilettes femminili; all’austerità di vecchi castelli rispondono le vivaci linee delle più bizzarre decorazioni moderne: all’evanescenza della fiaba risponde l’impetuosa e commovente realtà del dramma umano. È insomma un’opera in cui tutte le antitesi si dibattono per una suprema sensazione di bellezza, per una di quelle battaglie d’arte in cui soltanto possono trovare ragione di fondamento le rinnovate fortune del cinematografo.
Protagonista del dramma è una muta. Una muta… nell’arte muta. Attorno a questa strana creatura si svolge un’azione intensa, vasta, avvincente. A questa trovata fondamentale infinite altre ne fanno seguito una più interessante dell’altra, una più dell’altra nuova e geniale. I procedimenti di realizzazione sono poi pieni d’innovazioni artistiche e tecniche di una audacia e di una genialità senza precedenti, mentre gli ambienti, i costumi, gli esterni, gli interni sono tali da offuscare ogni precedente ricordo.
Un vasto complesso di noti ed eccellenti attori partecipa all’esecuzione. In primo luogo Romano Calò — l’apprezzato attore di prosa — e Maria Corwin, la bionda, elegante, valorosa attrice che i principali film di Lucio D’Ambra ha animati della sua arte viva e profonda, che nel contenuto di questi films ha trovato una fonte inesausta di affermazioni e di successi.
Girotondo, insomma, anche dal punto di vista dell’interpretazione, sarà il film degno di lanciare una marca il cui nome è segnacolo di uno splendido e luminoso programma d’arte.
Ugo Ugoletti (Cinemundus, Anno I – Numero 1, Roma Luglio 1918)
Roma, luglio 1918. Il grande avvenimento artistico e industriale di questa settimana è noto a tutti: la Lucio D’Ambra Film, soci Alfredo Fasola e Lucio D’Ambra si è costituita a Roma ed ha iniziato i suoi lavori inscenando: Girotondo d’undici lancieri, nuovissimo film di Lucio D’Ambra, inscenato dall’autore ed interpretato da Maria Corvin e da Romano Calò.
La Lucio D’Ambra Film… Il cinematografo è dunque un irresistibile seduttore. Potete essere degli insensibili e dei cinici, dei miscredenti tenaci e dei negatori aprioristici, ma se incominciate a considerare e valutare il cinematografo nei molteplici aspetti della sua iridescente e fantasmagorica costituzione finirete con l’essere persuasi che il diavolo non è poi tanto brutto come si dipinge: se le seduzioni artistiche non sono tali da conquistare le anime più refrattarie e ben difficile resistere a quelle seduzioni, diremo così, materiali, di cui il cinematografo è fastosamente prodigo.
Lucio D’Ambra ha incominciato per giuoco, ha ideato il suo primo film un po’ per curiosità e un po’ per passatempo ed ha poi finito coll’appassionarvisi al punto da concentrare quasi esclusivamente, al meno per il momento, la sua infaticabile operosità in questa nuovissima manifestazione d’arte.
La disgrazia e la fortuna di Lucio D’Ambra — disgrazia per la letteratura e fortuna per il cinematografo — debbono ricercarsi nel fatto di avere ideato un primo scenario con quella sensibilità di poeta, con quella raffinatezza di sentimento estetico, con quel fervore di fantasia che l’elegante, squisito, delizioso scrittore aveva così largamente profuso nei suoi romanzi e nelle sue commedie.
Nella grigia consuetudine della vecchia cinematografia fatta di riduzioni assurde e di orribili zibaldoni romantico passionali, il primo soggetto ideato da Lucio D’Ambra fu come la rivelazione di un mondo nuovo, di un più vasto e più luminoso orizzonte. da quel giorno, si può dire, l’industria cinematografica incominciò a percorrere le inesplorate vie delle sue più salde fortune. Il pubblico cominciò a comprendere che ben altre emozioni il cinematografo gli avrebbe riserbato e le case si convinsero che attraverso un rinnovamento ed una nobilitazione della loro attività non solo avrebbero potuto conquistare quella parte di pubblico intellettuale che fino allora non avevano dimostrato eccessive simpatie per il cinematografo, ma sarebbero riusciti e a risolvere in modo ideale il vecchio e imbarazzante dilemma di conciliare le ragioni dell’arte con quelle dell’industria.
Come conseguenza immediata pervennero a Lucio D’Ambra numerose e lusinghiere offerte da parte delle più note case: il simpatico scrittore non seppe resistere alla tentazione ed incominciò a sottrarre una parte del suo tempo alle predilette occupazioni di giornalista e di letterato per “ideare” e scrivere tutta quella serie di deliziosissimi films che rappresentano davvero il ciclo d’oro della cinematografia italiana.
Il merito maggiore di Lucio D’Ambra fu quello di considerare la cinematografia con gli occhi della realtà e non con quei pregiudizi teatrali in cui erano rimasti impigliati alcuni autori anche celebri che avevano scritto per il cinematografo dei soggetti pretenziosi di psicologia ma poveri d’inventiva e di genialità. Lucio D’Ambra vide il cinematografo con ben diverso spirito e ne compresse tutte le possibilità amplificative, tutte le risorse tecniche, tutti i particolari elementi. La sua fantasia, allora, si sbizzarrì in un giuoco inesauribile e stupendo: nella vicenda dei suoi scenari si compiacque creare delle difficoltà che la tecnica cinematografica avrebbe poi dovuto risolvere. In ogni suo film rimase sempre fedele al concetto di fondere la fantasia con la realtà, la verità col sogno, la psicologia con l’estetica. Fu inesauribile nel creare situazioni e trovate di una squisita e deliziosa originalità. Ma questo giuoco di fantasia doveva perdere il commediografo e lo scrittore, Che, ahimè, le chiare, minuziose, dettagliate esposizioni di Lucio D’Ambra fecero sbarrare tanto d’occhi a quei direttori artistici e cui venne confidato l’onore di realizzare sullo schermo le idee dello scrittore. Certe trovate e certe situazioni parvero alla vecchia mentalità fossilizzata di quei metteurs an scène come indecifrabili rompicapo, come rebus diabolici e paradossali. Così, qualche volta, quando il suo personale intervento non potè essere di valido ausilio, Lucio D’Ambra ebbe l’ingrata sorpresa di vedere amabilmente soppresse ed assai meno amabilmente divertite e falsate alcune delle situazioni più originali, caratteristiche ed interessanti dei suoi films. Allora Lucio D’Ambra, volente e dolente, passò del tutto il Rubicone e decise che i suoi lavori li avrebbe messo in scena da sé.
Nacque così una nuova casa, la Do-Re-Mi, che in un periodo assai breve di tempo fece conoscere al pubblico tre lavori che segnarono altrettanti successi per l’autore inscenatore: una tenue, squisita, delicata commedia: Le mogli e le arance; una commedia sentimentale di una incomparabile originalità: Napoleoncina; e un dramma, un dramma umano, avvincente e profondo: Ballerine. Altri due films, anch’essi drammatici, sono in procinto di chiedere al pubblico consacrazione di due nuovi successi: La commedia dal mio palco e Passa il dramma a Lilliput.
Non si può pensare a tanta fecondità senza rimanere meravigliati ed entusiasmati. Tanto più meravigliati in quanto, se tutti questi films sono intimamente collegati da un filo ideale che ne forma una splendida collana d’arte, differiscono profondamente l’uno dall’altro così nella esteriore linea estetica come nell’intimo contenuto spirituale. E non meno sostanzialmente, del resto, differiscono tutti gli altri films creati dalla fervida genialità di Lucio D’Ambra, dalle fantasiose avventure di Emir, Cavallo da Circo, alla profonda drammaticità di Cosetta, dalla vivace giocondità di Papà mio mi piaccion tutti! alla tragica efficacia di Carnevalesca. Così non si può pensare senza meraviglia all’operosità febbrile e tenace di Lucio D’Ambra specialmente da chi non ignora quale vita di fatiche fisiche e intellettuali, sia quella dell’inscenatore. nella complessa e fantasmagorica vita del cinematografo sono i direttori artistici quelli che assommano nella loro persona le più delicate incombenze, i più gravi oneri e responsabilità che raggiungono proporzioni allarmanti quando si tratta di portare dinanzi all’obiettivo opere irte di difficoltà artistiche e tecniche come quelle di Lucio D’Ambra.
Ma è soltanto con questo volontario sacrificio, con questa piena e cosciente dedizione di sé stesso alle opere cinematografiche che Lucio D’Ambra poteva vedere idealmente realizzate sulla vita dello schermo le gaie e doloranti creature della sua fantasia: è soltanto con il controllo diretto e immediato della sua raffinata sensibilità, del suo squisito buon gusto, del suo vivo ed inesauribile talento che i suoi scenari potevano assurgere a quella perfettibilità ideale consacrata da così eloquenti e significativi trionfi. (segue…)
La ballerina Alfonsina Battaglia (Leda Gys), La Principessa, Caesar Film 1917
La brillantissima commedia cinematografica, che la Caesar Film ha editata è tratta dalla celebre novella omonima che Roberto Bracco scrisse circa dieci anni fa, e che ottenne un clamoroso successo e fu tradotta in tutte le lingue¹.
In questa adattamento per lo schermo, l’autore ha fatto degli opportuni mutamenti, facendo, fra l’altro, sparire tutto ciò che potesse sembrare salace, e sottolineando maggiormente, per la visione cinematografica, tutto quello che vi era di più artistico e di più elegante.
La commedia è tramata sopra un delizioso, originalissimo caso di straordinaria rassomiglianza tra due donne; l’una gran dama autentica, una principessa; l’altra una piccola bohémienne, che si dà al caffè concerto, scritturandosi come danseuse. La gran dama, di una impeccabile severità di abitudini, resiste agli assalti galanti dei suoi ammiratori, rispondendo il tal modo, all’assoluta fiducia che in lei ripone suo marito, uomo anch’egli di grande serietà e probità.
Il debutto al caffè concerto della piccola bohémienne rivela la strana rassomiglianza ad una folla di spettatori, ai quali la bella dama così altolocata non è ignota. Naturalmente tra costoro sono gl’inutili corteggiatori della Principessa, i quali maggiormente possono constatare come la rassomiglianza sia perfetta: le due donne sembrano una persona sola. Inconsapevolmente la danzatrice sfrutta questo successo, poiché i mosconi che ronzano attorno alla bella dama, trovano in colei quelle grazie e quei sorrisi che incoraggiano la loro galanteria, e che erano così ostinatamente negati dalla Principessa.
Questo così intenzionale successo della piccola danzatrice, è risaputo dal marito della gran dama, il quale si sente offeso dalla pubblica constatazione della rassomiglianza d’una donnina di caffè concerto con sua moglie, ed ancor più dal fatto che gli amici di casa si consolino dei loro fiaschi, corteggiando col miglior risultato la danzatrice. Uno solo dei corteggiatori, il più innamorato ed il più intraprendente, resta fedele alla bella Principessa, disdegnando la volgare sostituzione. Ed è costui che informa, per renderla gelosa, la dama come suo marito la tradisca, avendo sequestrata quasi la piccola danzatrice. In effetti, il principe, perché quello che agli occhi suoi pare uno scandalo, cessi, con molti sacrifici finanziari ottiene dalla donna che si ritiri dal palcoscenico e metta alla porta la schiera degl’intraprendenti. Egli stesso sorveglia perché la consegna sia mantenuta, ed è così che sua moglie riesce a sorprenderlo in casa della danzatrice.
La principessa Sallustio (Leda Gys), La Principessa, Caesar Film 1917
La Principessa, convinta di esse stata tradita, decide di divorziare, sorda ad ogni giustificazione. Il divorzio avviene in Svizzera, e la bellissima commedia termina con due matrimoni: quello del giovane innamorato con la Principessa, e l’altro del principe con la danzatrice.
Leda Gys nella doppia interpretazione della parte della Principessa e della Vice-Principessa, è stata insuperabile.
La squisita attrice ha dato ai personaggi della commedia quel brio, quella grazia, quella misura che ne hanno fatto un vero capolavoro di questo film, cui la Caesar ha dato l’impronta della più grande eleganza e signorilità, con un decoro scenico quale meritava il magnifico lavoro.
Accanto a Leda Gys, ha trionfato Camillo De Riso, nella parte del principe, attore cui ogni lode è superflua.
La Principessa può dirsi realmente la prima commedia cinematografica italiana che possa rivaleggiare con la migliore produzione del genere che ci viene dall’estero, e segna un trionfo di più all’attivo della Caesar Film. (dalla brochure del film)
Antefatto
Nel mese di giugno 1916, Roberto Bracco si trovava per affari a Roma, all’Hotel Continentale. Il suo grande amico Lucio d’Ambra, allora direttore artistico della nuova casa cinematografica Medusa Film, fondata dal Marchese di Bugnano, si recò da Bracco e gli disse:
— Il Marchese di Bugnano desidera parlarti. T’invita a colazione con noi al Circolo della Caccia. Deve proporti un affare. Vuole comperare la tua novella La Principessa per farne un film. Ti prego di non mancare.
Il Marchese di Bugnano e Roberto Bracco erano già in cordialissimi rapporti d’amicizia. E il Bracco naturalmente accettò.
A colazione al Circolo della Caccia tra Bracco, d’Ambra e Bugnano si parlò dell’affare. Ma Roberto Bracco espresse il dubbio preliminare che un film cavato dalla sua novella La Principessa avrebbe potuto pregiudicare gl’interessi del noto commediografo italiano, di nome esotico, poiché d’origine inglese, Washington Borg², il quale, col consenso del Bracco, aveva tratta una commedia dalla stessa novella. La commedia non era stata ancora rappresentata, e perciò il Bracco pensava che gli interessi del Borg potessero essere, dal film, pregiudicati. Ma Lucio d’Ambra fece notare che un film non s’improvvisa. La commedia sarebbe stata dunque rappresentata, probabilmente, prima che si potesse lanciare il film. Oltre di ché, la réclame fatta al film avrebbe giovato alla commedia. Roberto Bracco presto si convinse che i suoi scrupoli erano errati ed accondiscese, quindi, a vendere al Marchese di Bugnano la sua novella.
La sera di quel medesimo giorno Roberto Bracco, rientrando in albergo, trovò il Marchese di Bugnano e Lucio d’Ambra che l’aspettavano per concludere. Una conversazione sulla cinematografia irritò alquanto l’iracondo Bracco, che a un dato punto disse: « Non voglio più saperne. Non voglio dare più nulla alla cinematografia ». Ma le preghiere e le insistenze del Marchese di Bugnano e di Lucio d’Ambra lo calmarono. La trattativa si strinse di nuovo. Fu stabilito che il Bracco avrebbe ricevuto a Napoli, dal Marchese di Bugnano, il contratto definitivo. Quanto al compenso, il Bracco promise d’accettare la somma che il Marchese di Bugnano gli avrebbe offerta. Fidava in lui, avendo avuto con lui altri rapporti d’affari (Sperduti nel buio: altro dramma del Bracco venduto al Bugnano).
Roberto Bracco tornò a Napoli. Ma il contratto con l’offerta finanziaria si faceva aspettare. Fu data intanto a Roma, il 20 luglio, al teatro Quirino, e con buon successo, la commedia del Borg tratta dalla novella bracchiana. Il nome di Bracco figurava, regolarmente, su i cartelli, e la stampa fu larga di lodi per il novellatore e per l’autore della commedia. Il critico più entusiasta fu Lucio d’Ambra, nella Tribuna. E il bel successo della commedia indusse immediatamente l’avvocato Giuseppe Barattolo — don Peppino — proprietario e direttore della Caesar Film, a chiedere a Roberto Bracco se egli fosse disposto a vendergli, per un film comico, la novella La Principessa. Il Bracco rispose:
— Non posso, perché sono già impegnato con Bugnano.
Dopo di che scrisse a Lucio d’Ambra lamentandosi di non avere ancora ricevuto dal marchese di Bugnano il contratto. Passò ancora qualche settimana. E finalmente il Bracco ricevette un lungo telegramma nel quale Lucio d’Ambra diceva su per giù questo: « Bugnano ed io siamo dolentissimi di doverti comunicare che non faremo in film La Principessa. Abbiamo riflettuto meglio. Ci siamo accorti che La Principessa non è, in fondo, cinematografabile. Ma ti promettiamo che ben presto concreteremo con te qualche altro affare ».
Il Bracco, stupito e addolorato, scrisse a Lucio d’Ambra una lettera amara, che rimase senza risposta. E qui è giusto ricordare un’altra circostanza. Al Circolo della Caccia, il giorno della prima trattativa, il Bracco, con molta delicatezza, aveva espresso il timore che il soggetto della Principessa fosse eccessivamente piccante per la cinematografia. Ma Bugnano e Lucio d’Ambra lo avevano rassicurato dicendo: « Non ti preoccupare di questo. Noi, col tuo permesso, trasformeremo la novella. Ci basterà la deliziosa trovata della rassomiglianza. Le daremo uno sviluppo un po’ diverso. E sarà, comunque, un film originalissimo ».
Queste parole non erano state dimenticate dal Bracco. E quindi egli non poteva trovare giusto, né giustificabile, il pentimento del Bugnano annunziatogli da Lucio d’Ambra. D’altra parte il Bracco, non avendo più nessun impegno col Marchese di Bugnano, scrisse all’avvocato Barattolo di poter disporre della sua novella ed il Barattolo, senza perder tempo, ne comperò l’esclusività cinematografica per 4.000 lire.
Questo è l’antefatto. Commedia. Poi venne il dramma fra i due celebri autori.
Quando il film di Lucio d’AmbraIl Re, le Torri, gli Alfieri fu lanciato, con grande réclame, a Napoli, comparve nel Giorno — il quotidiano diretto da Matilde Serao — un articolo pieno di elogi. Ma il cronista, raccontando il soggetto, rilevava, a un certo punto, un’analogia con una nota novella del Bracco. Il giornale fu letto anche dall’avvocato Barattolo che subito si allarmò. Chiese conto di questa analogia al Bracco, che rispose di non essere responsabile. Intanto alcuni forse non appassionati spettatori riferirono al Bracco ed al Barattolo di aver riscontrato nel film Il Re, le Torri, gli Alfieri un importante episodio — l’episodio culminante — che era, secondo quei signori, una riproduzione evidente della novella bracchiana. La novella era stata trasformata, sì, — parlano sempre quei refendarii, — ma non tanto da non essere riconosciuta. L’avvocato Barattolo, al quale Roberto Bracco aveva raccontato quel che gli era accaduto col Marchese di Bugnano, si raccapezzò subito, a modo suo: « Roberto Bracco — pensò, — non aveva mai più ricevuto dal Bugnano l’atteso contratto perché Lucio d’Ambra aveva già sfruttato per conto suo, nel soggetto del film Il Re, le Torri, gli Alfieri, la novella della Principessa. Semplicissimo ».
E allora Barattolo e Bracco si rivolsero a me per la risoluzione della questione³. Francesco Soro (Splendori e miserie del cinema, Consalvo Editore, Milano 1935)
Nella raccolta Smorfie gaie (1909).
Per la cronaca: poco più di un anno prima, febbraio 1915, Lucio d’Ambra e Roberto Bracco avevano “raccomandato” Washington Borg all’avvocato Lo Savio della Film d’Arte Italiana Pathé, dove il commediografo e giornalista debuttò come aiuto metteur-en-scène.