
Torino, Ottobre 1920
Se non erriamo abbiamo già assistito qualche anno fa ad una Carmen di cui fu protagonista una rinomata artista dell’Opera Comica di Parigi, Carmen Sylva, coadiuvata da quel simpatico artista che è l’Habay.
La film che ci sembrava ottima allora, perde alquanto in confronto a questa nuova edizione dell’Unione di Berlino, benché anche qui non manchino i difetti talvolta molto visibili. La riproduzione del romanzo di Prosper Mérimée non è troppo fedele; mancano anzi alcuni episodi importanti che avrebbero forse giovato di più all’interpretazione dei due principali protagonisti, che però hanno disimpegnato molto bene il loro compito.
Il Liedtke fu un José impareggiabile; questo artista possiede una mimica straordinaria; i suoi gesti sono sobri e naturali, il suo viso sa esprimere nello stesso tempo l’amore, l’odio, la disperazione in modo mirabile. Dal primo all’ultimo quadro non venne mai meno alla sua parte riuscendo ad incatenare totalmente il pubblico che già ebbe campo di ammirarlo in Madame Dubarry e Principessa delle ostriche.
La Pola Negri ci è piaciuta meno benché anch’essa molto efficace, specialmente nelle due prime parti. Bisogna però convenire che il personaggio di Carmen è piuttosto scabroso.
A posto gli altri.
Questo al Borsa, sempre affollato d’un pubblico elegantissimo.
Paolo Aragno

Com’era giusto e naturale, nel far rivivere sullo schermo le drammatiche e romantiche vicende di Carmen, la bella, ardente, fatale spagnola, l’UFA si è attenuta per intero alla novella di Prosper Merimée, la quale fu al tempo suo assai popolare e diede vita altresì ad un dramma lirico dei noti librettisti Meilhac e Halévy, musicato da Georges Bizet; dramma che ebbe poi, dopo molte peripezie, un grande durevole successo, e contribuì a far passare in seconda linea l’opera letteraria, se bene ne rendesse più popolari le vicende narrate. E poiché era già, questo dramma lirico, una derivazione, ed una derivazione non sempre fedele per esigenze tecniche, teatrali o sceniche, e per la stessa natura dell’opera derivata; sarebbe stato invero cosa assurda e stolida, contraria a qualunque principio artistico, che la grande Casa tedesca si fosse attenuta ad esso, anzi che al lavoro originale. Ora, siccome il dramma lirico è più conosciuto certamente della novella, ed in esso sono riprodotti i più salienti episodi della narrazione, semplificati talvolta per necessità teatrali, è sembrato a qualcuno, o a gran parte del pubblico, che non conosce la novella o la conosce male, che la riduzione cinematografica pecchi di imprecisione e d’infedeltà nei confronti del dramma lirico, mentre in realtà è questo che pecca d’infedeltà e di imprecisione nei confronti della novella. La UFA ha quindi dato una lodevole prova di probità di coscienza artistica, prendendo dell’opera originale e non da una sua riduzione. Chi mai esiterebbe tra Rigoletto e Triboulet?
Questo film insegna come si riduca un romanzo, una novella, un dramma, un qualunque lavoro che non sia stato concepito direttamente per lo schermo, ma che egualmente vi si presti; e cioè, non deformando l’opera originale, ma interpretandola, raccogliendone tutti gli elementi indispensabili ad una completa ed organica ricostruzione, coordinando e raggruppando gli episodi essenziali, distribuendoli con logica e con euritmia; componendo, insomma, un nuovo e solido organismo che contiene in gran parte gli elementi dell’opera originale, la quale si presenta così in una nuova forma, ma non muta il suo contenuto.
La riduzione di Carmen non s’attarda in particolari superflui e descrittivi, ma fissa i caratteri dei personaggi e la loro vicenda, che s’imposta e devolve attraverso situazioni ed episodi di molta chiarezza ed evidenza. Sintetizza, non analizza. Rappresenta, non descrive. È la narrazione dei fatti che si muta in rappresentazione dei fatti. La concatenazione dei fatti, la distribuzione delle scene, si mostra in una rapida, movimentata successione di quadri, in un’azione serrata e piena d’equilibrio. Il senso della proporzione è in questo film molto evidente: quadri ed azione hanno una giusta ampiezza ed un adeguato sviluppo; non esorbitano dalla linea che loro si conviene ed è necessaria; sono proporzionali gli uni con gli altri in rapporto alla loro entità e importanza. (…)
L’inquadramento, che è dato dalla macchina e non dalla sceneggiatura, per cui la funzione del riduttore e quella dell’inquadramento, che dipende dal metteur-en-scène e dall’operatore, sono cose ben distinte; l’inquadramento, dico, segue l’antico metodo, lasciando che l’azione si svolga interamente, senza strozzarla e spezzettarla con frequenti spostamenti di macchina, in omaggio all’ultima moda venuta d’oltreoceano, senza discernimento alcuno imitata e applicata dalla più parte dai nostri inscenatori, i quali ci prendono un gusto matto a spostare la macchina per spostarla, senza una ragione plausibile, e senza accorgersi minimamente che i loro films fanno poi venire le vertigini a chi li vede pei continui mutamenti di quadri. Qui l’azione si sviluppa; e poiché si tratta di azione, non di esercitazioni plastiche di attrici e di attori, tiene avvinto il pubblico, non lo stanca, non ha bisogno di presentarli di fianco, di fronte, alle spalle, nei particolari dei piedi e delle mani, che scalpicciano quelli, che grattano queste, e di enormi testoni grotteschi nella loro enormità. (…)
L’interpretazione è anch’essa buona, ma non è perfetta. Per quanto fisicamente non adatta, la sua valentia aveva reso di Pola Negri un’interprete magnifica di Madame Dubarry; e però in Carmen la valorosa attrice è di molto inferiore. E se la sua arte scaltrita, fatta di spontaneità e di naturalezza, le permette di fare di Carmen una personificazione degna e rispettabile, non le conferisce nulla d’interessante e di notevole. Senza dubbio questa personificazione di Carmen non è da buttar via; ha anch’essa i suoi pregi e il suo lato buono; tuttavia Pola Negri ci ha dato poco di Carmen. Manca soprattutto quel fascino di bellezza procace, quella sensualità calda e avvolgente, quella torbida passionalità di zingara, che doveva avere questa donna, ingannevole e ladra, il suo sguardo maliardo, i cui baci caldi, i cui abbracci, avevano la virtù di addormentare coscienze e di rovinar uomini, di postarli ai suoi piccoli piedi e di farsene trastullo per i suoi volubili capricci. Più che l’anima di Carmen, nell’acconciatura spagnola, vibra l’animo d’una mondana parigina o d’una kellerina tedesca. (…) Anche gli altri attori, buonissimi nell’insieme della loro esecuzione, esaminati in particolare, sono taluni un po’ freddi, tal’altri un po’ esagerati; nessuno, infine, sa sottrarsi ad un biasimevole manierismo. Creano, cioè, tutti quanti figure di maniera. Don José, per esempio, non ha mai uno slancio baldanzoso e un po’ spaccone, com’è nel temperamento d’un buon granatiere; è troppo contadino, è troppo recluta.
La messa in scena, l’esecuzione del film sono ammirevoli, rappresentando un magnifico e lodevole sforzo, sono una considerevole manifestazione artistica; ma non vanno esenti da difetti. Insieme a quadri imponenti per masse e per movimento, e per ricostruzioni ambientali, si vedono quadri assai meschini. (…) Ora, il rilevare queste mende può sembrare pedanteria; ma non lo è, perché in mezzo alle cose molto belle e riuscite, saltano subito all’occhio. Ad ogni modo, per una Spagna ricostruita a Berlino, c’è fin troppo; c’è tanto da imparare qualche cosa e c’è di più assai di quanto ci sia di Sardegna in alcuni films eseguiti in quella regione. C’è da imparare che in cinematografia si può fare la Siberia, nell’alta valle di Lanzo, la pampa, in quel di Roma, lo sbarco di Nerone ad Anzio, sul Po, ed altre consimili cose; ma quel che importa non è poi la verità assoluta, se pur per ragioni estetiche essa è desiderabile, bensì il modo come tutto ciò è fatto.
Diònisio.