L’arte scenica di Lyda Borelli

Lyda Borelli
Lyda Borelli

L’arte scenica di Lyda Borelli è tutta confusa nella sua linea estetica e nella sua floreale apparizione. E se parlare d’arte, quando si tratta di un’attrice, significa parlare della sua persona, io potrei dunque affermare di aver compendiata in pochi periodi la personalità di Lyda Borelli.

Tuttavia qualche accenno mi rimane, o per meglio dire qualche ricordo, sia della sua breve per ancora ma fortunata carriera di prima attrice, sia risalendo a pochi anni or sono e rincontrandola prima attrice giovane, giovanissima, centro di tutti gli occhi in una formidabile compagine di attrici e di attori, come una piccola stella bionda in un ampio orizzonte di luci, palpito semplice, tenue ma continuo fra le intermittenze delle costellazioni.

Non occorre sforzar la memoria perché la biondissima Trude dei Fuochi di S. Giovanni del Sudermann appaia con il suo viso impacciato di buona fanciulla borghese e perché la semplicetta ragazza malata della Medicina del Ferrari singhiozzi placidamente sulla lettera dell’innamorato. Notiamo questo anzitutto: che nessun abito modesto e goffo e nessun cencio toglieva mai la linea di Lyda Borelli, che, Cenerentola, forse mostrava sotto le vesti lacere il travestimento da principessa; carattere precipuo d’una maniera, sigillo riconoscibile che poche attrici posseggono, questa distinzione personale, questo portamento di eleganza che a nessuna l’eguaglia.

Il segnacolo fisico si riflette nella recitazione della Borelli e si ripercuote come un eco sonoro. La voce chiara, a volte noncurante, a volte birichina, non eccede mai nei due toni e prende nelle forme drammatiche una intonazione un po’ roca, deliziosa, quella che le donne esperte imitano volentieri nei trasporti della passione, ma che poche, pochissime possiedono naturalmente. Voce fresca e velata, penetrante e carezzevole, mai acuta, voce frenata da un interno lavorio critico: chi vuoi giudicare di un attore deve por mente alla modulazione della voce, come chi giudica d’uno schermitore guarda il modo come impugna la spada.

Dicono che ultimamente abbia vinta una bella battaglia in Salomè di Oscar Wilde: è facile crederlo se si ricorda che le precipue qualità della figliastra d’Erode devono precipuamente risaltare dalla estetica della persona e dalla modulazione della voce: il personaggio è freddo, perverso inconsciamente come se nel sangue si risvegliassero desideri e cupidigie d’una schiatta feroce e squisita: l’amore morboso per il Battista, amore che nasce dalla curiosità, si fa gigante, assurge a divampare di fiamma carnale, si tormenta nella impotenza e nella sterilità del suo istesso fervore, e finisce in una psicopatia crudele: questo amore verginale e sanguinario non poteva meglio che da una linea e da una tonalità risultare. Notate che occorre una concordanza fra la linea e la tonalità, concordanza leggera e perfetta. Se un’orchidea potesse essere bella, Salomè sarebbe un’orchidea.

E ditene ora la sensibile differenza che la stessa linea e la tonalità stessa assumono in Miquette e sua madre, la più che graziosa commedia della novella ditta De Flers e Caillavet. Miquette è una piccola spensierata sentimentale che fa un esperimento di lusso e preferisce poi quello d’amore. Miquette è la fanciulla che sa e non sa, come tante, che indovina ed ha paura di indovinare, che fa soffrire e soffre di far soffrire: non è la civetta, poiché la civetta è cosciente, è la farfalla instabile che teme, tenta e sfugge alla fiamma. Sopratutto è un fiore ed è una carezza : sorride e qualche volta nel sorriso fa presentire le lacrime, esperimenta e nell’esperimento si commuove delle ferite che apre.

Quel malinconico sorriso della fanciulla che presente il proprio sacrificio, irrora il volto di Miquette: eccola nel suo lussuoso abito, sotto il grande cappello, col viso reclinato assai e gli occhi birichini e supplichevoli: è tutta un’altra cosa della fanciulla onesta e pura di quindici anni or sono; è un disegno floreale, amalgama insidioso di peccato e di purezza, profumo acuto, fruscio di sete, sfoggio di eleganze; è la bella vanessa daccanto all’umile farfalla bianca dei prati. Eppure, portatemi di peso Lyda Borelli entro le vesti di una candida fanciulla del buon tempo antico: prendetemi una fanciulla classica, la Susanna del Mondo della noia del Pailleron. Oh le buone, le gaie, le immortali fanciulle del Pailleron! La giovinetta di diciott’anni con la sua espansiva tenerezza, la civetteria incosciente, la monelleria dell’età, la fresca fanciulla innocente che non fu mai turbata, che ha l’anima vergine, la fanciulla onesta ed allegra, esuberante di vita e di sentimento, la fanciulla del Pailleron insomma che fu la prima e grande vittoria di Tina di Lorenzo, è oggi quasi scomparsa. La rosa è innestata. Non si vede più che nei dagherrotipi: è un anacronismo. Oggi la fanciulla sa di essere un fiore e sa di non doverlo mostrare. Oggi dunque, se la scena è davvero la critica del mondo in cui viviamo, Susanna deve avere la linea estetica. Deve pensare: ammiratemi, se pur non lo deve dire. Ecco la differenza d’una maniera d’interpretare. E davvero Lyda Borelli è del nostro tempo, forse una delle più fedeli al tempo nostro. Il suo pianto è forse ancora ineguale al resto del suo possesso scenico: piange ancor poco per darne la comunicativa ma non dubitate, arriverà a darne tutta la gamma. Si scopre e si perfeziona lentamente andando all’unisono della sua bella linea: ha delle intonazioni già possenti di dolore, ha delle arditezze nello strazio. È insomma una volontaria ed una innamorata dell’arte sua, la conosce e la studia con passione, indovina, presagisce, intuisce, ma sotto la scuola del Talli ha imparato a rendersi ragione d’ogni atto e d’ogni inflessione.

Non la vedrete mai cedere all’impero del momento, né all’impeto d’un soggetto: non subisce il fascino della folla, non ne aspira l’ebbrezza per l’ammirazione o per la simpatia che le salta incontro: è forse un po’ fredda, ma cosi è necessario sia un’attrice riflessiva che voglia rendersi conto dei propri mezzi, che ne voglia disporre a proprio talento, che intenda valersene e che non ami subire delle disillusioni d’effetto.

Farà la Marissa del Ladro, l’americana della Sfumatura, l’amante del Germoglio, la Cipriana del Divorziarne, Zazà e forse la Figlia di Pilato: ma vi darà una diversa figura scenica, vi incornicerà la incognita protagonista in un quadro diverso, che attingerà sempre dalla linea della sua persona e dal tono della sua voce una originalità liberty.

È questa la maniera d’arte di una giovane attrice fortunata perché già possiede una propria maniera all’età in cui le altre tentavano e tentano ancora le dure vicende vitali di alzarsi per intima forza. È un suggello di natura od è una legge estetica? Non so. Ma è di pochi esseri privilegiati dal sangue il poggiar sugli altri uomini, e già maestri, e quando l’età li vorrebbe ancora discepoli: è proprio dei re di corona. Come è proprio di alcune belle fanciulle il poter pretendere al soglio, a somiglianza di Cenerentola. Giunge il Principe bello, vede la povera giovanetta e le porge la mano. Cosi giunge il pubblico suffragio, e riconosce nella giovanissima attrice una regina, l’acclama, ne subisce il fascino e ne accetta la forza persuasiva. Le belle donne nascono come i poeti, ma sono poeti muti troppo spesso. Non è dunque meglio quando da un palcoscenico mostrandosi soltanto, s’impongono, e parlando anche affascinano?

E’, dopo tutto, la favola d’Orfeo.
(Alessandro Varaldo, Fra viso e belletto – Riccardo Quintieri 1910)