La stanza segreta (1830)

La stanza segreta (1830) Collezione Archivio In Penombra
La stanza segreta (1830) Collezione Archivio In Penombra

Quando il vecchio Garrigou annunziò al marchese di Croixmazenc che sulla strada davanti al castello c’era un uomo ferito e chiese dove lo si doveva ricoverare, Croixmazenc, preso da una strana commozione, sorse in piede a gridare: “No, non voglio, non voglio!”

Inutili furono le rispettose istanze dei domestici; inutili le preghiere insistenti della piccola Margot. Il vecchio fu inflessibile: “Che fate voi qui?” urlò ai domestici, “Via tutti! E tu”, aggiunse, rivolgendosi alla nipote, “continua la tua lettura…”.

Accanto al focolare, dove le fiamme serpeggiavano e scoppiettavano, Margot fa la lettura allo zio. Ma se lo sguardo della fanciulla corre lungo le linee del libro, se le labbra pronunziano le parole scritte, il suo pensiero non è lì. Ella pensa com’è triste la sua vita nell’ampio castello e fra le alte mura che chiudono il giardino dello zio. Certo egli fu buono con lei, quando la raccolse orfana e sola nel mondo: ma è un’anima di sedici anni, che s’apre alla vita, non basta la quiete per un’esistenza, che scorra giorno per giorno sempre uguale senza scosse e senza urti. E come vivere sempre così accanto ad un vecchio maniaco, che pare non veda le cose esteriori, perché il suo pensiero è sempre rivolto dentro di sé a scrutare nel suo intimo? Come vivere serenamente accanto a quest’uomo che ha paure e timori e allarga la pupilla a guardare nell’ombra e sobbalza ad ogni piccolo rumore, come se un terribile segreto fosse chiuso nel suo cervello? Il non voler vedere anima viva, il diffidare di tutti, il vivere lontano dai propri simili non sarebbero indizii di un cuore, che il rimorso pungola continuamente? E se così fosse, perché il vecchio Croixmazenc spingerebbe la crudeltà fino a negar ricovero a un povero ferito?…

A questo punto dei suoi pensieri Margot alzo lo sguardo in faccia allo zio. Dorme. Margot ferma la voce e chiude il libro. Il vecchio continua a dormire. E la fanciulla allora piano piano s’alza in punta di piedi, s’avvicina all’uscio, oltrepassa la soglia, accosta i battenti e corre in tutta fretta in cerca del ferito.

Alcuni contadini lo hanno coricato sull’erba e gli tengono il capo sollevato.

È un giovane ufficiale degli ussari, bello certamente. Ma in questo momento il suo viso è contratto dallo spasimo e un filo di sangue, sgorgando dalla fronte, ferita, gli solca la guancia e il mento.

“Passava a gran carriera”, dice Garrigou. “Il cavallo è scivolato… Sono caduti ed egli è rimasto così in mezzo alla strada, senza movimento”.

“È grave?” balbetta Margot, tutta pallida e commossa.

“Non credo, ma perde molto sangue e se non l’aiutiamo… chi sà?…”

“Ma aiutarlo come? Non c’è nessuno qui, siamo soli come in un deserto, e lo zio non vuole, non vuole, avete sentito… Pure… ah!” fa Margot con forza “Portatelo al castello”. E gli occhi le scintillano come se un pensiero di salvezza le fosse balenato nel cervello.

Infatti Margot ha un’idea.

C’è nel castello, in fondo a un corridoio, un uscio sempre chiuso e oltre l’uscio una stanza, dove nessuno ha mai posto piede. Perché? Margot non sa: ma sa che la chiave della stanza segreta è nel mazzo che lo zio custodisce  gelosamente e porta sempre con sé.

E Margot pensa: Nessuno è entrato mai in quella stanza, nessuno entrerà mai. Se io posso  farvi portare il ferito, egli sarà là al sicuro e nessuno lo saprà… E potrò curarlo di nascosto, e quando sarà guarito… quando sarà guarito egli partirà senza che nessuno se ne accorga.

E pensa ancora: Ora lo zio dorme. Io vado da lui pian pianino, stacco la chiave dal mazzo e tutt’è fatto.

Così la piccola Margot contro il volere dello zio dette ricovero al capitano Guillois del terzo reggimento degli ussari del re.

Parecchi giorni dopo il Marchese di Croixmazenec passeggiava con insolita agitazione. Forse la voce, che da tanti anni lo rampognava nell’intimo, vibrava con maggior forza, forse il ricordo del passato era più amaro e lo stringeva alla gola con uno spasimo più acuto.

Perché l’esistenza del Marchese di Croixmazenc racchiudeva un terribile dramma. Vent’anni prima il Marchese aveva sorpreso la moglie Bianca Maria col suo amante il Visconte di Cassart, capitano del 3° reggimento degli ussari dell’imperatore e aveva fatto murar vivo il giovane ufficiale. Poi la moglie era morta e il Marchese era vissuto così, solo col suo rimorso per vent’anni! Appena aveva portato un po’ di sole attraverso quella esistenza tragica la compagnia della piccola Margot: ma ora più il tempo passava e più i giorni di Croixmazenc si facevano neri.  Il suo cervello s’indeboliva sempre più. Gli pareva talvolta che due fantasmi si levassero dall’ombra e piano piano gli si accostassero, gli pareva che strane voci risuonassero nel silenzio delle notti e che i muri del castello crollassero per dar passaggio ad uno scheletro bianco…

Allora Croixmazenc respirava a fatica. Le mani tremanti correvano a cercare nel mazzo la chiave della stanza segreta e, trovatala, serravano il ferro con strana energia, mentre le labbra borbottavano parole sconclusionate: “È chiuso!… È chiuso per sempre… non uscirà mai di là… mai più! mai più!…”. E l’eco delle ampie pareti ripeteva una risata stridula, che pareva il ridere d’un pazzo.

Quella notte il Marchese di Croixmazenc passeggiava con insolita agitazione. D’un tratto si affacciò alla finestra per ricevere sulla fronte il solito refrigerio di frescura. E mandò un grido strozzato. Quale lume si sprigionava dalla finestra  aperta contro di lui, lì, lì di fronte? Chi aveva accesso quella luce? Chi aveva penetrato nella stanza da vent’anni chiusa? Croixmanzec, barcollando, s’appoggiò al muro e le mani tremanti correvano a cercare la chiave preziosa… La chiave della stanza segreta non c’era più!

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Film scomparso, produzione Società Anonima Ambrosio 1910, presentato come il seguito di Spergiura! del 1909.

Storia della critica cinematografica dal 1910

La Cinematografia Italiana ed Estera
La Cinematografia Italiana ed Estera 1° settembre 1910

« La critica cinematografica esercitata finora non è giunta mai, mi pare, a superare lo stadio della comune recensione. Non ch’io me la prenda qua col genere recensione, ché anzi, per l’abbondanza, se non per il valore, dei periodici cinematografici che lo trattano, esso dimostra ancora, se ce ne fosse bisogno, l’interessamento grande non più volgare ma ormai culturale, per la nuova arte »
Cesare Pavese 1929

Le prime rubriche regolari di critica cinematografica sulla stampa cinematografica specializzata nascono intorno al 1910. Fra le prime riviste che inaugurano un servizio del genere figura La Cinematografia Italiana ed Estera, in cui, fin dal settembre del ’10, compare una rubrica di critica “obiettiva e imparziale” (sotto l’insegna di Aristarcheide), redatta dal direttore Gualtiero I. Fabbri, che trova presto grandi consensi e in cui si procede regolarmente alla disamina critica delle varie pellicole che entrano in programmazione.

Ecco cosa scrive la citata rivista il 1° settembre 1910, a proposito del Concorso Cinematografico Nazionale 1911 indetto da un comitato costituito in Roma presso l’Associazione Movimento Forestieri:

Ricordiamo il senso di pena che provammo alla vista di certe pellicole di tale Sezione, a Milano, nel Concorso che già fu di quella città: pellicole, che, purtroppo, ancor si strombettano da chi non ha letto né Tito Livio, né Tacito, né Plinio, né Svetonio, né Tucidide, né Senofonte, né Giuseppe Ebreo, né Erodoto, né Pausania, né… i capisaldi della storia insomma: pellicole così disgustosamente irte d’anacronismi in ogni cosa da far dubitare del proprio qualunque sapere e spingerci a dolorosamente chiedere a noi stessi: « Siamo onagri noi, o lo sono gli elucubratori di siffatte concezioni?… » E dire che furono premiate — e come! ; e dire che furono l’inizio di una caterva di altrettante aberrazioni, forse, e senza forse, peggiori; e dire… ma quante cose non si potrebbero dire al proposito!… invece preferiamo tacere mentre altri continui pure a turibolare, con l’incenso grave — aulente della lode smaccata, quello di cui, storicamente parlando, non sa verbo. Se non che ci sorride una speranza, in mezzo a tanto dubbio, per non dire sconforto; e la speranza è questa: che la Milano – Films, la quale, nelle sue future programmazioni, comprende in buon dato le pellicole storiche sia « maestra e donna » dell’« altissimo subbietto », sia l’Aristarco di sé stessa, ricorra, magari, per consiglio, a chi va per la maggiore, e curi soprattutto l’esattezza del momento storico, calcoli la realtà del bisogno storico, si rammenti il consiglio del Taine, di tradurre, cioè, il fantasma del proprio pensiero in corpo, senza ledere le leggi del bello, del buono, e del vero, e non metta in esecuzione un soggetto senza prima averlo studiato in ogni sua parte, e letto questo e quell’autore, che, talvolta, fanno a pugni fra loro vagliandoli come si deve, e secondo la loro attendibilità. Circa i costumi, l’architettura, le suppellettili, le faccie dei personaggi, il loro intero aspetto fisico, gli atteggiamenti, le mosse, gli accenti e tutto il resto, si ricordi il « provando e riprovando » di Galileo, sia esatta, anzi meticolosamente esatta, nei più salienti come nei minimi particolari; infine non faccia agire con troppa rapidità e scompostamente sì i minori come i massimi dei suoi esecutori.

Ai massimi imponga quella dignità che la storica esattezza fisico-morale e cormentale del personaggio richiede; faccia sì che anche nella tracotanza, nell’imperio, nell’ira, e nelle altre passioni siano umani, cioè veri; si ricordi di Talma, e prima ancora di Roscio, e di Kean, lei — la Milano-Films — che ha a propria disposizione il fior fiore degli artisti italici, e faccia in guisa che quei valenti comprendano che conviene sorpassare sé stessi, perché la Cinematografia — priva, come è, del valido sussidio della parola, o presso a poco — ha d’uopo, nella sua esplicazione, di maggiore arte del vero che non l’abbia la drammatica del palcoscenico.

Faccia sì ancora che i personaggi minimi non siano volgari, scomposti, truculenti, sbraculati, esagerati, convulsionari, o afflitti dal ballo di S. Vito, oppure stecchiti come se fossero di legno, od automaticamente burattineschi. Occorrendo capelli, baffi, barbe finte, queste non usi, ma faccia truccare come si deve i suoi attori da un provetto parrucchiere teatrale, che sa comporre, soprapponendo e unendo pelo a pelo, capello a capello, autentici, con la gomma, in maniera che si abbia un risultato del tutto simile al vero. Curi l’estetica e l’armonia del vestito: niente di più orribile — anche se esatti dal lato della moda del tempo — di certi stivalonacci e bragoncioni, di certe casaccaccie e giuberelloni dalle pieghe infinite, inarmoniche, antiestetiche; insomma ogni personaggio, dal primo all’ultimo, dovrebbe essere elegante, corretto, umano, vero, verissimo, in carattere cioè, scartando inesorabilmente chi non lo sia o non voglia esserlo. Questo e ben altro dovremmo consigliare, ma ci trattiene il fatto che la nostra potrebbe sembrare presunzione o almeno pedanteria. Non ci piacque mai fare il quam quam o il barbassore, e la prosopopea ci urtò in ogni tempo: ci piacque sempre, invece, l’arte, la verità e il buon senso, ed è in nome dell’arte, della verità, e del buon senso che noi diamo questi consigli all’unica Casa, la quale ci pare — sì per gli uomini che la capeggiano, sì per i mezzi di cui dispone, come per gl’intendimenti, nonché per il senso pratico — l’unica che possa, in Italia, fare delle vere riproduzioni storiche, senza cadere nel falso, nel manierato, e soprattutto nel grottesco.

E, tornando a bomba, cioè al Comitato che presiederà al futuro Concorso Nazionale, è da augurarsi che scarti inesorabilmente — come appunto si fa nelle Esposizioni artistiche — quanto non corrisponda all’arte pura e nobile (arte cioè essenzialmente), e glie ne verrà data non poca lode.»

Gualtiero I. Fabbri (La Cinematografia Italiana ed Estera, 1° settembre 1910)

L’arte scenica di Lyda Borelli

Lyda Borelli
Lyda Borelli

L’arte scenica di Lyda Borelli è tutta confusa nella sua linea estetica e nella sua floreale apparizione. E se parlare d’arte, quando si tratta di un’attrice, significa parlare della sua persona, io potrei dunque affermare di aver compendiata in pochi periodi la personalità di Lyda Borelli.

Tuttavia qualche accenno mi rimane, o per meglio dire qualche ricordo, sia della sua breve per ancora ma fortunata carriera di prima attrice, sia risalendo a pochi anni or sono e rincontrandola prima attrice giovane, giovanissima, centro di tutti gli occhi in una formidabile compagine di attrici e di attori, come una piccola stella bionda in un ampio orizzonte di luci, palpito semplice, tenue ma continuo fra le intermittenze delle costellazioni.

Non occorre sforzar la memoria perché la biondissima Trude dei Fuochi di S. Giovanni del Sudermann appaia con il suo viso impacciato di buona fanciulla borghese e perché la semplicetta ragazza malata della Medicina del Ferrari singhiozzi placidamente sulla lettera dell’innamorato. Notiamo questo anzitutto: che nessun abito modesto e goffo e nessun cencio toglieva mai la linea di Lyda Borelli, che, Cenerentola, forse mostrava sotto le vesti lacere il travestimento da principessa; carattere precipuo d’una maniera, sigillo riconoscibile che poche attrici posseggono, questa distinzione personale, questo portamento di eleganza che a nessuna l’eguaglia.

Il segnacolo fisico si riflette nella recitazione della Borelli e si ripercuote come un eco sonoro. La voce chiara, a volte noncurante, a volte birichina, non eccede mai nei due toni e prende nelle forme drammatiche una intonazione un po’ roca, deliziosa, quella che le donne esperte imitano volentieri nei trasporti della passione, ma che poche, pochissime possiedono naturalmente. Voce fresca e velata, penetrante e carezzevole, mai acuta, voce frenata da un interno lavorio critico: chi vuoi giudicare di un attore deve por mente alla modulazione della voce, come chi giudica d’uno schermitore guarda il modo come impugna la spada.

Dicono che ultimamente abbia vinta una bella battaglia in Salomè di Oscar Wilde: è facile crederlo se si ricorda che le precipue qualità della figliastra d’Erode devono precipuamente risaltare dalla estetica della persona e dalla modulazione della voce: il personaggio è freddo, perverso inconsciamente come se nel sangue si risvegliassero desideri e cupidigie d’una schiatta feroce e squisita: l’amore morboso per il Battista, amore che nasce dalla curiosità, si fa gigante, assurge a divampare di fiamma carnale, si tormenta nella impotenza e nella sterilità del suo istesso fervore, e finisce in una psicopatia crudele: questo amore verginale e sanguinario non poteva meglio che da una linea e da una tonalità risultare. Notate che occorre una concordanza fra la linea e la tonalità, concordanza leggera e perfetta. Se un’orchidea potesse essere bella, Salomè sarebbe un’orchidea.

E ditene ora la sensibile differenza che la stessa linea e la tonalità stessa assumono in Miquette e sua madre, la più che graziosa commedia della novella ditta De Flers e Caillavet. Miquette è una piccola spensierata sentimentale che fa un esperimento di lusso e preferisce poi quello d’amore. Miquette è la fanciulla che sa e non sa, come tante, che indovina ed ha paura di indovinare, che fa soffrire e soffre di far soffrire: non è la civetta, poiché la civetta è cosciente, è la farfalla instabile che teme, tenta e sfugge alla fiamma. Sopratutto è un fiore ed è una carezza : sorride e qualche volta nel sorriso fa presentire le lacrime, esperimenta e nell’esperimento si commuove delle ferite che apre.

Quel malinconico sorriso della fanciulla che presente il proprio sacrificio, irrora il volto di Miquette: eccola nel suo lussuoso abito, sotto il grande cappello, col viso reclinato assai e gli occhi birichini e supplichevoli: è tutta un’altra cosa della fanciulla onesta e pura di quindici anni or sono; è un disegno floreale, amalgama insidioso di peccato e di purezza, profumo acuto, fruscio di sete, sfoggio di eleganze; è la bella vanessa daccanto all’umile farfalla bianca dei prati. Eppure, portatemi di peso Lyda Borelli entro le vesti di una candida fanciulla del buon tempo antico: prendetemi una fanciulla classica, la Susanna del Mondo della noia del Pailleron. Oh le buone, le gaie, le immortali fanciulle del Pailleron! La giovinetta di diciott’anni con la sua espansiva tenerezza, la civetteria incosciente, la monelleria dell’età, la fresca fanciulla innocente che non fu mai turbata, che ha l’anima vergine, la fanciulla onesta ed allegra, esuberante di vita e di sentimento, la fanciulla del Pailleron insomma che fu la prima e grande vittoria di Tina di Lorenzo, è oggi quasi scomparsa. La rosa è innestata. Non si vede più che nei dagherrotipi: è un anacronismo. Oggi la fanciulla sa di essere un fiore e sa di non doverlo mostrare. Oggi dunque, se la scena è davvero la critica del mondo in cui viviamo, Susanna deve avere la linea estetica. Deve pensare: ammiratemi, se pur non lo deve dire. Ecco la differenza d’una maniera d’interpretare. E davvero Lyda Borelli è del nostro tempo, forse una delle più fedeli al tempo nostro. Il suo pianto è forse ancora ineguale al resto del suo possesso scenico: piange ancor poco per darne la comunicativa ma non dubitate, arriverà a darne tutta la gamma. Si scopre e si perfeziona lentamente andando all’unisono della sua bella linea: ha delle intonazioni già possenti di dolore, ha delle arditezze nello strazio. È insomma una volontaria ed una innamorata dell’arte sua, la conosce e la studia con passione, indovina, presagisce, intuisce, ma sotto la scuola del Talli ha imparato a rendersi ragione d’ogni atto e d’ogni inflessione.

Non la vedrete mai cedere all’impero del momento, né all’impeto d’un soggetto: non subisce il fascino della folla, non ne aspira l’ebbrezza per l’ammirazione o per la simpatia che le salta incontro: è forse un po’ fredda, ma cosi è necessario sia un’attrice riflessiva che voglia rendersi conto dei propri mezzi, che ne voglia disporre a proprio talento, che intenda valersene e che non ami subire delle disillusioni d’effetto.

Farà la Marissa del Ladro, l’americana della Sfumatura, l’amante del Germoglio, la Cipriana del Divorziarne, Zazà e forse la Figlia di Pilato: ma vi darà una diversa figura scenica, vi incornicerà la incognita protagonista in un quadro diverso, che attingerà sempre dalla linea della sua persona e dal tono della sua voce una originalità liberty.

È questa la maniera d’arte di una giovane attrice fortunata perché già possiede una propria maniera all’età in cui le altre tentavano e tentano ancora le dure vicende vitali di alzarsi per intima forza. È un suggello di natura od è una legge estetica? Non so. Ma è di pochi esseri privilegiati dal sangue il poggiar sugli altri uomini, e già maestri, e quando l’età li vorrebbe ancora discepoli: è proprio dei re di corona. Come è proprio di alcune belle fanciulle il poter pretendere al soglio, a somiglianza di Cenerentola. Giunge il Principe bello, vede la povera giovanetta e le porge la mano. Cosi giunge il pubblico suffragio, e riconosce nella giovanissima attrice una regina, l’acclama, ne subisce il fascino e ne accetta la forza persuasiva. Le belle donne nascono come i poeti, ma sono poeti muti troppo spesso. Non è dunque meglio quando da un palcoscenico mostrandosi soltanto, s’impongono, e parlando anche affascinano?

E’, dopo tutto, la favola d’Orfeo.
(Alessandro Varaldo, Fra viso e belletto – Riccardo Quintieri 1910)