Ricordo di Luca Comerio pioniere della cinematografia

Milano, luglio 1940

Quando, giorni sono, i giornali hanno annunciato la sua morte, c’è stato, forse, qualcuno che si è domandato stupito: «Ma come, Luca Comerio non era già morto da un pezzo?». Viceversa è morto che non aveva ancora compiuto i sessantadue anni. Ma da vent’anni, ormai, era sparito dal palcoscenico della vita cinematografica italiana; e il suo nome, che era sonato per i primi vent’anni del secolo come un sinonimo di fantasiosa genialità costruttrice, di ardimentoso spirito di novità, di vittoriose audacissime imprese, era tramontato fra le brume di un passato che il presente rendeva sempre più lontano e relegava in un archivio sul quale cominciava a stendersi fitta la polvere. A quarantacinque anni, quando normalmente i costruttori raggiungono o stanno per toccare la meta più alta del loro destino e colgono i frutti del lavoro tenacemente perseguito in giovinezza, s’era ritirato in solitudine silenziosa che noi immaginavamo popolata di lucenti ricordi e velata talvolta da profonde nostalgie; pago, comunque, e con piena legittimità, di quello che riteneva ed era il suo autentico capolavoro: i suoi documentari cinematografici della grande guerra. Tutto il resto, i moltissimi film usciti dai suoi teatri di posa, le sue imprese, le sue iniziative, i suoi sogni, pallide figure indistinte, in confronto a queste sue pellicole impresse tra i nevai dell’Adamello, di fianco ai gloriosi alpini, o nelle trincee del Carso sanguinoso, tra i fanti stupendi.

Fotografo del Re

Luca Comerio era nato a Milano, nel 1878. I suoi genitori conducevano un modesto caffè a porta Volta, e il piccolo Luca, dopo quella poca scuola che era in uso a quel tempo, avviato ad ereditare e continuare l’esercizio paterno, si prodigava a portar quintini e aranciate agli avventori. Ma tra gli avventori c’era, per fortuna sua, il signor Belisario Croci, un apprezzato fotografo milanese, che mise gli occhi attento sul ragazzino e un giorno finì per chiedere al padre: «Vogliamo farne un bravo fotografo del nostro Luca?». Il padre non disse né sì né no: pur che non ci fosse da spender soldi. Soldi non se ne spesero, perché il signor Belisario insegnò per niente al giovinetto l’arte della fotografia; e pochi mesi dopo Luca ne sapeva quanto il maestro. Poco, probabilmente, se non si fosse trattato di Luca Comerio. A sedici anni riuscì a possedere la sua prima macchina fotografica: una scatoletta nera, comperata per poche lire, d’occasione. Ma, nelle mani di quel ragazzo ansioso d’avvenire, diventò addirittura famosa. Saputo, infatti, che Re Umberto era a Como, vi corse, col suo trabiccoletto; riuscì a puntare, non visto, l’obiettivo, sul Sovrano, e lo fotografò mentre conversa col vescovo di Como. Poi, a casa, isolò la figura del Re, ne trasse un ingrandimento gigantesco, di due metri e mezzo di lato, e, con un coraggio che lo lasciò quasi senza fiato per alcuni giorni, lo mandò a Sua Maestà. Arriva una lettera della Real Casa dove si dice del gradimento e del compiacimento del Re e si ordina al piccolo fotografo milanese rifare e spedire subito altre cinque copie dell’ingrandimento.

La fortuna è fatta. Il destino consacrato. Dieci anni dopo, in occasione di una crociera mediterranea, a bordo del panfilo reale Trinacria, Vittorio Emanuele III nominerà Luca Comerio «fotografo del Re»; e Luca Comerio avrà l’onore di sentirsi chiedere consigli sull’arte fotografica dal Sovrano e dalla Sovrana. Nei suoi stabilimenti milanesi, per lunghi anni, giungeranno, poi, ogni tanto, grossi plichi della Casa Reale: contengono le negative delle fotografie prese dal Re e dalla Regina a Roma, a San Rossore, a Racconigi, che gli Augusti fotografi mandano al Comerio perché le sviluppi e le stampi.

Il teatro di posa a Turro

A riguardare, con la fantasia, a quei tempi lontani, Luca Comerio ci appare come il primo «fotocronista» milanese, e, forse, italiano. Nel Novantotto, per esempio, durante le sanguinose giornate della insurrezione, egli è in giro, dall’alba al tramonto, con la sua macchina, di strada in strada, di barricata in barricata. Non è certo uno spirito rivoluzionario il giovane Luca; è un fotografo, e null’altro; e la sommossa gli offre spunti addirittura eccezionali. Poco gli importa, poi, se gli insorti, diffidenti e sospettosi di quel giovanotto che punta addosso ai loro ceffi l’obbiettivo, ogni tanto, gli rispondono puntandogli contro i fucili.

Ma il cinematografo ormai, prepotente, alle porte, e la macchina fotografica fu dal Comerio sostituita con la macchina da presa. Pioniere anche qui, come lo era stato per la fotocronaca. Ma pioniere in grande stile, che la cinematografia seppe subito vedere come un’industria, oltre che come un’arte. Lo anima lo stesso entusiasmo che lo elevò tra i fotografi del suo tempo fino al primo posto; lo spronano lo stesso ardore di conquista, la stessa ansia di grandezza e di novità. Sono i tempi nei quali, nelle città minori, non sono ancora vere e proprie sale cinematografiche, e i baracconi Kullmann portano in giro per le fiere maggiori le prime pellicole. Comerio fabbrica una grande casa in via Serbelloni, e vi crea due teatri di posa: il maggiore, e il più perfetto che esista in Europa. Ha fondato — siamo nel 1906 — la Milano Film, di cui è consigliere delegato, direttore generale e primo operatore. È lui che vi gira la Divina Commedia; lui che stringe contratti con i maggiori attori e le più belle attrici attrici dell’epoca; lui che, per avere l’esclusiva di alcune pellicole di Ferravilla, paga il grande comico milanese trentamila lire: una somma favolosa per quei tempi. Presto, lo «stabilimento» di via Serbelloni è inferiore al bisogno. Ne costruisce un altro, più grande, a Precotto; poi, traducendo in pronta realtà un sogno grandioso, compera una vastissima area a Turro, comprendente perfino il cimitero, e innalza il più grande teatro di posa del mondo, che misura una superficie di 22 mila metri quadrati e per coprire il quale compera… la tettoia della stazione Termini di Roma. È il momento del maggior splendore del Comerio, che ha avuto la fortuna di trovare nella moglie, signora Ines Negri, una collaboratrice preziosa, dalla chiara capacità organizzativa e dalla saggia e avveduta prudenza. Le più belle imprese cinematografiche di Luca Comerio portano infatti il sigillo di questa collaborazione.

Scoppia la guerra libica; e in lui subito ritorna il «fotocronista» di un tempo. Ma questa volta ha la macchina da presa invece della macchinetta fotografica; e laggiù gira quella Battaglia delle due Palme, che è indubbiamente il primo documentario cinematografico di guerra italiano e uno dei primi del mondo. Proiettato nei cinematografi Palace e Centrale di Milano, vi ottiene un successo vivissimo: degno preludio ai suoi film della grande guerra.

Dal Quindici al Diciotto, incaricato dal Comando supremo, egli corre instancabile per tutto l’arco del nostro fronte. Ha una grande automobile, che gli ha costruito apposta Nazzaro, blindata, potente, attrezzata mirabilmente; e gira così tre documentari d’eccezionale importanza: La guerra d’Italia a 3000 metri sull’Adamello, La battaglia di Gorizia, La battaglia fra Brenta e Adige. Sono gli unici autentici documentari cinematografici della nostra grande guerra, che consacrano all’ammirazione dei posteri la grandezza del nostro fante. Che importa, se dopo la guerra, un sipario di silenzio scende sulla vita e sul nome di Luca Comerio? Che importa se il suo grandioso teatro di Turro, senza la gigantesca tettoia che è diventata ferro utile per la guerra, viene schiantato da un colpo di vento? Di lui è rimasto il meglio: l’impulso dato alla cinematografia italiana, e, soprattutto, questi tre documentari. Con sincero fervore d’italiano, con ardimento di soldato, con mirabile efficacia di tecnico, egli li ha offerti alla Patria perché sia ricordato, in queste immagini evidenti, l’eroismo dei suoi figli.

Una sala storica: Il Cinema Teatro Capranica a Roma

Roma, settembre 1914

Stando alla iscrizione che si legge nel fregio di una delle porte principali, il palazzo, nel quale si trova la sala del già Teatro Capranica, fa condotto a termine nell’anno 1451. Esso fu fatto costruire, sotto il pontificato di Nicola V, dal cardinale Domenico Capranica, che ne voleva fare la degna sede del Ginnasio da lui fondato.

Se non che vicende di successione fecero sì che il palazzo divenisse la residenza della famiglia del cardinale, la quale però, ossequente al volere del defunto, fece costruire nel 1478, attiguo al palazzo stesso, il Collegio che è precisamente quello che tuttora esiste, prospiciente il vicolo prossimo, e che ha il suo ingresso principale sulla piazza.

Rimasto adunque il palazzo in libero possesso della famiglia del defunto cardinale; provvide questa, nell’anno 1679, ad abbattere due appartamenti interni di tre stanze ciascuno, per quivi formare una sala per accademie, com’era in uso presso quasi tutte le nobili famiglie di quel tempo.

Detta sala, sebbene costruita in modo poco solido e precario, fu adibita a rappresentazioni musicali, le quali, da private che erano, divennero ben tosto pubbliche, data la centralità del luogo ed il difetto che allora v’era di locali adatti per pubblici spettacoli.

Nell’anno 1695 la sala assunse aspetto di vero e proprio teatro, in quanto che all’ingiro di essa vennero costruiti, su disegno dell’architetto Buratti, sei ordini di palchi.

Troviamo, d’allora, più volte ricordato, negli annali dell’arte melodrammatica italiana, il Teatro Capranica, come quello che per lungo tempo ospitò le migliori compagnie ed offrì gli spettacoli più pregevoli per allestimento.

Ma la costruzione del teatro che, tutto legno e cartapesta, aveva conservato quel carattere di precarietà che ricordava, attraverso i tempi, le origini di esso, trovò una minaccia seria, che si cangiò ben tosto in una disposizione tassativa, in quelle provvide leggi per l’ incolumità delle persone, le quali leggi, col progredire della civiltà, fecero strada e non tardarono, giustamente, ad imporsi.

E la storica e gloriosa sala del vecchio Teatro Capranica finì col chiudersi.

Occorreva, per poterla riaprire, di apportare ad essa quelle radicali trasformazioni che, in obbedienza alle leggi ed ai regolamenti sull’esercizio delle sale di pubblici spettacoli, garantissero il pubblico da ogni minaccia di pericolo; occorreva non già restaurare ed abbellire, ma bensì demolire e rifare; occorreva, insomma, l’impiego di vistose somme, tali che, nonostante lo sfarzo dei locali congeneri, riuscissero a porre questo, non già tra i primi soltanto, ma primo in modo assoluto, isolato, lungi da qualunque confronto. e

A tutto questo ha munificamente provveduto l’Ecc.ma Casa Capranica, la quale, approvando il bel progetto dell’Ing. Cav. Carlo Waldis, ha disposto la esecuzione di esso, dando senz’altro l’autorizzazione per l’inizio dei lavori.

Ed ora qualche notizia, vera e propria indiscrezione, su quello che sarà la sala.

Si aprirà essa sulla Piazza Capranica — vicinissima a Piazza Montecitorio ed a Piazza Colonna — sul mirabile fronte del palazzo omonimo, monumento nazionale di terza categoria. Un vestibolo amplissimo, riccamente decorato, immetterà, per una magnifica scalea, alla grandiosa sala degli spettacoli, che sarà preceduta da sale minori, di trattenimento e di attesa.

La sala degli spettacoli, di forma rettangolare, sontuosa, vastissima, degna in tutto e per tutto delle sue tradizioni storiche, sarà indubbiamente quanto di più ricco e di più grandioso si sia mai visto nel genere.

Dalla pavimentazione al soffitto, dalle spaziose gallerie alla platea, tutto riuscirà un’opera d’arte compiuta e perfetta, e non un tutto visto e giudicato nel complesso, nell’effetto dell’insieme, ma bensì nell’indagine minuziosa del particolare.

La sala sarà dotata, oltrechè dello schermo, di un vasto palcoscenico, adatto per eventuali spettacoli di varietà.

I lavori sono già all’inizio e, risoluta la questione sorta circa i diritti dei palchettisti del vecchio teatro, i locali verranno sgombrati dalle tarlate armature ed incomincerà senz’altro l’opera alacre e fattiva di rifacimento.

A quando il compimento di essa e, conseguentemente, l’inaugurazione del grandioso Cinema-Teatro?

Su questo, veramente, non potremmo, per ora, pronunziarci; ma, dato che molto, anzi troppo, abbiamo già detto, aggiungiamo che essa avrà luogo, molto probabilmente, nei primi mesi dell’anno 1916.

Il Cinema Odeon

La vasta sala con la cupola, vista dal palcoscenico

Milano, settembre 1930

Il Cinema Odeon di Milano merita specialissima attenzione, come meritano specialissima lode quelli che l’hanno voluto e quelli che l’hanno costruito. Concepito come edifizio che fosse di onore a Milano e all’Italia, e come tempio d’arte, esso è riuscito veramente l’una e l’altra cosa, da qualsiasi punto di vista lo si consideri: bellezza e purezza di stile architettonico, maestosità, capacità, comodità, ricchezza che raggiunge l’opulenza più fastosa.

Sorto sull’area occupata anticamente dallo storico e famoso Monastero di Santa Radegonda, passato poi attraverso molteplici vicende, la massa monumentale del Cinema Teatro Odeon occupa una vastissima estensione di terreno, tra Via Santa Radegonda e Via Agnello, e non aspetta che il piccone del piano regolatore abbatta gli ultimi vetusti fabbricati di Via Magnani, per apparire in tutta la sua maestosa imponenza anche a chi guarda dalla Galleria Vittorio Emanuele.

Il progetto comprendeva lo sfruttamento di quell’area ingentissima e centralissima per la costruzione di un edifizio di grandi proporzioni e di artistico sfarzo, che sorgesse come degno continuatore della linea d’imponenza e di sontuosità disegnata dalla Galleria e dal palazzo della Rinascente, e che, in parte preponderante, racchiudesse locali di divertimento e di svago. Il meraviglioso edifizio, infatti, comprende il bellissimo Teatro Odeon, nei locali sotterranei; al pianterreno il Cinema Odeon, che non ha nulla da invidiare a i migliori del genere in Italia e all’Estero, e può superare i più celebrati tra quelli per alcune sue peculiarità d’arte e di buon gusto latini; a i piani superiori un enorme salone che probabilmente sarà sistemato a Ristorante; e, in cima, una grande terrazza, con l’incantevole panorama della città sottostante, e della cerchia delle Alpi all’orizzonte.

Il primo miracolo compiuto da gli ideatori, Ing. Laveni e Architetto Avati, fu quello della celerità con cui furono portati a termine i moltissimi e difficilissimi lavori di abbattimento, di scavo, di elevazione. Gli altri miracoli hanno carattere puramente tecnico, che questo non è posto per descrivere, e neppure per elencare. A noi basterà ricordare che ammirabili e sapienti ricerche, profondi studi fin dei più minuti particolari, unità di vedute, intima collaborazione furono la base di tale rapidità di costruzione, e la ragione della bellezza di questo edifizio, per il quale la Società Rinnovamento Edilizio Via Agnello, e per essa i maggiori esponenti Comm. Carlo e Luigi Delle Piane, avevano sgombrato il campo di azione degli ideatori e costruttori da ogni preoccupazione in fatto di limitazione di spesa.

Salone di aspetto e ingresso alla galleria

I Fratelli Delle Piane, nell’accettare il progetto, non videro in esso una eccellente speculazione immobiliare; vollero vedervi, invece, una grandiosa opera di abbellimento di Milano, cuore e cervello d’Italia, e loro patria d’adozione, ch’essi amano e venerano come la stessa città che ha dato loro i natali. Vollero che fosse, anzitutto, e più che un ottimo impiego di capitali, un segno tangibile e duraturo del loro affetto. E alla poderosa e nobilissima impresa si dedicarono non soltanto con le loro vastissime disponibilità finanziarie, ma anche con la loro opera personale, concorrendo con discussioni e con consigli all’attuazione del progetto Laveni-Avati.

Sorse, così, il Cinema Teatro Odeon, la cui caratteristica principale è la profusione della ricchezza non disgiunta tuttavia da puro sentimento d’arte e da squisito buon gusto e insieme da acuto senso pratico. E parliamo più particolarmente della parte del grandioso edificio adibita a Cinematografo.

Si accede al Cinema Teatro Odeon all’imbocco di Via Santa Radegonda, da Piazza del Duomo, attraverso un porticato che è l’ingresso, imponente per dimensioni e per eleganza di decorazione: è il vestibolo appunto di quelle sale nelle quali troveremo profusi marmi tra i più fini e preziosi, legni di valore, e bronzi, e stucchi, e dorature, e lampadari artistici.

Una grande galleria a ferro di cavallo circonda la platea del cinematografo; e, mentre il primo braccio, adiacente al vestibolo, è adibito alla vendita dei biglietti, e all’ingresso per sette aristocratiche porte al salone degli spettacoli, l’altro forma un delizioso e comodissimo salone d’aspetto.

Ecco il salone degli spettacoli, composto della platea e di una grande e miracolosa balconata a sbalzo, capaci l’una e l’altra di oltre duemilaquattrocento comodissimi posti a sedere, senza contare quelli contenuti negli ampi palchetti posti in alto, sull’ultimo settore della balconata.

Un’idea della vastità del salone può esser data dalla sua superficie: 930 mq.; ma meglio dal raffronto col vaso del Teatro alla Scala, che esso supera di ben sette metri in larghezza, e di dieci metri in lunghezza.

Qui lo sfarzo, il lusso e l’arte decorativa raggiungono la massima espressione: pareti rivestite di marmi pregiatissimi e lucenti, palchi di radica di noce, soffici tappeti di enormi dimensioni, bronzi d’arte, comodissime poltrone di velluto rosso, lampadari di gran pregio artistico, una cupola che accarezza l’occhio e parla alla fantasia col succedersi dolcemente dei più delicati effetti luminosi.

Grandiosa la balconata, con uno sbalzo di ben 16 metri, e larga 29; ma grandioso anche il boccascena, che misura metri dieci per dieci, e che ha la particolarità di essere incorniciato da un grigliato di legno dorato largo tre metri, composto da quattro cornici distanziare in profondità , in modo che nei vani tra cornice e cornice si son potuti istallare gli altoparlanti per il film sonoro, e un insieme di 2600 lampadine variamente colorate, con le quali è possibile ottenere tonalità, intensità e variazioni di luce che conducono a effetti singolari e suggestivi.

E non parliamo qui di tutti quegli impianti e apprestamenti capaci di assicurare riscaldamento e raffreddamento e aerazione, alcuni dei quali di brevetti nuovissimi, e che tutt’insieme concorrono a fare di questo Cinematografo il tipo solo più ricco ed elegante, ma anche il più moderno per quanto riguarda appunto le esigenze del locale cinematografico.

Tutto ciò doveva parlare direttamente al cuore dei buoni Milanesi, i quali, se hanno visto scomparire una delle più vetuste glorie della loro città, hanno visto, in cambio, sorgere su quelle rovine una gloria di maggior valore artistico; e mon poteva non parlare al forestiero, che già di questo locale aveva avuto notizia come di cosa meravigliosa; ond’è che la inaugurazione di questo Cinema, che Milano ascrive a benemerenza dei fratelli Delle Piane, segnò un avvenimento cittadino, e la sua sala da spettacoli si è vista sempre affollata dal fior fiore della cittadinanza.

In buon punto, peraltro, è sopraggiunto il mutamento della gestione e della Direzione del Cinema. Alla primitiva Direzione non mancavano certo buona volontà, nobiltà d’intenti, e buon gusto; faceva difetto, però, quella conoscenza del mondo cinematografico e della psicologia delle folle, che è indispensabile per condurre un locale cinematografico di tanta importanza, in un centro come Milano, e al giorno d’oggi. Dalla metà di questo mese, alla primitiva gestione è succeduta la Società Anonima Emilio Perani, con alla testa un vecchio e consumato e occhiuto cinematografasti, appunto Emilio Perani, che del commercio cinematografico e della gestione di sale ha oramai un’annosa e fruttifera esperienza personale; tanto fruttifera, che gli spettacoli del Cinema Odeon se ne sono immediatamente avvantaggiati.

Con Emilio Perani alla testa, il Cinema Odeon conquista oggi quel primato al quale ha realmente pieno diritto, e che rischiava di non raggiungere giammai.