Un dramma ignorato – Tiber Film 1917

un dramma ignorato
Emilio Ghione, Diana D’Amore, Ida Carloni Talli in una scena del film

Qualche anno fa, Emilio Ghione è stato oggetto di un vero e proprio “revival” fra gli addetti ai lavori (una mostra e due libri in meno di due anni), ma nessuno ha pensato che magari, in contemporanea, era ora di mettere a disposizione i suoi film per il grande pubblico. Siamo alle solite…

Per tutti i fan dell’invisibile Emilio Ghione, vi propongo Un dramma ignorato, produzione Tiber Film 1917, conservato nell’archivio di mummie congelate della Cineteca Nazionale di Roma.

In questa, come in molte altre occasioni, Don Emilio è l’autore del soggetto, della riduzione cinematografica, il regista e l’interprete. Insieme a lui: Diana D’Amore , Ignazio Lupi, Ida Carloni Talli, operatore Cesare Cavagna.

Ecco la storia:

Diana e l’ingegnere Emilio Alonso, direttore delle miniere Pasos Perdidos, sono fidanzati da qualche tempo. Emilio dedica il tempo libero allo studio di una formula per migliorare la tecnica dei moderni esplosivi e finalmente, dopo molte notti insonne riesce a trovarla. Informata la Compagnia, lo invitano a raggiungere la centrale di Boston. Emilio accetta l’invito e prima di partire raggiunge Diana e sua madre: al suo ritorno, grazie ai profitti della sua formula, potrà sposare Diana.

Arrivato a Boston, Emilio è ricevuto con molto entusiasmo dai consiglieri della Compagnia che lo pregano di restare qualche giorno nella capitale per assistere ai festeggiamenti in suo onore.

Il banchiere Enriquez, concorrente della Compagnia per la quale lavora Emilio, vede nel successo della formula l’inizio della propria rovina.

Una notte Emilio trova una giovane svenuta per terra e credendola vittima di un incidente, si offre ad accompagnarla a casa senza sospettare che si tratta della ballerina Tonkita, una complice del banchiere Enriquez. Dopo questo primo incontro, Emilio ritorna diverse volte a casa di Tonkita. In una di queste visite, un complice del banchiere riesce a sottrarre e fotografare la formula per gli esplosivi che Emilio porta in tasca.

Qualche giorno dopo, il presidente della Compagnia di Emilio legge sui giornali che il banchiere Enriquez è in possesso della formula. Emilio, che nel frattempo è ritornato nelle miniere Pasos Perdidos, riceve la visita dello sceriffo: è stato denunciato dalla sua stessa Compagnia per vendere la formula al banchiere Enriquez….

Secondo Vittorio Martinelli (Il Cinema Muto Italiano 1917), Diana riesce a scagionare Emilio “sacrificando la sua purezza”, poi, ritenendosi non più degna del fidanzato, si suicida. Ma questo finale alla censura non piacque:

Eliminare l’episodio immorale e disgustoso svolto nella parte 4ª in cui la protagonista, posta nel bivio, o di lasciare condannare il fidanzato innocente, o di ottenere le prove per salvarlo col solo mezzo di cedere alle turpi richieste di chi tali prove possiede, sceglie quest’ultima via e quindi si toglie la vita in modo impressionante. (indice 1916-1921)

Nella versione spagnola il finale è questo:

Senz’altro scopo che salvare il suo fidanzato, la giovane visita Enriquez e questo accede a facilitarle le prove d’innocenza in cambio del suo onore, ma Diana uccide Enriquez e consegna le prove all’avvocato: Enriquez aveva pagato duemila dollari alla ballerina Tonkita per rubare la formula di Emilio.

Qualche giorno dopo, Emilio esce dal carcere libero da ogni sospetto. Diana, in sella al suo cavallo favorito, lo aspetta fuori.

E la copia della Cineteca Nazionale come finisce?

Il poverello di Assisi – Cines 1911

il poverello di assisi
Una scena del film

«Nel 1911, in vista dell’Esposizione Internazionale di Torino, mi venne affidata la realizzazione del San Francesco. Pretesi subito di girare ad Assisi, fra lo scandalo dei finanziatori abituati a “farsi tutto in casa”. Ottenuto il “via”, partii per la città del Poverello che, nel caso specifico era impersonato da Emilio Ghione.

Ghione si era accinto all’impresa con entusiasmo immergendosi per vari giorni in astruse letture e rapandosi la testa a zero per poter aderire fisicamente al personaggio nella maggior misura possibile.

Dopo qualche giorno di permanenza ad Assisi, però, tutto il suo fervore religioso svanì come per incanto, sopraffatto dal demone del gioco. Gli abitanti della piccola cittadina ebbero così il curioso privilegio di vedere molto spesso il loro prediletto San Francesco accapigliarsi in furibonde partite di poker con gli altri interpreti del film.»
E. Guazzoni, (Film n. 26, 28 giugno 1941)

«Il poverello d’Assisi diretto da Enrico Guazzoni, interpretata da me, che ebbi la coscienza e lo scrupolo d’arte, di rimanere quattro mesi, tonsurato da frate, su soggetto creato dalla Nobildonna Contessa Salimei, ebbe l’onore di ottenere la seconda medaglia d’oro, all’Esposizione Cinematografica di Torino, nell’anno 1912 (sic 1911).

Dopo il Santo Francesco, fui definitivamente assunto, quale primo attore alla Cines a lire trecento mensili.»
Emilio Ghione (Memorie e Confessioni di Emilio Ghione (Za la Mort), 1928)

«E’ una delle meglio riuscite produzioni della egregia e quasi sempre impeccabile ditta romana. Un film così bene interpretato e riprodotto, che le ha fatto decretare un dei primi premi all’Esposizione di Torino.

L’argomento è di quelli che meglio si adattano a spettacoli cinematografici. Il bel trecento ha in sé tali elementi di poesia semplice ed umana, è cosi pieno di paesaggi e di sole che basti evocare anche soltanto con uno sforzo di fantasia quel tempo e le anime e le cose che esso produsse, perché il cuore attraversi tutta la gamma delle più dolci e pure sensazioni. E tutta l’anima del trecento è avvolta e palpita nel saio di Francesco d’Assisi, del più grande discepolo di Cristo che, come Paolo di Tarso, da Cristo non fu eletto: del dolce cantore di Frate Sole, del casto amante di Chiara Sciffi, del più puro giglio fiorito nei campi della carità umana. Tutta la vita e tutta la missione del poverello di Assisi son saturi di poesia, di colore, di semplicità. E son queste le qualità prime cui dovrebbe costantemente essere informata l’opera del produttore di pellicole. Dall’ira di Pietro Bernandone all’amore di Chiara, all’epilogo di una esistenza consacrata tutta alla dolce utopia cristiana, è una catena di anime belle e di ambienti meravigliosi. Non fosse per altro, la Cines avrebbe dovuto ottenere il gran premio soltanto per il gusto d’arte mostrato nella scelta dell’argomento. Ma qui, in questo Poverello di Assisi, tutto è magnifico, tutto è d’una freschezza e di una umanità davvero insolite e consolanti: la preparazione, la interpretazione, la riproduzione fotografica: tutto, tutto: persone e cose: paesaggi ed anime.

La Cines meriterebbe davvero di essere imitata almeno nella scelta delle donnnées da quasi tutte le altre case di produzione per cinematografo.»
Aniello Costagliola (Cinema, 10 gennaio 1912)

il poverello di assisi
Una scena del film

«… nel Francesco di Guazzoni l’autenticità va cercata negli accenti ‘riduttivi’ piuttosto che in quelli ‘espansivi’ e sinfonici. La vena dell’autore di Quo Vadis? Si annuncia intimistica e lirica. Ma, mentre la regia procede con pudore e nitore sulla strada del tableau, Ghione – costretto a sostenere lunghe pantomime edificanti per tutta la durata d’inquadrature statiche – fa appello a certa sua sensibilità vibratile: cfr. le scene della rinuncia ai beni materiali (sua nudità da personaggio di El Greco, macilenta e casta, ritrosa e umana), l’ambasceria in Oriente, l’udienza papale, l’ordinazione di Chiara, le tre stazioni della malattia, sempre più magro, più dolce, più intenso. Quando con sapienza iconografica e luministica, quando con cauta invenzione, Guazzoni situa intorno a Francesco gruppi di comparse ben disposte, giocando sul contrasto tra i costumi e sfruttando molto bene i crani rapati del Poverello e dei suoi confratelli. (Qualche brivido rosselliniano; più freschezza che non nella Cavani, di cui ‘sfora’ il puntiglio giovanneo). In Ghione s’apprezza, sopratutto, il gesto largo ma secco, e quella religiosità appena venata di patetismo che, al punto terminale del Fioretto, si chiude in sé come per meditarsi o scarta nel parlato. (Tipica la sequenza che mostra Francesco impegnato a convincere un ragazzo di liberare tre colombe bianche: ieratica in principio, troppo effusiva poi, ma conclusa – al volar delle colombe – dal sorriso pacato di Francesco, la cui bontà è razionale).»
Francesco Savio (Visione privata, Bulzoni 1972)

Spero che questi testi “pro-muovano” l’interesse verso questo film che dorme negli scaffali delle cineteche da molti, molti anni. Una copia dell’epoca (in nitrato) è al National Film and Television Archive di Londra. Nel 2008, una copia, con didascalie italiane, della Cineteca Nazionale fu proiettato nel festival Il Cinema Ritrovato 2008.

Per finire, vorrei vederlo per chiarire un piccolo dubbio…Ma chi è l’attrice che interpreta Santa Chiara? Italia Almirante Manzini? Fernanda Negri Pouget? Io il film non ho potuto vederlo, e le fotografie pubblicate nella rivista Immagine (Fascicolo 4, giugno settembre 1982) sono così piccole e “buie” che non si capisce niente. Nel citato fascicolo c’è una trascrizione delle didascalie a cura di Alfredo Baldi, secondo lui (e secondo Vittorio Martinelli nel famosi volumi di Bianco e Nero), l’interprete femminile è Italia Almirante Manzini. Secondo altre fonti più recenti, per esempio il Catalogo del Cinema Ritrovato, è Fernanda Negri Pouget, persino Martinelli aveva cambiato idea nel suo volume dedicato a Emilio Ghione. Magari alla fine scopriamo che si tratta di Gianna Terribili Gonzales…

Za la Mort nostalgia 1947

E’ da un po’ che non pubblico niente su Emilio Ghione, bisogna riparare. Questo che segue è un articolo di Italo Dragosei pubblicato nella rivista Hollywood (2 agosto 1947) in occasione dell’uscita del film Fumeria d’oppio, diretto da Raffaello Matarazzo e interpretato da Emilio Ghione jr. Il titolo dell’articolo è: Elogio alla malavita – Ritornano i vecchi eroi e Za-la-Mort torna alle sue avventure.

Buona lettura!

manifesto del film Fumeria d'oppio, disegno di Ciriello
Manifesto di Fumeria d’oppio (Ritorna Za la Mort) 1947, disegno di Ciriello

«Chiamateci conservatori, dite pure che siamo indegni del secolo progressivo e agitatorio che stiamo attraversando, chiamateci pure reazionari, ma lasciateci sospirare dì malinconia sul ricordo dei vecchi eroi del cinema muto, lasciate che inneggiamo ai nostri vecchi amici, lasciateci questa libertà, lasciateci questa gioia: gioia e libertà che nessun tiranno potrà domani togliere, poiché sono dentro di noi, nel nostro cuore e al cuore non si può chiedere conto del suo passato politico e non lo si può nemmeno invitare ad esibire la carta d’identità.
I nostri padri facevano la guerra, oppure incoraggiavano gli altri a farla, e ci lasciavano affidati alle cure delle donne: forse per questo siamo gli ultimi romantici del secolo, forse per questo non siamo capaci di imbracciare un mitra o di presentarci candidati alle elezioni politiche; certamente per questo i giovanotti di tre lustri più giovani di noi ci chiamano arretrati, ci scherniscono, affermano che non faremo mai carriera nella vita e, per impaurirci, ci minacciano con la pistola scarica mentre stiamo insieme a conversare al caffè.

Noi apparteniamo a una generazione troppo presto invecchiata, siamo la generazione raffinata, educata, paurosa e timida che non è certo degna di questo secolo progressivo, come non è degna del secolo imperiale testé trascorso. Progressisti e imperialisti ci odiano o, meglio, ci disprezzano, perché non accontentammo né gli uni né gli altri. Volevano farci adorare un dittatore e noi preferimmo le stelle del cinema, preferimmo al dittatore Buster Keaton e Ridolini, Charlot e Harold Lloyd ch’erano — lasciatecelo dire — assai più divertenti. E oggi? Agli apocalittici Robespierre di questi ultimi anni, ai capopopolo che sanno adoperare tanto bene il mitra come la penna, che sanno fare a pugni e, contemporaneamente arringare le masse ed agitarle a loro comodo, ebbene, perdonateci, ai loro mitra preferiamo le pistole fiammeggianti di Tom Mix e il coltello a serramanico di Za la Mort, armi romantiche e più leali.

Lo ricordate Za la Mort? Quello sparuto gigolò, tutto ossa, rughe, occhiataccie e sigarette indigene che ci faceva fremere ad un cenno, che faceva tremare i suoi amici appena posava la mano sulla spalliera di una sedia, fu con Tom Mix, con Zorro, e sì, anche con Charlot. un nostro genitore putativo, un maestro della nostra infanzia, il pedagogo delle nostre distrazioni, la Maria Montessori dei nostri giuochi.
Za la Mort ci fece commettere le azioni più bizzarre della nostra vita, fu lui che ci convinse ad acquistare un lungo coltello alla cui sola vista avrebbe terrorizzato i nostri familiari, un coltello col quale avremmo voluto spaccare in due il mondo e del quale ci servimmo infine per temperare le matite a scuola.

Abbiamo adorato quegli idoli che avevano le tasche piene di pistole e di coltelli; spesso, nel buio delle sale di proiezione, davanti a un’icona stravagante, giuravamo davanti allo schermo che da grandi avremmo preso a revolverate migliaia di indiani e avremmo accoltellato tante di quelle carogne da far gridare di invidia Tom Mix e Za la Mort. E invece, adesso che siamo grandi, ora che abbiamo superato i trent’anni, eccoci qui con la nostra vigliaccheria, logori impiegati di banca che torniamo a casa alle dieci di sera, che il ventisette consegniamo alla moglie tutto lo stipendio, non una lira di meno, e se sentiamo un piccolo rumore nella notte ci raccomandiamo l’anima a Dio, nel timore di essere rapinati di due magliette piene di buchi e di un vecchio orologio d’argento che il Monte di Pietà non accetta più.

E i nostri eroi? Dove sono finiti i nostri eroi? Non potrebbero venirci accanto, darci una mano, incoraggiarci, dirci che gli spari che udiamo nella notte sono fuochi di gioia, che il mitra è un giocattolo per bambini spiritosi, che le rapine sono scherzi di carnevale? Non potrebbero venire Tom Mix e Za la Mort, Zorro e Bambù a rincorarci, a darci la gioia della vita, quella gioia ch’eravamo sicuri di possedere ai tempi meravigliosi della nostra infanzia e che oggi non conosciamo più, quella gioia che oggi è scomparsa, fugata da un colpo dì mitra?

Dove sono i nostri eroi? Perché ci hanno lasciati, perché ci fanno morire soli di paura in questo secolo progressista e democratico quanto volete, ma pur cosi pieno di paura? I nostri eroi sono finiti, sono morti, sono andati sulla collina come i cittadini di Spoon River, e sono rimasti muti, non dicono nulla, non una parola di conforto per questo disperato esercito di piccoli impiegati di banca e di ministero che li hanno adorati e che ora si sentono tanto soli, privi dei conforto della loro presenza. Morto Tom Mix, morto Zorro che s’è portato nella tomba l’unica e l’ultima bella risata di questo secolo: morto Za la Mort con la sua faccia truce eppure tanto cara, con le sue occhiataccie di fuoco e il suo coltello a serramanico.

Emilio Ghione jr. e Mariella Lotti
Emilio Ghione jr. e Mariella Lotti, Fumeria d’oppio 1947

Tutti, tutti ci hanno abbandonati in questa terribile valle di lacrime, in questa jungla spaventosa e cattiva che si chiama mondo. Solo Za la Mort è stato più sensibile verso di noi e a ha mandato suo figlio, Emilio Ghione jr, che come lui guappo romantico, gigolò incantatore e passionale, agile nel ballare e ancora più destro nel tirar di scherma. Il figlio di Za la Mort ha sentito irresistibile il richiamo dell’arte paterna, s’è avvicinato al cinema e accinto alla sua prima interpretazione, La fumeria d’oppio un film messo su con la ricetta dei Topi grigi e del Castello di bronzo, ambientato in quei classici locali fumosi che ancora ricordano i bistrò e i luoghi equivoci dell’altro dopoguerra, dove gli uomini sono svelti di mano e le donne hanno tutte sofferto e della sofferenza portano come marchio le occhiaie incavate e annerite con sughero bruciato. Quei luoghi che nessuno di noi ha mai veduto nella vita, ma alla cui esistenza crede, nel buio dei cinematografi, perché se non esistessero simili locali fumosi e pieni di misteri trabocchetti, ombre furtive, gli eroi dei film non avrebbero più ragione d’esistere; e invece noi teniamo a loro che danno un brivido d’avventura alla nostra vita monotonamente avviata sui binari della noia.

Con questo suo primo film Emilio Ghione jr. porterà alle nuove generazioni il saluto dei vecchi eroi, dei guappi innamorati, dei cavalieri erranti di trent’anni fa. Non sappiamo come lo accoglieranno i ragazzi d’oggi, quelli che tra Robin Hood e il bandito Giuliano non hanno ancora deciso chi preferire; ma noi che non siamo più ragazzi e che da tempo abbiamo superato i venti anni, lo aspettiamo con trepidazione, con quella trepidazione che ci accompagnò nei primi giorni di scuola e al primo appuntamento di amore; troveremo nei giovane Ghione un compagno, un amico affettuoso, anche se un po’ guascone, e insieme a lui percorreremo la strada oscura e paurosa che ancora ci separa dalla fine. Emilio Ghione ci prenderà sottobraccio e ci spingerà verso il buio, fischiettando un’aria giù di moda ma assai sentimentale: al suo braccio ci sentiremo più forti e percorreremo la lunga strada felici, sapendo che all’occorrenza c’è un vecchio amico con noi, pronto a sfoderare il suo coltello a serramanico per fugare i fantasmi di questo secolo assetato di sangue nel quale non riusciamo a trovar pace.»
Italo Dragosei