
Napoli, luglio 1929. Cesare Gravina, con la sua gentile signora, anche lei artista di prima linea, si concede un periodo di vacanze.
In quindici anni è stato otto o nove volte in America. Nell’America del Sud e in quella del Nord.
Dopo un così lungo periodo di un lavoro indiavolato, un po’ di riposo al Parco Mancolini al Vomero è il meno che un artista — anche dalla fibra eccezionalmente forte com’è Cesare Gravina — è il meno che si possa prendere.
— Ritornerete in America?
— Eh! no! Sono tornato in Italia, e a Napoli, col proposito di non andarmene più. In America, e, preciso, a Hollywood un artista trova tutto ciò che può desiderare. La scarsezza di mezzi è ignota in quella terra meravigliosa per la formidabile attività degli uomini.
Ma quando avete lavorato molti anni, avete avuto del successo (Gravina dice così, ma il successo che egli ha avuto è stato continuo, grande e, ciò che non guasta, produttivo risorge dal fondo dell’anima il ricordo della patria lontana…
— Sapete — dice Gravina animandosi — che da lontano la patria si ama potentemente, e, ad un certo punto, ha una voce per chiamarvi a sé, alla quale non si resiste?
Perché avrei dovuto resisterle, io? Non avrei avuto neppure la scusante che c’è per molti che in patria non hanno avuto fortuna.
Io modestamente la fortuna in arte l’ho avuta nel mio paese e fuori.
C’è soltanto una strana singolarità.
In Italia sono stato un artista comico.
La benevolenza del pubblico italiano l’ho avuta in cambio dalle ore di buon umore che ho dato al pubblico.
In America, nell’arte muta, sono stato — hanno voluto che non fossi altro — un artista drammatico fino al tragico.
Guardate queste fotografie…
(Erano un monte di fotografie diverse, di stampe):
… Sono poche, io non conservo nulla. Poi non mi occupavo della réclame. Se ne incaricavano le case per le quali lavoravo.
(Le fotografie di Gravina, che sono dei fotogrammi ingranditi, sono sorprendenti. Pochi artisti hanno il dono di trasformarsi, senza trucco, come il Gravina muta di espressione, sempre raggiungendo degli straordinari toni di efficacia drammatica)
— Con chi avete lavorato?
— Mi dovreste domandare con chi non abbia lavorato. Sono stato con la First National con la Paramount, con la Universal, con la « Goldwyn, con la Metro Goldwyn Mayer, con la Metro, con la Fox, con la Boustroheim Production, con Jackie Coogan e con molte compagnie indipendenti.
Ho recitato con le stelle, with all the stars:
Mary Pickford, Mary Doro, Margarita Clark, Valentine Grant, Jay Rae, Greta Garbo, Dolores Del Rio, Madge Bellamy, Gloria Swanson.
Ho avuto i grandi direttori Sidney Olcott, Erich Stroheim…
— Larghi mezzi?
— Domandate dei mezzi? In Italia è difficile farsene un’idea. Ed è difficile ad uno che venga di li, come vengo io dopo esservi rimasto anni, e raccontare cose che non siano prese per esagerazioni. Un direttore, quando tutto è al punto per andare avanti, s’accorge che un particolare dello scenario non va — secondo lui — Ordina:
— Togliete via quella roba!
— Adesso rimedieremo!…
— Non si può. Togliete via. Rifate. Sarà per domani: oggi non si lavora.
C’era una folla di comparse ingaggiate.
Quel rimando equivaleva a una decina di migliaia di dollari mandati all’aria.
Pare, forse è realmente un’esagerazione.
Ma in America la spesa è un elemento trascurabile e trascurato sempre innanzi alla volontà decisa di raggiungere la perfezione in tutto.
A Hollywood — lo avrete letto e inteso cento volte — c’è tutto, si costruisce tutto, ci sono compagnie con grandi e piccoli attori di tutte le nazionalità del mondo.
Poi, quando sentite parlare di un aspetto di casa americana non dovete starvi alla sensazione che vi dà la parola descrittiva, dovete sforzarvi a rendervi l’ambiente. Si spende molto? Sì e no. Non si può dire a rigore: si spende molto con l’accento di chi vuol dire che il danaro è buttato via.
Perché quel che si spende, ritorna, e ritorna subito.
Il collocamento della produzione cinematografica per l’87 % si ottiene negli stessi Stati Uniti. Il film che esce dall’Unione Americana per venire in Europa o per andare altrove ha già dato un largo profitto; un profitto che si calcola a molte centinaia di migliaia di dollari.
Ecco spiegato il Direttore americano.
Scritturato a 750 dollari la settimana, m’hanno tenuto inoperoso tre settimane, in attesa che avessi naturalmente la barba con cui dovevo figurare sullo schermo.
Una volta hanno voluto uniformi, lampadari, perfino la carrozza dalla casa imperiale d’Austria. S’è pagato, ma s’è avuto tutto in piena autenticità.
Nessun vero artista dirà mai che ciò costituisca una superfluità o un eccesso.
Dicevo che non m’hanno voluto come artista comico. Ho sbagliato. In Montecarlo ho un rôle comico. Piacque. Ma hanno preferito che sostenessi parti drammatiche. Nell’Uomo che ride sono Ursus. Nella Marcia nuziale, in Greed, nella Poor Little Peppina, Donne folli, Merry go round, tutti roles di forte drammaticità.
— Fumate?
— Sigarette, no, grazie. I miei toscani… se permettete.
— Ecco… l’accendisigari…
— C’è scritto…
— Sì. È un regalo di von Stroheim…
C’è questa dedica, incisa: « To one of the greatest actors – the world has ever had – and incidentally my very best friend Cesare Gravina – sincere admiration.
Dec. 24 – 1925
ERICH VON STROHEIM ».
« Ad uno dei più grandi artisti che il mondo abbia mai avuto ed anche mio ottimo amico, a Cesare Gravina, con profonda ammirazione
Dic. 24 – 1925
ERICH VON STROHEIM ».
— Bello! Una superba dedica. Ma voi, Gravina, non siete uomo da stare in riposo.
— Ma che! Mi sento l’impazienza della ripresa…
Fantástica fotografía de Dolores del Río y Cesare Gravina. ¡Qué bella era Dolores!
Gracias por el comentario!