Il Carnevale di Venezia – SASP 1928 (2)

Roma, 14 gennaio 1928. La Tribuna, a mezzo del troppo abbondante Alberto Spaini, Il Tevere per la penna del troppo misurato Pavolini, ci fanno sapere che sono assolutamente disgustati dell’ultimo film italiano — dico italiano e non Pittaluga — poiché l’unico produttore da prendere sul serio in Italia è Pittaluga — detto Carnevale di Venezia, è proiettato ultimamente in tutta Italia con un successo non certo disprezzabile. (…) Spaini e Pavolini, guardando il film solo dal loro personale punto di vista che non può non essere quello di scrittori (e quindi di soggettisti in pectore) hanno condannato il Carnevale per il soggetto. Benissimo: giustissimo — ma non gravissimo. Perché se il soggetto del Carnevale (perdonami, caro Mazzolotti: i granchi li prende solo chi pesca e gli errori li commette solo chi fa) è una scemenza, io sostengo (io Guglielmo Giannini, persona responsabile che dà continuamente prova di sé ed ha molto, ma moltissimo da perdere) che il Carnevale di Venezia, con quindici giorni di degenza nella mia sala operatoria cinematografica, diventa un capolavoro. Pronto a scommettere il mio giornale, cioè la mia vita e quella dei miei figli, contro chicchessia. Il Carnevale non soffre che d’un soggetto balordo, e d’una sceneggiatura balordissima: malanno, cinematograficamente parlando, di lievissima entità, e che sta al rimanente del film come un mal di testa sta ad un boxeur in piena forma. Spaini e Pavolini dunque, non sapendo fare altro che scrivere, non hanno inquadrato che il difetto più evidente ai loro occhi.

Ma sanno, i due cineasti cui la quotidiana tribuna dà sproporzionata importanza — sempre cinematograficamente parlando — in che stato arrivano i famosi film stranieri che tanto successo ottengono fra noi? Sanno che si tratta, nel novanta per cento dei casi, di soggetti idioti e di sceneggiature idiotissime che ci tocca rifare di sana pianta? Sanno quante e quante volte una moglie, in film, diventa sorella, o cugina, o zia, o levatrice e stiratrice perché moglie non potrebbe assolutamente essere? Sanno, i due colleghi certamente inquadrati professionalmente mentre io (anzi: Io) non lo sono ancora, quanti finali di film diventano principi di primo atto, quanti personaggi cattivi diventano buoni, quanti personaggi che muoiono terminano invece il film in perfetta salute?

L’aderenza dei film stranieri alla mentalità ed al gusto italiano è data da noi, qui in Italia — e con prodigi d’abilità e di competenza che hanno fatto dire a Douglas Fairbanks, assistendo alla proiezione del Don X ridotto da Campanile-Mancini: “È meglio così che come lo avevo licenziato io in America, questo film!”

Nel Carnevale c’è un farabutto di nazionalità italiana: è un errore, e siamo d’accordo. Ma che cosa ci vuole per farlo diventare il levantino Hagj Ben Zuleick di imprecisa nazionalità? Un titolo: e guai se sapeste, o cineasti, quanti imprecisi levantini ci sono nelle pellicole straniere che tanto ammirate!

Quindi nessun difetto irrimediabile, ma solo errori di lieve importanza.

Veniamo ora ai meriti del film, e quindi della coraggiosissima editrice.

Spaini e Pavolini sono d’accordo nel dichiarare che la fotografia è buona, la messa in scena buona, gli attori buoni. E che cosa può e deve dare di più una editrice?

Per conto mio aggiungo che sono buone altre due cose essenziali: la recitazione e la stampa.

Allora diremo: il film ha una bella fotografia, un’ottima messa in scena, un’eccellente complesso di attori, una buona interpretazione, una buona stampa. Soggetto stupido, sceneggiatura inesperta o vecchio stile: il che è lo stesso. Ma — e qui cascano gli asini ed i critici precipitosi — se soggetto e sceneggiatura sono facili da cambiare in modo radicale si rimedia ad ogni guaio; ma se fotografia, attori, messa in scena, interpretazione e stampa non fossero quel che sono, nessuna abilità genialità o mestierantismo che sia potrebbero cambiarle o correggere.

Dice: Ma voi allora ve la pigliate con gli artisti?

Sicuro: me la prendo innanzitutto con gli artisti, salvo gli attori che hanno fatto quanto dovevano, e che, comunque, hanno in film di tal genere una limitatissima responsabilità.

Me la prendo innanzitutto col mio carissimo amico Mazzolotti il quale non doveva fare quel soggetto, e rifiutarsi, in ogni caso, di firmarlo. Né mi si dica che gli sono stati imposti limiti di titolo, di spazio, di attori, di messa in scena, di luoghi, di situazioni. Balzac diceva che l’artista si vede nei limiti. Michelangelo ha cavato fuori La Notte da un blocco di marmo di forma inconsueta. Un riduttore italiano — che presenteremo a Spaini e Pavolini quando ne capiterà l’occasione — trasse da seicento metri di tagli il film Douglas Black Burke, e da millecinquecento metri di tribunale civile tedesco una commedia che ha fatto ridere tutti i pubblici cinematografici d’Italia: La Divorziata.

A Mario Almirante. Ha ottimamente guidato la recitazione, ma ha malissimo tagliato e peggio titolato il film (A parte che doveva rivedere o rifiutare il soggetto).

All’operatore Pavolini dice: “Non c’è uno di quegli sprazzi di luce eccetera” — e descrive un effettaccio di cui noi siamo ristucchi e che, fra l’altro, si faceva in Italia dai tempi di Lyda Borelli. Ma se non c’è lo sprazzo, di chi è la colpa? Della Pittaluga che ha messo a disposizione degli impianti e dei mezzi colossali, o dell’operatore che non ha, quei mezzi e quegli impianti, sfruttati come era possibile?

Se tanti chiacchieroni non rompessero le scatole a voce e per scritto; se Pittaluga avesse avuto il coraggio di prendere un direttorone coi fiocchi da Berlino o da Hollywood, non saremmo a tanto. È bene  ficcarsi in mente questa verità che non avevo voluto dire, ma che gli attacchi a Pittaluga — mio amico carissimo — mi costringono a spifferare: Da noi non si sa fare il cinematografo, e nessuno si decide a impararlo. I direttori italiani che vanno all’estero si perfezionano e non tornano più — vedi Genina, Righelli, Brignone — anche se sono invitati: e mi consta che sono invitati.

Occorre quindi chiamare uno che venga qui ad insegnare il mestiere: la nostra genialità saprà, in seguito, trasformare il mestiere in Arte. Ma, se per aver messo Malcolm Tod e Josyane nell’elenco artistico, allo scopo d’assicurarsi la vendita fuori d’Italia, Pittaluga ha avuto un mondo di proteste, che sarebbe successo se avesse chiamato un direttore ed un operatore, dal nome ostrogoto ma con la testa sulle spalle? Una rivoluzione!
(da Kines)

Torino, 21 gennaio 1928. L’argomento non è nuovo perché venne da noi trattato — non una volta sola — per l’addietro, ma torna d’attualità e crediamo nostro preciso dovere riprenderlo, in questo momento in cui sulla « grande stampa » si accanisce una inesplicabile gazzarra a proposito di un film italiano, frutto di grandi sforzi e di lodevoli intendimenti, che in tutt’Italia ha suscitato il più schietto entusiasmo.

Parliamo di Il Carnevale di Venezia, che la Pittaluga Film di Torino ha allestito nei suoi stabilimenti, lanciandolo dignitosamente e con spiegabile orgoglio, quale dimostrazione dell’inizio della nostra riscossa e delle nostre possibilità in questo campo dell’attività nazionale e per rispondere all’appello lanciato da un capo all’altro della penisola per una pronta ripresa lavorativa onde poterci finalmente affrancare dalla schiavitù dell’America, che ha invaso tutti i mercati, ed il nostro specialmente, paralizzando, da anni, una delle più fiorenti branche dell’industria del nostro paese.

La crisi che ci ha confinati all’ultimissimo gradino della scala mondiale, in fatto di cinematografia, ebbe ed ha tuttora dolorose e gravissime ripercussioni sull’economia e sul prestigio della Nazione; motivo per cui, noi della « piccola stampa » ci siamo instancabilmente prodigati ad agitare l’opinione pubblica in favore di un ritorno al predominio della produzione nostra, in casa propria ed oltre i confini, invocando dal Governo provvedimenti atti a favorire ed incoraggiare le iniziative private, affinché l’attuale stato di cose abbia una buona volta a cambiare.

Mentre questi sforzi incominciano ad essere compresi e assecondati, e sull’orizzonte nebuloso dell’industria filmica accenna a spuntare un raggio di sole per illuminare e scaldare le speranze finora compresse e deluse; quando le poche Case editrici tuttora in vita, con alla testa la grande organizzazione torinese, per rispondere all’imperiosa volontà del Paese, compiono miracoli di abnegazione e di sacrifici, pur di riuscire a contrapporre films nostri a quelli stranieri, e per la bisogna profondono, senza limitazioni, capitali ed energie, ecco che certa « stampa seria », da noi sempre invocata come potente ausilio all’opera ricostruttrice, si ostina a stroncare con un accanimento degno di miglior causa, per partito preso, tutte le iniziative, e a denigrare sistematicamente uomini e cose, con l’unico risultato di avvilire i nostri artisti e gli industriali, scoraggiando i capitalisti che si sono decisi, dopo tanto tentennare, a profondere e rischiare ancora una volta il proprio danaro.

Tutto questo è semplicemente incomprensibile e ci ribelliamo ancora una volta a certi sistemi si svalorizzazione, che tendono a ritardare indefinitamente  la risoluzione della crisi, aggravandone sempre più i suoi disastrosi effetti.

Preferiamo quindi continuare a condurre da soli la battaglia per la rinascita del film italiano e siamo certi che la nostra coraggiosa, per quanto modesta opera, sortirà gli effetti desiderati.

È un fatto che la cinematografia è sempre stata una spina nell’occhio della stampa quotidiana, che non si è mai lasciata sfuggire la benché minima occasione per denigrare tutte le cose nostre e sminuire l’importanza di ciò che si riesce a fare.
(da Il Corriere Cinematografico)