Lettera dalla Spagna

Barcelona, Plaza Cataluna 1915
Barcelona, Plaza Cataluña 1915 c.

Barcelona, 21 aprile 1914

Con l’avvento della primavera sono ricominciate le corridas attese con ansia febbrile da tutti gli spagnoli, cui la mancanza della corrida cagiona una specie di vuoto nelle loro abitudini, nelle loro occupazioni, nelle loro affettività. Gli antichi romani chiedevano ai Cesari Panem et circenses: gli spagnoli, oggi, chiederebbero loro: pan y torosy cinematógrafos! sicuro; poiché ormai la corrida e il cinematografo sono i divertimenti preferiti da tutti a discapito del teatro. Qui si parla della Borelli, della Bertini, della Henny Porten, con lo stesso entusiasmo col quale di parla di Gallo, di Gallito e di Belmonte, i toreros in voga. E quando dico: entusiasmo, non esagero. In Italia si può avere della simpatia, dell’ammirazione per un grande artista, qui, per i toreros, si ha addirittura della idolatria. Dopo una giostra di discute di Gallito e di Belmonte con maggiore serietà e con maggior calore che da noi non si discutono Zacconi o Novelli dopo la magistrale interpretazione di un dramma nuovo, e lo stesso pubblico che fa la coda all’ingresso della plaza de toros si piglia alla porta dei cinematografi per ammirare Lyda Borelli che tuttora trionfa nell’Amor mio non muore della Gloria e che ha già annunciato che si presenterà fra breve nella… (che non ci senta la censura)… nella Donna nuda della Cines. E il teatro?… Il teatro, come dappertutto, soffre della concorrenza spietata del cinematografo e, come dappertutto, dopo aver fatto lo sdegnoso e lo sprezzante verso il suo fratello minore, tanto svelto e precoce, ha dovuto riconoscere i meriti e, deposto l’altezzoso disdegno, si è umiliato a stendergli la mano. A questo proposito ricordo aver letto, non è molto, in un giornale spagnolo un gustosissimo dialogo fra il reporter e un comico a spasso. Questi, dopo aver detto peste e vituperio del cinematografo, dopo averlo dannato alla gogna, dopo avergli scagliato contro tutti i suoi fulmini, termina il suo sfogo e si accomiata dal reporter.

— Viene?… mi accompagna?…
— Dove?… — chiede il reporter.
— Ma!… al cinematografo… Oggi hanno cambiato programma…

Quanta psicologia in questa risposta!…

Volete sapere di più?… Ieri La Vanguardia in un telegramma da Madrid annunciava che Giacinto Benavente, l’illustre drammaturgo spagnolo, verrà tra breve in Barcelona per dirigervi una esecuzione cinematografica della sua Malquerida, il dramma di successo trionfale. E corre voce che Maria Guerrero, l’attrice incomparabile, che Diaz de Mendoza, l’attore di gran merito… ma basta, non voglio dire di più… Ve ne scriverò lungamente nella mia prossima corrispondenza.

La scorsa settimana Carlo Nardini, un romano di Roma, che da molti anni vive a Parigi e che ho visto con piacere tornare al commercio cinematografico, è venuto a Barcelona per incarico della Italica Ars a darvi una visione della Histoire d’un Pierrot. E la visione ha avuto luogo martedì, nell’elegante Salón Cataluña, innanzi a numerosi e scelti invitati i quali, per la prima volta, assistevano ad una proiezione accompagnata da una orchestra di 35 professori. E il successo è stato grande, meritato. Nella deliziosa musica di Mario Costa, Francesca Bertini ha valorosamente interpretato il bianco eroe, birichino e sentimentale, della pantomima di Bessier; anche ottima Louisette mi è parsa la signorina Leda Gys, cui l’arte cinematografica riserva copiosi allori.

Questa esecuzione cinematografica della Histoire d’un Pierrot mi desta un ricordo lontano che forse potrà giovare al futuro storico dell’arte nostra.

Sono passati, forse, dieci anni: il mio carissimo amico il cav. Alberini cui nessuno può togliere il vanto di essere stato il papà (ahi, quanto prolifico!) dell’industria cinematografica italiana, volle riprodurre in film l’Histoire d’un Pierrot. In Italia non v’era ancora nessun teatro di posa: solo in Roma, fuori Porta S. Giovanni, si stava costruendo per conto dell’Alberini quel primo teatro che fu poi… culla della Cines.

Dove eseguire la cinematografia?… Incontro all’antica basilica di S. Maria Maggiore v’era una specie di Caffè-concerto all’aperto; un largo spiazzo, poche fratte di mortella all’ingiro, qualche alberello rachitico… e, nel fondo, il palcoscenico dalla pittura scolorata e un vecchio pianoforte avvezzo alle intemperie… Fu là che il cav. Alberini portò la sua macchina da presa e che venne eseguito il primo negativo della Histoire d’un Pierrot. Vi era anche Mario Caserini; Pierrot era Bianca Visconti, Pochinet Mario Caserini.

Ma il negativo non venne mai pubblicato… Si era pensato che sarebbe stato facile regolarsi con i diritti d’autore, ma invece… (ricorda, comm. Re Riccardi?) la richiesta fu troppo gravosa per allora che il cinematografo era ai suoi primi passi (che buoni garretti ha ora, eh?…) e il negativo venne sepolto nel fondo di un armadio.

Oggi, forse dopo dieci anni, l’Histoire d’un Pierrot compare sullo schermo, e nelle sale dei cinematografi echeggia la patetica serenata dolcissima…

Che glorioso cammino dal giorno lontano in cui nel piccolo teatro Metastasio di Roma, Mario Costa presentò al pubblico romano la sua squisita pantomima interpretata da Jole Cantini! Allora il cinematografo non esisteva e nessuno avrebbe pensato che dopo più di venti anni Louisette e Pierrot avrebbero ripetuto la loro commovente istoria in certe sale tutte buie, su grandi quadri tutti bianchi.

Ieri mattina il Sig. Minguella, rappresentante della Casa Gloria offri ai suoi clienti nel gran salone del Cine Doré la prima visione di Nerone. L’aspettativa era grande e il successo fu superiore all’aspettativa. Ammirammo un succedersi di quadri interessanti, meravigliosi, che riaffermarono, una volta ancora, l’alto valore artistico di Mario Caserini, cui invio da quaggiù le mie affettuose congratulazioni.

Magnifica artista, come sempre, venne giudicata la Gasparini Caserini in Agrippina e un eccellente Nerone il Rossi Pianelli nella non facile interpretazione del protagonista.

Il Cavaliere di Grazia.
(La vita cinematografica)

La Diva ritorna

Francesca Bertini
Francesca Bertini

« Contessa Sara è rimasto nove mesi in cartellone in un cinema di Roma; ho visto una foto dove c’era la polizia a cavallo che arginava la folla all’ingresso. »
Sergio Leone*

Roma, gennaio 1920. Singolare ventura! Mentre Londra immensa acclama in un delirio di entusiasmo la grande meravigliosa interprete del capolavoro di Giorgio Ohnet; mentre i giornali e le riviste inglesi più autorevoli la proclamano concordemente la bellissima fra gli astri più belli del teatro muto di Europa tutta, notando che Francesca Bertini è l’unica italiana che oramai impone la sua personalità artistica anche fuori dei confini del suo Paese, a Roma eterna la Contessa Sara ottiene un successo non facilmente dimenticabile: un successo enorme!

Chi ha veduto e vede il continuo turbinio di gente accalcarsi e prendere d’assalto — è la parola — ininterrottamente l’elegante Corso Cinema Teatro, tanto che un plotone dell’Arma benemerita riesce a stento a regolarne l’ingresso non può non pensare che l’arte di Francesca Bertini scuote e trascina ed è la più intesa dalle folle.

La fresca e limpida fonte dell’arte di Francesca Bertini, dopo qualche recente inquinazione determinata da un palese errore di prospettiva, è tornata ieri sera a fluire con la gorgogliante e cristallina purità d’una fontana sorgiva inesplorata.

Già i corvi della critica più o meno accademica si accingevano a gracchiare il loro stereotipato ritornello; già i necrofori dell’arte cinematografica si accingevano a recitare, con aria compunta, il loro assurdo e ridicolo miserere. Ma i corvi e i necrofori, senza dubbio, avranno avuto ieri sera la saggia prudenza di ripiegare cautamente gli arnesi del loro poco allegro mestiere per risfoderarli in qualche diversa occasione.

Il successo riportato ieri sera da Francesca Bertini ne La Contessa Sara, proiettato per la prima volta al Corso Cinema è stato veramente quello che il più intellettuale pubblico di Roma si attendeva dalla grande artista: un successo pieno, clamoroso, definitivo; un successo di rivincita d’alta e profonda significazione. L’arte di Francesca Bertini, che nelle sue prime interpretazioni aveva saputo delinearsi nettamente con una personalità di atteggiamenti e di espressioni assolutamente inimitabili, è apparsa ne La Contessa Sara come la sintesi armoniosa e perfetta di tutti i più nobili requisiti di sincerità interpretativa, di equilibro animatore, di bellezza, di fascino, di eleganza. In questa interpretazione, insomma, l’arte di Francesca Bertini sembra avere raggiunto una luminosa maturità pur conservando tutta la sua istintiva freschezza, tutta la sua innata sincerità.

D’altra parte, il complesso lavoro di Ohnet, non poteva essere affrontato che da un’artista delle risorse di così complessa psicologia senza il fervore di fede e di studio, senza il fascino e la bellezza di una protagonista ideale. E tale è decisamente apparsa Francesca Bertini cui il pubblico ha consacrato gli onori di un successo trionfale.

Con Francesca Bertini è stato apprezzatissimo il comm. Ugo Piperno. La messa in scena del film, per sontuosità ed accuratezza è apparsa superiore ad ogni elogio. Splendida specialmente per la profusità di effetti tecnici sorprendenti, la fotografia.
(Giaurro, Il Giornale d’Italia)

Prime visioni: La contessa Sara

Non è uno dei migliori romanzi di Giorgio Ohnet, e la riduzione per lo schermo ne è difficile perché l’azione è troppo slegata e frammentaria.

Roberto Roberti, in questa ricostruzione, ha fatto opera onesta e decorosa, che rivela, sì, la ricerca a volte anche ansiosa, ma che in molti punti aggiunge all’opera piuttosto scialba e stanca del popolare romanzo francese.

L’inscenatore ha avuto la mano felice specialmente nella scelta degli esterni. L’altra sera, mentre seguivo attentamente la proiezione, sentii mormorare da uno spettatore, mentre si vedeva Napoli: “Sembra una cartolina illustrata!”.

Quello spettatore aveva torto. Egli non capiva una cosa che Roberti ha dimostrato d’aver capito: l’importanza principalissima che ha il paesaggio nelle films italiane. L’Italia è un paese panoramico, ricco di bellezze naturali e storiche che sono una delle maggiori risorse nostre. E a una ignobile film edita dalla Pathé pochi mesi fa in cui il buffone di Linder ci presenta un’Italia inverosimile e calunniosa per noi, egli ha risposto con degli stupendi sfondi napoletani e accurati quadri romani di cui, io italiano, lo ringrazio.

L’inscenatore ha voluto introdurre — sarà stato proprio lui a volere? — una novità americana: abolire il più possibile i passaggi, concludendo i quadri episodici con una chiusura a diaframma. Cosa che riesce grata le prime due o tre volte, ma che infastidisce in seguito perché è ripetuta troppo oppressivamente.

Il romanzo ha dovuto subire dei tagli e delle varianti per la necessità di ridurlo al metraggio conveniente.

Ci sono alcune scene molto efficaci, come per esempio quelle in cui la contessa Sara ha troppo caldo e il vecchio marito… si raffredda.

Il quadro del matrimonio è fatto con lodevole brevità, e i primi piani, per quanto abbondanti, non sono eccessivi.

Francesca Bertini — se è vero che col tempo ci si rinnova e ci si migliora — dà l’idea di aver interpretato questo film molti anni or sono. Non c’è apparsa la grande attrice che in pellicole di minor rendimento drammatico ha fatto molto di più.

Piperno non poteva andar meglio, e anche Salvini, benché apparisse talvolta un po’ preoccupato, si è brillantemente distinto. Raoul Maillard, sebbene avesse una particina, s’è dimostrato un corretto e fine attore, di una comicità di buona lega, e di una spontaneità mai sforzata.

Questo artista farà molto cammino.

Grandissima parte del film è girata a luce artificiale. E non sarebbe inopportuno evitare, nel mettere insieme i pezzi, che a certi quadri a luce artificiale troppo viva, seguano quadri a luce naturale. È una stonatura perché sembra che un paesaggio di mare, in pieno giorno, sia meno illuminato d’un ambiente chiuso.

Il film, nel complesso è buono, ma non è un gran che, e principalmente non è il capolavoro — come soggetto, messa in scena e interpretazione — che dall’Unione Cinematografica Italiana si sarebbe aspettato specie quando si pensi che sono la marca favorita e la più popolare artista di cui dispone l’Unione che escono all’avanguardia di una produzione di cui è lecito supporre La Contessa Sara sia una delle cose migliori.

La Contessa Sara, fatta da una piccola casa, priva di mezzi e delle possibilità dell’Unione Cinematografica Italiana sarebbe una ottima cosa. Per l’U. C. I. segna un passo indietro.

La fotografia è buona: la stampa non sempre.

Il film ha avuto buon successo.
(Kines, gennaio 1920)

La Contessa Sara  è stata restaurata in occasione della retrospettiva dedicata a Francesca Bertini per l’edizione del 2003 del Cinema Ritrovato. Dobbiamo aspettare all’edizione del Cinema Ritrovato 2020 per (ri)vederla?

*intervista a Sergio Leone (“Tutti i film di Sergio Leone” di Oreste De Formari, ubulibri 1984).

Tre dive del cinema d’altri tempi

Leda Gys
Leda Gys

— Voi, laggiù in fondo, muovetevi, parlate, fingete di bere il tè, non mi state come quattro salami.

Uno di quei salami ero io; salame in frak, comparsa o cachet alla Celio Film di Roma. Chi mi aveva regalato quel suinico appellativo era il conte Negroni, che già in quell’epoca (1914) era uno dei più quotati metteurs-en-scène, ovvero registi, del cinema italiano ancora muto.

Gli altri miei compagni, uno era un cameriere di caffè disoccupato, gli altri due avevano indosso delle marsine certamente prese in affitto o comperate in Ghetto. Io fra loro sfolgoravo di eleganza con l’impeccabile camicia di Morziello ed un frak di Mortari. Il vigile sguardo di Negroni mi aveva notato come una stonatura in quel quartetto, tanto che finito di girare la scena, mi chiamò:

— Tu ! si tu, vieni un po’ qui. Chi sei ?

— Mah ! — feci io sorridendo — sono un cachet.

— E quando non fai il cachet che cosa sei ?

— Niente… almeno in questi giorni.

— Ma prima di questi giorni che facevi ?

— Ero il primo attor giovane della Compagnia Stabile del Teatro Argentina.

— Ah già ! adesso la riconosco (il tu era diventato lei) non faceva Giannetto nella Cena delle beffe, domenica scorsa ?

— Infatti…

— E mercoledi non era Armando nella Signora dalle camelie ?

— Proprio così.

— E adesso ?

— Adesso cachet. Vorrei fare del cinema ma cominciando dalla gavetta come ho fatto in arte drammatica.

— Bravo, è un’ottima idea. Adesso andiamo a mangiare, vuol sedersi alla nostra tavola ?

— Con molto piacere, grazie.

Nel piccolo ristorante dello Stabilimento, fui presentato a Francesca Bertini. Vicino a lei siedeva suo padre, poi il primo attore Benetti, un magnifico giovanotto con sua moglie, uno splendore di bionda (Olga Benetti n.d.c.), Alberto Collo ed un giovane alto, magro, brutto, tipo del nevrastenico classico, ma simpatico, con una fisionomia espressiva ma irrequieta. Occhi vivacissimi un poco chiari, che sembrava parlassero guardando. Era Emilio Ghione, già regista, allievo di Negroni, ma non ancora celebre nel personaggio di Za la Mort da lui creato in seguito.

Tanto Ghione che la Bertini mi impressionarono vivamente. Questa prim’attrice era già avviata verso la più brillante carriera; i suoi film si cominciavano a vendere in quasi tutta Europa a « scatola chiusa » e cioè i films con lei protagonista eran venduti prim’ancora di esser visionati.

Mangiando e conversando l’osservavo con attenzione. Indiscutibilmente bella, più bella di quanto non apparisse sullo schermo, fresca, vivace, pallida, occhi e capelli nerissimi. Un bell’ovale nel viso in cui traspariva un fascino immediato, strano e seducente. La sua conversazione era piacevole, spesso ricca di umorismo. La voce un po’ velata e con una pronuncia marcatamente meridionale. Nata a Napoli, Elena Vitiello nello stato civile, (nata a Firenze il 5 gennaio 1892 n.d.c.) aveva dei napoletani la facilità d’espressione, il brio dell’arguzia, la sensibilità più fine ed una calda passionalità.

Il successo fantastico che riportava sul pubblico, era a mio parere giustificatissimo anche perchè aveva intelligenza, intuito ed un vero temperamento da attrice drammatica tale da commovere ed entusiasmare le folle.

Per alcune settimane, su invito dello stesso Negroni, frequentavo la Celio Film; e lavorassi o no, mi intrattenevo la giornata intera in quei forni crematori che d’estate erano i capannoni di vetro, detti teatri di posa. Mi fu affidata qualche parte di generico, poi il regista mi procurò una scrittura come primo attore presso la Volsca Film di Velletri e vi restai tre mesi.

Tornato a Roma mio primo pensiero fu quello di farmi rivedere nella Casa che mi aveva dato il battesimo cinematografico. Mi recai infatti in Via SS. Giovanni e Paolo, ma la Celio aveva traslocato nell’interno del Giardino Zoologico dove aveva fatto costruire un magnifico stabilimento. Anche qui trovai delle novità: Negroni era partito per Torino (per Milano n.d.c.) ed era stato sostituito dal pittore Maurizio Rava, persona affabile, cortese che mi accolse con grande benevolenza e mi assunse qualche giorno dopo quale suo aiuto.
Per prima attrice, sempre Francesca Bertini i cui successi si eran propagati anche nelle due Americhe. Direttore generale artistico era il Prof. Alberto Blanc divenuto poi, come è ben noto, una celebrità internazionale nel campo dell’Anatomia comparata.

Poi gli avvenimenti precipitano: anche l’Italia prende parte alla prima guerra mondiale. Incertezza ed ansietà in tutti gli stabilimenti cinematografici e non cinematografici soltanto, quindi una calma relativa ed il lavoro cautamente, lentamente riprende.
Francesca Bertini, vera miniera d’oro nei mercati del film passa alla Tiber di proprietà dell’Avv. Mecheri (in realtà alla Caesar Film di Barattolo n.d.c.) con uno stipendio centuplicato, perchè i suoi lavori si vendono a prezzi favolosi ed essa riceve centinaia di lettere d’ammirazione al giorno da tutte le parti del mondo. Ne ho visto io con i miei occhi un magazzino pieno presso la Tiber: una montagna di diecine di quintali di carta ahimè destinata al macero.

Ma al posto della diva perduta un’altra ne sorge, una nuova stella vien fabbricata nella gloriosa fucina della Celio: Maria Jacobini. Bella ma non bellissima, fine, aristocratica, bruna, occhi magnifici ed espressivi, eleganza di gran classe. Si afferma e s’impone in breve tempo su tutti i mercati. Il suo regista è Rava ma per poco, che richiamato alle armi parte per il fronte come capitano degli alpini. Lo sostituisce un altro pittore: Folchi. Io intanto disimpegno il ruolo di attore, l’incarico di aiuto-regista, scrittore di soggetti e sceneggiatore. Un bel giorno poi fui chiamato alla Cines dal direttore generale Barone Fassini che mi dice:

— Ho avuto sue informazioni dall’amico Blanc. È ora che lei inizi la sua carriera di metteur-en-scène. Contento ?

— Ne sarei contentissimo — risposi molto emozionato — se avessi la sicurezza di cavarmela.

— Se la caverà; abbia fiducia in sé stesso e lavori tranquillo. Le manderò una nuova attrice, giovanissima; ha fatto qui alla Cines qualche parte di nessun conto, ma ho l’impressione che potrà far molto specie nel genere comico-sentimentale (che fiuto quel Fassini !). Le scriva un soggetto allegro e brillante e se di questa giovinetta ne potrà fare un’attrice glie ne sarò grato.

La mattina dopo la piccola artista accompagnata da sua madre, venne a presentarsi nel mio ufficio. La osservai con vivo interesse e ne rimasi incantato. Un personale che faceva immaginare, come direbbe Dekobra, una superba anatomia, un viso dall’ovale perfetto illuminato da occhi grandi, neri e brillanti. Una ricca capigliatura crespa e corvina incorniciava il suo volto pallido degno di servir di modello ad un Carlo Dolci.

La sua espressione era da timida monachella, ma la vivacità dei suoi sguardi la tradivano palesemente. Cosa c’era sotto quella finta apparenza da educandina ?

Lo compresi con facilità qualche giorno dopo. Mi disse che per il cinema si sarebbe chiamata Leda Gys, anagramma del suo nome, Giselda.

Giselda era un tal demonietto scatenato che la mamma non poteva abbandonarla un attimo per timore che scapicollasse in qualche brutto modo. Buona certo, dolcissima pure, ma che piccolo uragano, che deliziosa tempesta !

Fu lei a darmi l’idea e il titolo del film e quasi tutte le trovate comiche inserite nella sceneggiatura erano da lei ideate. Il film che sortì con il titolo Leda innamorata ebbe un successo così strepitoso, che gli esercenti dei cinema, i noleggiatori e gli acquirenti per l’estero corsero ad accaparrarsi la produzione successiva.

Ma poi come tutti, come sempre, anch’essa abbandonò il suo nido e fu scritturata a Napoli da un grande industriale del cinema che dopo averle fatto girare parecchi films, anche drammatici, un bel giorno le proibì in modo assoluto di continuare. Era diventata sua moglie.

Ed ora qualche considerazione. Le prime attrici di quell’epoca che sembra tanto lontana e che invece si può dire sia di ieri, eran modeste, vestite come buone borghesi, si recavano in stabilimento in tram, raramente in taxi. Tanto nel teatro di posa quanto nelle fotografie reclamistiche non mostravano che… quanto poteva esibire la più onesta e riservata delle signore. Il loro tenore di vita era assai semplice e guadagnavano (salvo eccezioni rarissime come la Bertini) poco più e talvolta ancora meno delle attrici di prosa. Eppure eran brave, belle, intelligenti, ricercatissime in tutti i mercati cinematografici del mondo.

Quanto poi asseriscono alcuni inesperti e giovanissimi cineasti che i film italiani giravano il mondo perché non c’era altro, è assolutamente falso. Esistevano già in quegli anni delle Case straniere di grandissima e meritata fama i cui lavori erano proiettati in Italia con grande successo. Tra le più famose, ricordo la Gaumont e la Pathé francesi, la Nordisk danese, la Vitagraph americana, ecc. ecc. Ed allora ?

Allora vuol dire che la maggioranza dei cineasti di quel tempo, come direbbe un romano, ce sapevano fa !

Ivo Illuminati

Ivo Illuminati (Ripatransone, Ascoli Piceno 1882, Roma 1963) ha scritto numerosi articoli dedicati allo spettacolo su quotidiani e periodici. Laureato in legge, ma appassionato di recitazione, inizia a lavorare come attore drammatico nel 1904 e forma parte di alcune delle Compagnie Drammatiche più importanti dell’epoca: Gramatica-Ruggeri, Calabresi-Severi, Galli-Guasti-Ciarli, Stabile Romana, e molte altre. Abbandona il teatro per il cinema intorno al 1914 e fu per qualche tempo collaboratore di Nino Oxilia, ma divenne presto sceneggiatore e direttore artistico. Dal 1914 al 1922, diresse più di quaranta film, quasi tutti su propria sceneggiatura. Capo del servizio tecnico dell’Istituto Luce, dal 1928 al 1933, collabora alla sceneggiatura di due film interpretati da Angelo Musco: L’aria del continente e Fiat voluntas Dei. Nel 1938, lavora come assistente alla regia nel film Giuseppe Verdi, e nel 1942 dirige, in collaborazione con Hans Hinrich, il suo unico film sonoro: Il vetturale di San Gottardo. Dal 1947 al 1950, insegna recitazione, dizione e tecnica cinematografica all’Accademia dei Filodrammatici di Milano.