La vita cinematografica febbraio 1916

Il Giornale, Società Anonima Ambrosio 1916
“Il Giornale”, la grandiosa film che vinse il primo premio al Concorso della Associazione della Stampa Subalpina eseguita dai migliori artisti della Casa Ambrosio col concorso dei giornalisti torinesi.

Febbraio 1916

L’avv. Barattolo continua sempre più a dare alle pellicole edite — o da editare — con marca Caesar, ormai popolare ovunque, evidenti caratteri di superiorità e straordinarietà.

Ecco ora che viene annunziata una serie speciale di lavori, con protagonista Mario Bonnard: difatti abbiamo visto più volte il grande attore nella Capitale e sappiamo come le nuove interpretazioni riusciranno efficacissime e personali. La messa in scena sarà del Cav. De’ Liguoro, l’artista esimio che già, col Bonnard ad interprete, diresse: Fiori d’amore e morte, quel gioiello di due anni or sono, della Gloria.

Ma c’è ancora un’altra notizia: la Caesar ha avuto il permesso da Roberto Bracco di ridurre per il cinematografo La piccola fonte. La popolarità del capolavoro drammatico del commediografo napoletano, lascia prevedere un successo commerciale di prim’ordine; il successo artistico è già assicurato, poiché l’interprete sarà la Bertini (che Teresa!) ed il metteur en scène Giuseppe De’ Liguoro.

Le troupes di Serena, di Camillo De Riso e di Guillaume, continuano regolarmente il lavoro; il primo ha già ultimato: La cieca di Sorrento, che presto ammireremo. Ci assicurano che, oltre alla messa in scena d’una accuratezza insuperata, è notevolissima l’interpretazione; di modo che la riduzione del popolare romanzo di Mastriani, sarà uno dei prossimi grandi successi della Caesar.

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Il Cav. Augusto Jandolo, confortato dal successo di altri suoi drammi, tratti dalla nostra gloriosa storia, ovunque applauditi e suscitatori d’entusiasmo, ha ideato ed eseguito una pellicola episodica della battaglia di Palestro, 1859. Il titolo è: Altri tempi… altri eroi. Vittoria Moneta ed altri interpreti valenti ed efficaci hanno contribuito alla riuscita del lavoro, che conta scene d’imponenza mirabile, oltre che assai commoventi ed interessanti, la Real Film sarà, ancor meglio che con i due precedenti lavori, affermata da: Altri tempi… altri eroi.

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Prima d’iniziare il lavoro Petruska, di Giuseppe Adami, la nuova Casa Apollo del signor Micheli, ha ultimato Gloria di sangue. Ci dicono che sia una film eccezionale e che contribuirà ad imporre l’Apollo Film. L’interpretazione della Terribili-Gonzales è suggestiva, vigorosa, quanto mai efficace.

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Alla direzione della Brune Stelli di Roma, innanzi a un ristretto numero di pubblicisti e di artisti, Fausto M. Martini ha letto un suo nuovo lavoro cinematografico scritto appositamente per la Sig.na Gabriella Besanzoni, la nota artista della scena lirica.

L’impressione riportata dall’auditorio alla lettura del nuovo dramma, uscito dalla potente penna del letterato, è stata grandissima, e la maggiore entusiasta fu la Sig.na Besanzoni (acclamata dal pubblico romano sulle scene del Costanzi, della Scala, del Massimo) che, sedotta dall’arte muta, non sdegna di abbandonare, sia anche temporaneamente, le scene liriche per lo schermo.

Tra il commediografo ed il Sig. Armando Brunero, direttore artistico della Brune Stelli, è già corsa una completa intesa sullo svolgimento del lavoro, e, dato il nome illustre dello scrittore e la nota abilità tecnica del Brunero, siamo certo che un capolavoro, ideato e costruito con somma dignità d’arte, arricchirà il teatro cinematografico italiano.

Questa film sarà la prima della serie Besanzoni che la giovane Casa Romana editerà.

Gli onori della Casa vennero fatti, con la consueta signorilità, dal Sig. Luigi Castelli, proprietario della Brune Stelli Films.

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Con rogito del Dott. Pompeo Piceni, di Milano, venne costituita la Società in accomandita semplice Luca Comerio & C. la quale si è resa rilevataria dello Stabilimento Fotografico e Cinematografico del Cav. Luca Comerio — Via Serbelloni, 4 — e in Turro Milanese, e ne continuerà l’industria ed il commercio relativi.

La gerenza della Società è affidata ai Soci Accomandatari signori Cav. Luca Comerio, Ines Comerio-Negri, Rag. Emilio Levi.

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Si è suicidato a Firenze, con un colpo di rivoltella, il signor Tullio Marcadanti del Consorzio Pathé di quella città, e proprietario del notissimo cinematografo Garibaldi.

Le cause del suicidio devono ricercarsi — secondo la stampa locale — a dissesti finanziari.

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La Volsca Film di Velletri, che aveva temporaneamente interrotto il lavoro per il richiamo sotto le armi di quasi tutto il suo personale artistico e amministrativo, ha ricomposta la sua compagnia con elementi nuovi, fra i migliori disponibili, ed ha ripresa la sua attività alacre per mettersi in grado di rivaleggiare quanto prima colle sue concorrenti.

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È rientrato in Italia il Cav. Uff. Arturo Ambrosio, reduce dall’America del Nord. Non ho parole per dire la squisita cortesia del Cav. Ambrosio, che ha voluto ricevermi malgrado la turba innumerevoli dei visitatori, e l’enorme peso di affari che si sono accumulati nella sua assenza.

Il simpatico uomo, che del faticoso viaggio, così pieno di insidie e di pericoli, non porta sul viso tracce di stanchezza, ha avuto parole di vera ammirazione per lo sviluppo dell’industria cinematografica americana e non mi ha nascosto che la concorrenza, che di là si muoverà alla fine della guerra, non può, né deve lasciarci indifferenti!

« Senza voler discutere le qualità ed i difetti di tale produzione, è indubbio che gli americani non si stancano di creare, con mezzi geniali, un genere fatto a sé nella tecnica cinematografica, in felice connubio con dei soggetti trattati in modo del tutto nuovo e originale. È un metodo a cui in Europa non potremo naturalmente subito adattarci: la nostra anima, specialmente quella latina, si allontana assai da quella americana: le nostre idee non sono del tutto concordanti, sia per il sentire nostro speciale, sia per la diversa espressione delle passioni, che animano gli interpreti americani secondo il concetto, il desiderio del pubblico americano.

Ne viene di conseguenza che i nostri lavori non si confanno più agli occhi americani, che, assuefatti già al nuovo genere, vogliono le scene  ambientate al loro gusto.

Non è il caso di diminuirci, né di confessare che l’America sia superiore a noi: non è il caso, ripeto: gli americani ammirano senza difficoltà le nostre anime d’artisti, l’intelligente sentire che pervade ogni nostro lavoro, le superbe mises-an-scène che noi curiamo con tanto amore, i contrasti passionali che animano i nostri soggetti, la psicologia di certe situazioni, il garbo, l’eleganza di certe scene… ma ci contrappongono i loro lavori, che sono in questo momento originali e trattati in modo affatto diverso: lavori in cui le scene si susseguono con rapidità, senza inutili giuochi di fisionomia, senza lungaggini d’azione, senza superflui décors, con trovatine geniali, intercalate di quando in quando, che spezzano, se è necessario ancora, l’eventuale uniformità di qualche scena…; lavori, in conclusione, che non lasciano pensare al pubblico: gli impediscono la critica particolareggiata: non gli permettono di annoiarsi, anzi lo divertono quasi sempre, anche se l’essenza del soggetto non è del tutto nuova.

Non è il caso di parlare di guerra commerciale: un popolo come il nostro, che ha un valore di intelligenza duttile ed atta a plasmarsi sulla foggia altrui, senza mai perdere la propria aristocratica  e geniale personalità, non deve temere alcuna concorrenza: deve bensì seguire il progresso, mutandosi secondo le circostanze: uniformarsi alle novità… per riuscire ad imporsi o, quanto meno, a far sentire il suo peso sul mercato ed indurre così i concorrenti a stringere possibilmente un patto di alleanza, di reciproca tolleranza: un patto insomma vantaggioso per tutti… Ma è necessario lavorare, studiare: tenersi al corrente di quanto fanno gli altri popoli: non disperdere inutilmente le proprie forze… ed allora si riuscirà nell’intento…

Don Giovanni – Caesar Film 1916

Don Giovanni (Caesar Film 1916)
Mario Bonnard (ultimo a sinistra) in una scena del Don Giovanni, produzione Caesar Film, Roma 1916.

Per dieci giorni le due vastissime sale del Moderno di Roma si sono affollate di spettatori, accorsi ad assistere alle visioni del Don Giovanni, la novità della Caesar Film con cui s’è inaugurata la stagione elegante cinematografica. E gli incassi furono fenomenali, da gareggiare con quelli dello scimmiotto Jack.

Questo successo di cassetta indica chiaramente quanto sia piaciuto il cinedramma fantastico del Pacchierotti; e sopratutto quante discussioni e quanta curiosità abbia suscitato e destato. Ci troviamo di fronte a un’opera molto discutibile, perché nuova e ardita, che si discosta felicemente dai soggetti sinora veduti.

Scritta apposta per Mario Bonnard, ha dovuto nei primi tre episodi: La sedottaUn capriccioUna passione, battere le vie ordinarie, onde dar occasione al “mattatore” di presentarsi in varie manifestazioni del suo talento d’attore e d’interprete.

Vediamo il protagonista, conte Giovanni D’Orio, studente spensierato, scapestrato e senza scrupoli sedurre ed abbandonare una povera giovinetta, Inés, che non resiste allo strazio e si suicida. Lo vediamo poi, uomo ricco ed elegante fra i piaceri della vita mondana, degli sports, del gioco, incapricciarsi d’una ragazzetta affiliata a una combriccola di ladri e da essi sfruttata. Il conte D’Orio ne fa la conoscenza in modo strano a casa sua, in una notte di furto. La sorprende, ma non la dà in arresto, né la denuncia. È carina, gli piace, e tanto basta. Per rivederla, si traveste da apache e frequenta i bassi fondi a lei cari; la difende dagli sfruttatori, col solido argomento del pugno di ferro.

Lulù, così si chiama la gigolette, s’ innamora pazzamente di lui, gli si avvinghia con la sua gelosia e la sua denunzia provoca due tragedie. Il conte D’Orio è preso da una vera, seria passione, la prima in vita sua, per la marchesa Lelia, che lotta, ma finisce col corrispondergli. Il Commendatore Gonzalo, fidanzato di Lelia, provoca Giovanni: si battono e quegli rimane ucciso. Il dramma e lo scandalo dividono i due innamorati. Lulù, la denunciatrice, viene scacciata dal conte; ma non si rassegna; al contrario, spia, meditando la vendetta.

Dopo alcuni mesi, a un ballo mascherato di beneficenza, il conte D’Orio, — (che indossa il costume cinquecentesco di Don Giovanni Tenorio, l’eroe sivigliano cantato da Tirso da Molina, Molière, Byron e Zorrilla) — si ritrova con la marchesa Lelia. La passione che li domina prorompe, s’uniscono, s’appartano, si stringono, si baciano. Lulù, che spiava, piomba furente sulla marchesa e la fredda d’una stilettata. L’arrestano e impazzisce.

Questi tre episodi, pieni di graziosi, vivaci e interessanti dettagli d’intreccio e di sceneggiatura che trascuriamo, furono evidentemente scritti su misura, per farne un abito, anzi vari abiti in cui potesse pavoneggiarsi Mario Bonnard: compreso il trito e ritrito travestimento d’apache, al quale però nessun Divo dello schermo rinunzierebbe oggi.

Ma nell’ultimo episodio: L’espiazione, il Pacchierotti ha potuto dar libero corso al suo gusto e alla sua fantasia, dandoci una nota nuova in cinematografia, genialissima e dalla quale si sarebbero potuti trarre effetti meravigliosi.

Il conte D’Orio fra tante vicende si trova d’aver sciupato inutilmente la sua vita e la sua salute. Verso la quarantina è già vecchio.

Sempre in cerca di nuove sensazioni, tormentato da rimpianti e rimorsi, si dà agli eccitanti, ne abusa, divenendo cosi preda di deliri e d’allucinazioni. In una notte di tempesta, nervosissimo, s’assopisce per effetto dell’etere. Nella sua stanza è il celeberrimo quadro di Giacomo Grosso: Supremo convegno, quello in cui Don Giovanni nella bara è visitato da una sfilata meravigliosa di donne bellissime e voluttuose discinte, che furono sue amanti e vengono a dargli chi l’ultimo saluto, l’ultimo palpito, l’ultimo bacio, chi l’ultimo scherno e l’ultima maledizione. Le donne si staccano dal quadro, scendono, attorniano il moderno Don Giovanni addormentato; ed egli sorridendo se ne gloria, giacché pensa come pur dopo morto sarà adorato ed odiato dall’eterno femminino. Ma d’improvviso una delle conturbanti figure assume l’aspetto della marchesa Lelia, col petto squarciato e il cuore sanguinante dalla ferita; le altre inorridite, svaniscono. Dalle inferriate di una cella di manicomio criminale Lulù tende le braccia verso il conte Giovanni: e s’allungano, s’allungano, sino a pigliarlo per la strozza. Egli nella allucinazione si dimena, disperato: quando un’ultima visione lo fa sussultare e svegliare con un urlo: la piccola Inès, la sedotta, che si getta dal balcone.

Questi quadri impressionanti ci evocò la lettura dello scenario del Pacchierotti, quando la udimmo. Nella esecuzione la Caesar-Film fece alcune varianti non felici: il quadro del Grosso per esempio fu soppresso, risultandone uno dei pochi punti deboli della pellicola, ma in complesso eseguita in modo da giustificarne il crescente successo. Edoardo Bencivenga ha convalidato la sua grande fama d’inscenatore, già cosi bene fondata.

Varianti, e ben più gravi, furono portate nei titoli e nei sottotitoli, diversi da quelli scritti dall’autore ma a ciò si potrebbe facilmente rimediare: e si chiarirebbero alcuni tratti del quarto episodio, rimasti vaghi per soppressione ingiustificata di didascalie.

Ma torniamo al Don Giovanni. Turbato allarmato egli va a cercar pace e salute presso un suo diletto compagno d’Università, medico, che vive felice in campagna con la sua famigliola. Se il conte D’Orio nella vita rappresentò il Piacere, il dottor Luigi rappresentò il Dovere. Accolto qual fratello da Giovanni comprende d’essere un fallito e invidia quella famigliola che aveva dianzi sempre deriso.

A forza di sentirsi chiamare Don Giovanni ha voluto leggere e rileggere il capolavoro di José Zorrilla, l’immortale poeta Spagnolo che ne cantò le gesta: e lo si è immedesimato. Pensa alle rassomiglianze strane fra la sorte e il nome di due sue vittime, Inés e il Commendatore Gonzalo, con le omonime vittime del conquistatore sivigliano. In punto di morte ha un estremo delirio prodotto dall’etere, in cui si vede tramutato nel Don Giovanni Tenorio della leggenda. Tutta la famosa scena del cimitero è rivissuta da lui. L’ombra angelica di Donna Inés, con le sembianze della sua sedotta, gli appare, lo conforta promettendogli salvazione eterna, purché si penta, invocando Dio nel supremo anelito. Ma la statua del Commendatore lo irride, lo sfida, lo afferra, gli mostra i suoi grandiosi funerali all’epoca di Carlo V — (questo è un altro quadro mancato e povero nell’esecuzione, mentre avrebbe dovuto segnare un avvenimento artistico per la fiorente casa romana) — e vorrebbe trascinarlo fra le fiamme dell’inferno. Ma l’eterea fanciulla purificata dal dolore, che ha dato al Cielo la propria anima in pegno di quella di lui, ricompare e lo salva. Egli esclama fervidamente:

— Sia gloria a te, Dio di Misericordia! Ti benedico Ines dell’anima mia!…

Piomba riverso, e muore. lnès fa cadere sul corpo adorato una pioggia di fiori, che sbocciano dalle sue dita come se le venissero dall’infinito.

All’emozione intensa del drammatico sogno, il conte Giovanni D‘Orio si desta spasimando. L’amico giunge appena in tempo a raccoglierne l’ultimo respiro. La moglie di lui, ch’era inconsapevolmente come soggiogata dal fascino avventuroso di Don Giovanni, prende tutti i fiori di cui è piena la stanza, li sfoglia e li sparge sul cadavere, rinnovando inconsciamente il pietoso gesto di Donna Inès.

Questo finale tanto poetico e conforme alla leggenda spagnola, che vuole il seduttore sivigliano salvo, fu variato nell’edizione italiana, per desiderio del Bonnard e con una concezione sua, ispirata da quel Satana che gli valse meritata celebrità e volle farci rivedere sullo schermo.

In luogo d’essere vegliato dall’amico e dalla sua giovane moglie, in questa versione il cadavere del conte D’Orio rimane abbandonato e poco a poco si converte in orribile scheletro. Allora Satana sorge di sotterra, lo agguanta e se lo porta via.

Questa soluzione non piacque al pubblico e da alcuni giorni fu tagliata. Senza però che ci si sostituisse quella del Pacchierotti cosicchè l’opera rimase monca e tradita: ultimo tradimento del Tenorio!…

La film nel complesso è tanto bella, tanto interessante, fa tanto onore alla Caesar e avrà dovunque tante visioni, che certo l’intelligentissimo avvocato Barattolo vorrà toglierne subito i piccoli titoli deficienti e ricostituirla nel finale come fu originariamente pensata, e eseguita nelle pellicole destinate all’estero.

Già lodammo Edoardo Bencivenga, che si prepara al trionfo de La figlia di Iorio, un lavoro il quale stupirà artisti e pubblico. Il Don Giovanni, variato, fantastico, contemporaneo e antico a un tempo, misto di realtà e di sogno, presentava per la sceneggiatura rapida, spezzata, modernissima, cara al Pacchierotti, serie difficoltà d’esecuzione. Il Bencivenga le superò tutte: e arricchì il magnifico lavoro d’esterni pittoreschi e suggestivi, fu abile e felice nei trucchi per le visioni e le allucinazioni.

Mario Bonnard ha potuto sfoggiare tutte le risorse del suo talento e della sua arte, nella proteiforme figura del protagonista.

Bello e brillante gran signore, studente pieno di vita e di gaiezza, apache caratteristico, hockey perfetto, schermitore temibile, seduttore sempre irresistibile, quando il Fato lo colpisce e i rimorsi lo puniscono, trovò espressioni ed atteggiamenti drammatici di somma efficacia, gesti di terrore e di pentimento moventi a pietà.

Camillo De Riso ha un ruolo episodico: ma non esistono piccole parti per i grandi attori; e quella dello zio viveur impenitente acquistò, per grazia e comicità, importanza primaria grazia a lui.

Don Giovanni avrebbe dovuto essere contornato da donne di bellezza radiante, ispiranti la voluttà e il desiderio al loro semplice apparire. Invece ne troviamo ben poche rispondenti a tale fascino di sensualità, in questo film.

Dobbiamo però lodare l’avvenenza e l’eleganza di Lia Mastrobuono, interprete della marchesa Lelia.

La stella del teatro di varietà con questo suo debutto sullo schermo si è affermata in un nuovo campo artistico, promettendo d’ eccellere pure in esso.

Lea Giunchi dal grazioso viso impersonò con realismo impressionante il tipo della Lulù innamorata e vendicativa sino al delitto. La Guillaume rese con evidenza tutta la rassegnazione e il dolore, della povera lnés. La Vanelli e il De Antoni contribuirono all’esito, mettendo un raggio di semplicità e di virtù in tanta vicenda di colpevoli e tragici casi.

Perfetta la fotografia nel complesso e accurato in generale l’allestimento scenico.

L’aver avuto la fortuna d’assistere, mesi or sono, alla lettura di questo Don Giovanni a una delle intellettuali riunioni cui dànno pretesto simpatici the di casa Pacchierotti, ove la grazia, il sorriso e lo spirito della giovane signora Wanda regnano e governano, mi ha facilitato questa recensione a base di confronti su quanto m’aspettavo e quanto ho veduto sullo schermo.

Se fui indiscreto, me lo perdoni l’autore del cinedramma; e mi punisca… invitandomi a nuove letture con sandwichs e pasticcini.

Un’ultima osservazione: ed è il musicista che la fa. La logica vorrebbe, e il Pacchierotti indicò, che durante le rievocazioni del Don Giovanni si suonasse il capolavoro di Mozart. Ma il direttore d’orchestra del Moderno vi si rifiutò, allegando che si trattava di musica… austriaca!

Cosa dirà fra giorni, vedendo figurare il Don Giovanni di Mozart sul cartellone del Costanzi, con Mario Bonnard… pardon, con Mario Battistini quale protagonista?

Cose da suicidio !…

Roberto Assanti 

Roma, Settembre 1916

Nasce il Sindacato della Stampa Cinematografica

Testata della rivista La Cine-Fono, diretta da Francesco Razzi
Testata della rivista La Cine-Fono, diretta da Francesco Razzi

Ognuno avrà potuto facilmente notare un certo significativo risveglio della grande stampa quotidiana, a proposito del cinematografo.
Nel numero scorso abbiamo dovuto spender qualche parola su un lungo articolo di una incompetente delle cose nostre; articolo pubblicato da un grande giornale di Napoli, e che ha sollevate le ire anche dei nostri confratelli, e specialmente del Film.
Ma non soltanto Il Mattino, bensì altri importantissimi quotidiani d’Italia, si sono occupati e si vanno occupando del mondo cinematografico, ospitando scritti di alte personalità del giornalismo e del teatro, o della letteratura. Si tratta della solita malattia contagiosa: un fenomeno che, nella stampa, si verifica spessissimo e che non può meravigliare.
Ma con quello del contagio, altri ve ne sono da rilevare come moventi di questo improvviso risveglio.

Da una parte lo stimolo, chiamiamolo così, commerciale, che porta le amministrazioni dei giornali a dare ospitalità alle notizie cinematografiche, e magari alla critica, recante firme notissime di loro redattori. Ed è ragione… di tanto a riga. Non ci scandalizziamo soverchiamente, sebbene la nostra stampa professionale e tecnica sappia fare netta distinzione fra le sue pagine di réclames e il suo testo, la sua cronaca e la sua critica… Ma lasciamo andare!
Sta di fatto questo: che il giornale politico ha preso la nostra arte e la nostra industria come un qualsiasi Tot, di cui, à un dato prezzo, si può dire tutto quello che l’interessato vuole:• tanto il pubblico saprà bene che si tratta di pubblicità.

Per gli scrittori, la cosa è un po’ diversa. Quando non ricevono l’ordine dalla direzione di firmare un dato scritto o di redigerlo addirittura a tema obbligato, o non ricevono la commissione dalla Casa ordinatrice della réclame, che dopo di essersi messa in regola con  l’amministrazione del quotidiano; quando, insomma scrivono di loro propria iniziativa, e quindi senza poter fare nomi di cose e di persone cinematografiche e riferirsi a dati di fatto (che altrimenti incorrerebbero nell’intervento della ditta assuntrice della pubblicità), quando ciò fanno, son mossi da buona fede o da ingenuità, qualche volta, ma più spesso dal desiderio di mettere in vista il proprio nome, di mettersi su quella via dove può esser possibile una qualsiasi combinazione che permetta loro di acciuffare a volo un affare cinematografico: un soggetto, per esempio, o magari la direzione di un lavoro… o addirittura di prestare la propria • firma allo scenario di un altro, tanto dar lustro alla produzione di qualsiasi casa a corto di risorse.

(…)

Molto si gioverebbe la nostra arte, se il giornalismo quotidiano si occupasse seriamente di esso… ma non soltanto a qualche lira per linea, anche se si tratta di critiche (ci piace ripeterlo) recanti nomi illustri. Se ne gioverebbe immensamente, perché finirebbe una buona volta la generale ignoranza sulle cose nostre, sui veri nostri problemi, sugli ingranaggi giganteschi che muovono questa grande industria mondiale.
Veritas

Per il Sindacato della Stampa Cinematografica
Ai colleghi tutti,

Abbiamo detto, nel numero scorso, che non dormivamo, e difatti — nella speranza che questo Sindacato, che sembra essere nel desiderio di tutta la nostra classe, sia presto un fatto compiuto — abbiamo preparato, con l’aiuto di qualche volenteroso collega, e tenendo presenti le idee finora espresse dai confratelli che si sono interessati della cosa, uno schema di statuto e il materiale per la prossima adunanza.
Il tutto sarà spedito direttamente a ciascun collega acciò ognuno possa farci pervenire le proprie osservazioni in modo da semplificare, così, e ben stabilire il lavoro da espletare nella detta adunanza; fare che essa riesca veramente proficua , e che la data sia fissata col maggiore accordo fra tutti.
Gli scopi del Sindacato sarebbero i seguenti:

  1. Tutela degli interessi morali e materiali dei suoi membri e della classe.
  2. Stabilire dei rapporti di buona armonia e di fratellanza fra i suoi soci.
  3. Istituire una cassa di soccorso e di previdenza.
  4. Studiare, curare e ben definire i rapporti fra la stampa nostra e l’arte e l’industria cinematografica.
  5. In linea generale fare tutto quanto potrà essere utili agli interessi comuni.

Questi, nelle linee generali, gli scopi.
Del Sindacato possono far parte, in diverse categorie, direttori, redattori, collaboratori e corrispondenti di tutti i giornali cinematografici periodici italiani.
Per semplificare il nostro lavoro, noi manderemmo anche a tutte le direzioni dei nostri confratelli alcune copie dello schema di statuto e dell’ordine del giorno; di modo che esse potranno facilmente comunicarle ai loro redattori, corrispondenti e collaboratori.
Nella fiducia di trovar negli interessati sempre lo stesso entusiasmo, non possiamo tacere la nostra riconoscenza per i colleghi tutti che, direttamente e indirettamente, ci hanno assistito nell’idea e hanno agevolato il nostro compito, e specialmente per i colleghi Alberto Sannia, prof. G. I. Fabbri e Francesco Razzi.

La Vita Cinematografia
(7-15 Febbraio 1916 – Archivio In Penombra)