L’agguato della morte di Amleto Palermi 1919

L'agguato della morte
Inserzione pubblicitaria (In Penombra, Roma, febbraio 1919)

Cinedramma straordinario in 4 parti.
Soggetto e messa in scena di Amleto Palermi.
Interpreti: Thea, Ugo Piperno, Giuseppe Piemontesi, Amedeo Ciaffi, Xam Derling, Max di Brabante.

Una lettera del Tenente di Villarosa aveva prevenuto il Principe di Belfiore, suo cugino, che una donna misteriosa, rassomigliante straordinariamente alla principessa Dusnella, sua consorte, era stata sorpresa ad aggirarsi, di notte e in compagnia di un soldato, nei pressi del forte Colleverde.

I due personaggi misteriosi, diceva la lettera, erano riusciti a fuggire; ma un cammeo era stato rinvenuto al suolo, e quel cammeo recava inciso lo stemma dei Belfiore.

Il principe, impressionato dalla comunicazione, parte subito per il forte di Colleverde, con la scusa dell’acquisto di un podere, e ordinando al maggiordomo che, ove il suo ritorno si allungasse, mostrasse al padre della principessa, la lettera ricevuta.

Mentre la principessa Dusnella e suo padre, vecchio generale in ritiro, ne attendevano il ritorno, un insistente latrare dei cani di guardia fa accorrere i servi alla porta del castello, ove essi trovano il cavallo del principe di Belfiore che porta, quasi rovesciato sul dorso, un uomo ferito.

Lo sconosciuto, che è privo di sensi, è condotto nel castello, adagiato su di un letto, e soccorso. Egli è Paolo di Santelmo ed ha una ferita d’arma da fuoco al fianco destro.
Dusnella e il padre si recano ad aiutare lo straniero, e cercano invano d’interrogarlo; egli è sempre svenuto. Ma grande è la loro sorpresa quando si rendono conto che il ferito stringe nella mano sinistra un fazzoletto macchiato di sangue e quel fazzoletto reca lo stemma e le cifre del principe di Belfiore.

In quello, il maggiordomo mostra nascostamente al padre di Dusnella la lettera del tenente di Villarosa, e il padre allora, cui non sfugge anche il particolare che sua figlia ha al dito un anello al quale manca la pietra, è assalito da una tragica ansia, e prende una risoluzione: fa sorvegliare Dusnella e lo straniero ferito, e accorre al forte Colleverde.

Nella notte, i servi nascosti a spiare vedono la porta della camera di Dusnella aprirsi e la principessa uscirne per entrare furtivamente nella camera del ferito. Questi è rinvenuto: la sua ferita è lieve, la donna e lui parlano a bassa voce. Paolo di Santelmo racconta come al forte Colleverde, dopo una lotta accanita, egli ha avuto ragione del Principe di Belfiore ed è riuscito a fuggire sul suo stesso cavallo.

Mentre il padre di Dusnella, giunto al forte, s’intrattiene con il genero e col tenente di Villarosa sui fatti accaduti, squilla il campanello di allarme.

I soldati hanno scorto due ombre profilarsi sul ciglio del fossato e, secondo l’ordine ricevuto, hanno spianato le armi e fatto fuoco.

Le due ombre precipitano: sono Paolo di Santelmo e la principessa Dusnella.

I soldati, il principe e il generale, scendono nel fossato ed ivi trovano il giovane morto: sul suo avambraccio, appare un tatuaggio che rivela in lui un affiliato alla più terribile setta delle spie nemiche.

Dusnella, ferita e svenuta, è trasportata nell’interno del forte. Essa è immobile su di un piccolo letto. Il medico la osserva, mentre il marito e il padre sono sotto il tormento più angoscioso.

Come si chiarirà il mistero?

È quello che si rivela, con emozione; nel finale del dramma.
(dalla brochure del film)

L'agguato della morte 1919
Una scena del film L’agguato della morte (1919)

Come finisca questo “cinedramma straordinario” non so dirvelo per la semplice ragione che il film risulta scomparso. Secondo Vittorio Martinelli, che non cita la fonte, la trama sarebbe molto diversa:

La Principessa Dusnella di Belfiore viene sorpresa accanto ad una polveriera nell’atto di dar fuoco alla miccia di un potente esplosivo. Tutte le apparenze sono contro di lei, benché in realtà, la fanciulla, agendo in uno stato di sonnambulismo, è portata a compiere gli atti più imprevedibili. La sua innocenza viene alla fine provata. La spia che avrebbe dovuto far esplodere la polveriera, viene catturata da Dusnella e da Paolo di Sant’Elmo, il suo fidanzato, l’unico che aveva sempre creduto alla sua innocenza.
(da Il cinema muto italiano 1919 – i film del dopoguerra, Bianco e Nero – Nuova Eri/Edizioni Rai 1995)

Girato nel 1919 (visto di censura del 1.4.1919), prima visione romana Cinema Venezia, 23 gennaio 1920. Non sono riuscita a trovare nessuna recensione. 

L’Anticinematografismo

Roma, dicembre 1919. In Italia abbiamo la mania delle frasi e dei concetti fatti.

Quando una frase o un’idea fanno fortuna non riusciamo a levarci più di torno la folla di seccatori che ci ripete continuamente l’una e l’altra semplicemente perché le ha sentite dire. Ripetizione fatta fino alla nausea, senza che nessuno cerchi di riflettere su quello che dice.

Oggi è di moda, specialmente fra la cosiddetta  classe dirigente che non dirige più nessuno, di andare contro il cinematografo, di fare dell’anticinematografismo.

L’on. Giulio Alessio, cui la rientrata candidatura a Presidente della Camera aveva accresciute le doti di combattività, ha pensato bene di spezzare una lancia per la morale pigliandosela col cinematografo corruttore.

Moltissimi spezzano delle lance così com’è uso spezzarle l’on. Alessio, scagliandosi, sempre a voce, contro il clericalismo, la borghesia, il capitalismo, il militarismo prussiano ecc. ecc.

Clericalismo, borghesia, ecc. sono dei bersagli soffici sui quali le palle non rimbalzano, e tutti gli oratori che a corto d’argomenti non sanno cosa dire ci fanno una sparatina contro per dar polvere negli occhi agli elettori ed acquistar rinomanza.

Cavour stesso diceva che quando non aveva nessun altro scampo se la pigliava coi preti e tutto s’accomodava.

A questi bersagli soffici s’è aggiunto da poco il cinematografo con cui se la pigliano i più assetati di morale fra i preti neri e i preti rossi.

Questa gente che strepita tanto contro l’innocente schermo bianco sul quale in sostanza si proiettano sempre le solite cose, non viene però mai nelle sale cinematografiche, perché preferisce la commedia di prosa, genere Presidentessa o Pillole d’Ercole, che la Censura non permette al cinematografo.

Com’è nato questo anticinematografismo politico?

Dall’ignoranza completa e assoluta delle cose cinematografiche largamente diffusa negli ambienti politici.

Moltissimi parlando di corruzione e di delinquenza giovanile favorita dallo schermo: come se i cinematografi fossero frequentati da una maggioranza, o anche da una forte minoranza di elementi giovanili.

Il cinematografo è un potentissimo mezzo di educazione, come la musica e il teatro, ma non è un mezzo didattico se non nelle scuole, dove — e questo è il torto di tutti i nostri ministri dell’Istruzione — non è ancora entrato.

Le pellicole educative, di cui lamentano tanto l’assenza i moralisti della politica che spesso non arrossiscono quando tengono il sacco ai pescecani, sono delle bellissime ed utilissime cose, ma enormemente passive industrialmente, appunto perché buona parte dei moralisti preferisce la Casta Susanna alla lettura dei fioretti di San Francesco.

Spetta forse all’industria pensare all’educazione del popolo e a rimettere del proprio in questa opera di filantropia?

L’istruzione è di competenza della Minerva e si fa a spese dello Stato che se ne deve rivalere sia sugli industriali che sui moralisti. E a costoro, cui sta tanto a cuore che il popolo sia indotto a pensare in un modo anziché in un altro, perché non erogano, o fanno erogare dalle proprie congregazioni, associazioni ecc., dei fondi per far fabbricare delle pellicole ad hoc?

Potrebbero, per esempio, ordinare Le vite dei santi, La repubblica sociale, Il  trionfo del cristianesimo, La vita di Lenin, ecc.

Ogni partito, a sue spese, si toglierebbe questo gusto, e, sempre a sue spese, farebbe proiettare il film educativo, regalando, naturalmente, i biglietti, e chiudendo i locali appena entrato il pubblico, per impedirgli di andarsene dopo il primo quadro.

Ma se si può scherzare sulle manie e sugli atteggiamenti istrionici di qualche politico moralizzante, non è possibile non considerare con inquietudine la leggerezza con cui costoro parlano di una industria che è — almeno oggi — la sola ricchezza d’Italia.

Sanno essi che l’esportazione italiana è costituita in buona parte di films cinematografiche? Sanno essi che il poco danaro straniero che l’Italia riesce ad afferrare le viene in grandissima parte dai films venduti all’Estero? Sanno essi che la cinematografia italiana valorizza e vende al mondo qualcuna delle pochissime ricchezze nostre: il cielo, il paesaggio, il sorriso delle nostre donne e l’arte dei pochi giovani di talento? Rispondere alla brutalità e necessità di un carico di carbone con un sorriso di Maria Jacobini: alleviare, sia pure per poco, il penoso peso del cambio con una trovata di Genina, sembra a questa gente una sciocchezza?

E duecento e più milioni di lire di tasse che la cinematografia dà allo Stato, e un paio di milioni di cittadini italiani che vivono del cinematografo sono niente? Zero?

Perché non studiano e capiscono prima di parlare, costoro che fanno dell’anticinematografismo la base d’un discorso politico?

an.
(Kines)

Charlie’s Own Room

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A Peep into the Private Office at the Chaplin Studio

The four walls within which a man spends most of his time, which are witness of his mental struggles, victories and self-communings, are part of himself, and share something of the soul of his own living personality.

The first time I visited Chaplin’s private office at his beautiful studio was in the company of Charlie himself. He had show me every detail of his model plant and concluded the round on his own private sanctum, where he writes his stories, receives his visitors, and changes for the screen, as one portion of this quiet spacious apartment is curtained off as a kind of dressing-room.

Everything in that room breathes of restfulness and quiet. The tranquil soul seeks its inspiration in sunlight and gay colours. Chaplin’s restless spirit, with its vivid enthusiasms, its eternally unappeased ideals, turns to soft grey twilights and the intimate companionship of books and music.

A man’s library is the revelation od his inmost self. Chaplin relies very largely in his comedies on the element of surprise in “ putting across ” a big laugh. It will possibly be something of a shock, however, to the more frivolous of his admirers to learn that the following works apparently go to the making of a great comedy artist; at any rate, I found them on his office table:

(1) More’s “ Utopia.”

(2) Paine’s “ Political Economy.”

(3) The Tragedies of William Shakespeare.

(4) “ The Bomb,” by Frank Harris, with the author’s dedication.

The only works on his book-shelf suggestive of any spirit approaching levity are “ Denry the Audacious,” with the personal inscription of Arnold Bennett, and Irvin Cobb’s “ Speaking of Operations.”

Chaplin is entirely a self-educated man, and two bookcases containing the “ Encyclopedia Britannica,” and well-thumbed edition of the American “ Book of Knowledge,” show how eagerly and untiringly he has pursued his eternal quest of beauty and truth.

You will notice on a table near the window his violin case with his old David Mantegna, the companion of many an hour when inspiration lies dormant and is lured into being with the sweet strains of Dvorak’s “ Humoresque ” or Tchaikovsky’s sky’s “ Chanson Triste.” Individual in all things, Chaplin is a left-handed player and strings his violin from E to G. He likes to play with muted strings; he thinks it sounds “ less harsh.”

His Treasures

With one exception the pictures on his walls are all photographs, mostly personal dedications of world celebrities who have visited the studio or otherwise been brought into contact with him. Nellie Melba, Queen of Song, hangs close to Mrs. Fiske, America’s Queen of Tragedy; the Earl of Dunmore rubs shoulders with Godowsky, wizard of the piano, and, a very human little touch this, amongst them all, a “ snap ” of a smiling Charlie in a disreputable old suit, photographed with a big fish he once landed on a holiday off Catalina Island.

On a stand in one corner of the room there are the huge piled up volumes of newspaper cuttings. Charlie himself rarely reads a press notice, and I think the only one of those volumes that he would ever miss is the one which contains the “ notices ” of his early successes on the vaudeville stage. On the occasion of my first visit to the studio, he unearthed it after some trouble, handling it with something like real affection. It is still preserved in the old binding with its gaudy reds and golds, the sort of album in which, as kiddies, we all used to stick scraps and transfers on a wet Saturday afternoon. It contains some highly interesting records of genius in the adolescent stage, and one can imagine with what pride the fifteen-year old boy pasted into his precious book that first glowing notice of “ Sherlock Holmes,” in which “ one of the brightest bits of acting in the play was given by Mr. Charles Chaplin who as Billy Holmes’ page boy, displayed immense creativity as well ad dramatic appreciation.”

In an alcove overlooking the studio grounds is Charlie’s modest dressing-room. There is a little white table with a mirror and every accessory just in its proper place, thought it must be owned that the general scheme looks somewhat different of an evening when Mr. Chaplin has finished the day’s work.

With its quiet subdued colour scheme, its books and his pictures, Charlie’s sanctum conveys as little of the general atmosfere of a movie comedy as the Chaplin of private life. But now that I have seen Chaplin at work, not once, but many times, I have learnt to realise that as much logical deduction and mental travail go to the creation of a true comedy as to any problem play.

But if you stand in that quiet room of his and have any aptitude for conjuring up a mental picture of a man, judging him by the things with which he likes to surround himself, you will begin to realise the influences that have made him what he is and which have given his little epics of golden laughter that immortal touch of genius which is all his own.

(The Picture Show Nov. 15, 1919)