
Torino, 13 novembre 1896. Il Cinematografo Lumière, che ammiriamo attualmente a Torino, trae le sue origini, come tutti i confratelli di nome consimile, dall’antico zootropio e dal praesinoscopio che tutti ricordiamo, perché formarono la delizia dei nostri giovani anni; era quello un semplice giocattolo più o meno imperfetto.
Una scatola circolare a forma di roulette, girante su di un perno, metteva in movimento una striscia di carta, sulla quale era rozzamente disegnata e dipinta una figura nei vari atteggiamenti di una determinata azione; era, o un saltimbanco che faceva il salto mortale, o la cuoca che macinava il caffè, o la vecchia che batteva le parti più rotonde di un bambino. Guardando queste immagini di varie pose, e giranti, attraverso una fessura, si aveva l’illusione di un vero e proprio movimento della persona raffigurata. Questo semplice meccanismo che meravigliava le menti infantili, era basato sulla legge ottica della persistenza, per quanto brevissima, di un’immagine nella retina.
Il Cinematografo ed i suoi confratelli non sono, adunque, una scoperta recente, ma soltanto una sapiente applicazione di un principio conosciuto, col mezzo della fotografia, della luce, della meccanica. Alla rozza immagine del zootropio è sostituita la fotografia le cui impressioni, mercé le lenti, si ingrandisce, si ingrandiscono come nella lanterna magica, a volontà. Alla modesta lucornetta a pretrolio si è sostituita la vibrantissima luce elettrica, e al debole movimento del perno girante si è sostituito un meccanismo rapidissimo.
Grazie alla gentilezza del signor Calcina, rappresentante della Casa Lumière, e di un giovane operatore inviato dalla Casa stessa, abbiamo potuto esaminare da vicino l’apparecchio, che non tenteremo di descrivere tecnicamente, ma che in fondo è molto semplice.
Immaginate una scatola simile ad una macchina fotografica comune, ma senza il cosiddetto soffietto. L’obiettivo si apre e si chiude mercé un disco girante munito di aperture le quali passano con una misurata rapidità davanti all’obiettivo medesimo, soffermandosi un istante. Questo istante è perfettamente uguale a quello impiegato per ottenere una istantanea, e cioè è della durata infinitesimale di una cinquantesima parte di minuto secondo.
Sull’obiettivo si dirige un fascio intensissimo di luce elettrica, lampada ad arco, luce che, attraverso l’obiettivo, va ad irradiare uno schermo di tela bianca finissima sul quale noi vediamo ingrandite le immagini fotografiche.
Queste sono impresse su di una pellicola leggerissima, attaccata ad un nastro lungo 15 e più metri e largo tre centimetri. Il nastro è di collodio ed è trasparentissimo. Le piccole fotografie istantanee sul nastro sono collocate l’una dopo l’altra in senso perpendicolare, alla distanza fra di loro di tre millimetri. Esse sono fatte con lo stesso apparecchio e costituiscono così una serie di fotografie rapidissime e successive di una scena od azione.
I nostri movimenti, per quanto siano rapidi e continuativi, sono colti, si può dire, in ogni loro grado dalla velocissima macchina, la quale per un’azione della durata di un minuto fa progressivamente 900 immagini fotografiche.
È chiaro, a dunque, che il nastro di tutte queste fotografie successive, passando per perpendicolarmente fra il fascio di luce elettrica e l’obiettivo, riproduca sullo schermo, per trasparenza, le fotografie medesime. Ma è necessario che ogni fotografia si soffermi un istante (che è un cinquantesimo di secondo), ed in ciò sta il segreto o le legge ottica dell’affetto, ed in ciò sta pure il pregio del Cinematografo Lumière, il cui meccanismo, mosso da una semplice manovella, è perfetto.
Ed è per questa proiezione di immagini che passano sullo schermo bianco con la stessa successione è rapidità con cui furono fissate sulla pellicola fotografica, che possiamo rivedere come fosse vivo un momento già divorato dal tempo. La fotografia lo ha analizzato è perpetuato, l’occhio nostro mercé il Cinematografo, ce lo ripete sinterizzato.
Dopo ciò, non è forse prevedibile che le biblioteche storiche dell’avvenire, più che di volumi, si comporranno di fasci e gomitoli, e rocchetti di nastri cinematografici e di fonogrammi?
Questo può sembrare un paradosso, ma coloro che non conobbero né la fotografia, né l’elettricità, né la moltiplicazione del moto, non avrebbero forse trovata paradossale l’idea di questo stesso Cinematografo?
G. Ferrari
(La Stampa)