
L’ultimo Film di Francesca Bertini
La Giovinezza del Diavolo, di Riccardo Artuffo e Gabriellino d’Annunzio.
Francesca Berlini, la indimenticabile regina dell’arte del silenzio, pur avendo ormai abbandonato il cinematografo da un paio d’anni, è ancora così viva nella memoria del pubblico un solo d’Italia ma di tutto il mondo, che basta il suo nome per determinare, anche adesso, un interessamento enorme ed un’ondata travolgente di entusiasmo.
Ora in questo film « La giovinezza del diavolo », si direbbe che la celebre attrice abbia voluto superare se stessa, dandoci un saggio delle sue doti migliori, come per lasciare più largo e profondo rimpianto di sè.
Ma si deve subito riconoscere che, se ella ha dato qui il suo capolavoro interpretativo, una metà del merito spetta al soggetto ed alla messa in scena.
Non abbiamo qui la solita banale serie d’avventure assurde e nemmeno l’eterno romanzetto di amore lacrimoso, bensì una trama originalissima, imperniata sopra uno spunto bizzarro ed audace e svolto con sicura ampiezza.
Nè la cosa deve meravigliare se si pensa che l’autore della « Giovinezza del diavolo » è uno scrittore, ben noto nel campo del giornalismo e del teatro, Riccardo Artuffo.
La stessa cosa si deve dire della direzione artistica, affidata a Gabriellino d’Annunzio, a cui scende « per li rami » una tradizione gloriosa di gusto raffinato.
Impossibile esporre brevemente la « ficelle » nei suoi sviluppi impreveduti, ricca di sostanza drammatica e di « humour ». Accennerò solo alla linea principale.
Nel suo castello la Duchessa trascorre in pace la sua serena vecchiezza (è la Bertini: e bisogna vedere quale deliziosa vecchietta appaia la celebre attrice in parrucca bianca).
Ma ecco giungere un vecchio amico della Duchessa, il quale le parla tristemente della sorte del proprio nipote, Uberto, che si perde in un amore non degno per una contessa cattiva e viziosa.
L’unico rimedio per salvarlo sarebbe un altro amore alto e bello, suscitato in lui da una creatura d’eccezione bella e buona, come foste voi…
— Già, quarant’anni fa — lo interrompe ridendo la Duchessa.
E il vecchio amico si allontana. Ma un ricordo improvviso è balenato nel cervello della dama: ed è qui che l’elemento fantastico s’inserisce nella storia di passione moderna.
Appunto quarant’anni fa, allorché ella era sfolgorante di bellezza, la Duchessa ebbe occasione di salvare uno strano personaggio che viveva misteriosamente in un campanile e contro il quale si era slanciata la folla. Ora l’enigmatico messère era un diavolo, un buon vecchio diavolo, il quale — per ricompensare la Duchessa del suo pietoso intervento — le ha assicurato che, quando ella vorrà, egli potrà farla per breve tempo ringiovanire.
La Duchessa non vi ha mai più pensato; ma ora le circostanze le richiamano alla memoria l’episodio ed ella traccia il segno cabalistico che il diavolo le ha insegnato e che deve servire di richiamo… Ed ecco il diavolo riappare…
E l’indomani una misteriosa, meravigliosa dama compare nei saloni della capitale: è lei, la vecchia Duchessa, che ha ottenuto qualche mese di giovinezza.
Ed ecco ella si accinge a strappare Uberto dalla dominazione della maliarda contessa. Infatti Uberto non può non subire il fascino della magnifica dama che ha assunto il nome sintomatico di Fausta e si innamora di lei. Ma la contessa trama la vendetta e scaglia contro l’berto un impulsivo e violento spagnolo che ucciderebbe il giovane senza l’intervento di Fausta che, per salvarlo, sacrifica il suo onore.
Ma intanto anch’ella si è presa nel suo gioco e si accorge di amare il giovane. E i giorni passano inesorabili e sta per scadere la giovinezza effimera che le è stata concessa. Il vecchio diavolo va per ricordarle la terribile scadenza. Uberto, geloso, sospettando in lui un rivale, si avventa e lo uccide… cioè crede di averlo ucciso, perché non sa che i buoni vecchi diavoli sono immortali…
Proprio quella sera Fausta attende Uberto per dargli una notte, almeno una notte d’amore. Ma egli, inorridito per il delitto che crede di aver commesso, va a denunciarsi ed è arrestato… mentre Fausta lo attende spasimando e sa che, fra poche ore, la sua giovinezza sarà finita, finita per sempre.
Col fascino della sua bellezza, ella riesce a strappare il giovane dalla prigione come già l’ha salvato dal vizio e dalla morte; ma quando Uberto si precipita per cogliere sulla bocca adorata il primo bacio d’amore… ecco, rintocca l’ora fatale.
La giovinezza è finita. La bellissima Fausta scompare, si dissolve nella vecchia Duchessa bianca, il cui viso rugoso appare rigato di una lacrima.
Una lacrima: ecco il succo spremuto dalla giovinezza e dalla vita…
Ma è impossibile dire così in poche righe la bellezza di questo film che è veramente « eccezionale », non per faticosa ricostruzione di ambiente o pregi esteriori, bensì per il senso di poesia che tutto lo pervade e che ne fa un’opera, d’arte « vera ».
Dell’interpretazione della Berlini abbiamo detto. Gli altri interpreti sono eccellenti, specialmente Uberto e il Van Riel pieno di efficacia nei panni del « buon vecchio diavolo ».
Questo film, che può considerarsi il « Canto del cigno » di Francesca Berlini, prima che l’attrice famosa e valente cedesse il campo alla moglie felice, torna a grande onore non solo della indimenticabile artista e dell’originalissimo autore Riccardo Artuffo e del meraviglioso direttore artistico Gabriellino D’Annunzio, ma anche dell’U.C.I. che ha composto con la « Giovinezza del diavolo » un vero gioiello, di quelli che anche adesso ci possono essere invidiati da tutte le Case produttrici estere e tengono alto il nome dell’arte italiana nel mondo.
ARGO (al cinemà, 23 dicembre 1923)

La leggenda del taumaturgo di Francoforte uscita dalla penna di un anonimo nel secolo XVII non è stata solo una superba fantasia ma pure un’opera d’arte che si è ramificata fra le altre consorelle diffondendo un calore di vita, di ricerca e di creazione nuovi. Così il Widman tracciò un complicato romanzo seguito da Massimiliano Klingen e da Grabbe che ne fece un parallelo amatorio col Don Juan, il Marlowe un’opera teatrale di carattere popolare e marionettistico, il pittore Muller una pièce bizzarra mentre il Goethe si elevava di mille cubiti con un ansito possente di lirismo col suo poema, preceduto dal Lessing che lo elesse a eroe di un dramma, seguito dal Lenau con scene drammatiche di effetto. E il Gounod musicò da par suo i versi di Carré e Jules Barbier, Berlioz ne allargò il campo etico colla Dannazione e Boito raccolse in versi e in note di alta significazione i problemi psichici filosofici e sentimentali del grande alchimista e stregone. Anche la pittura fu attratta dal suggestivo tema e Pierre de Cornelius e Delacroix per non citare altri, espressero in figurazioni salde e composte la magica vicenda.
Ma non doveva finire qui l’attrattiva e la suggestione del dramma del vecchione di Francoforte, ringiovanito per virtù diabolica. Il collega Riccardo Artuffo ha voluto trarre l’ispirazione o meglio lo spunto e comporre una vasta allegoria drammatica che se ha qualche desinenza col Faust e di una schietta originalità e di uno spiccato e personale carattere. Non è il vecchio studioso di cosmogonia e delle scienze astratte, il compulsatore di polverose pergamene, ignorante del mondo che palpita e vive attorno a lui, ma una donna che ha vissuto, ha amato, ha brillato, che con un desiderio nuovo e intenso anela un festoso ritorno. E il « diavolo » che, in antichi tempi, perseguitato dagli esorcismi, aveva avuto aiuto dalla dolce fanciulla le concede un mese di gioventù, un effimero ritorno che avrà una tragica, amara, dolorosa conseguenza: l’innamoramento della giovane-vecchia per uno scapestrato da lei richiamato alla purezza dell’amore. E l’attimo di gioia negato e poi accolto come balsamo, conforto e speranza sta per scoccare, ma l’ora fatale involge e mentre l’amante sta per raggiungere la meta, i capelli s’ingigliano, le membra si rilassano e la vecchiaia arida, cupa rientra nel suo possesso schiantando quel rudere « dal cuore ancor giovane ».
Ho parlato di attinenze col dramma faustiano. Ma queste non sono che nelle intenzioni e in alcune formalità esteriori e più specialmente nella composizione dei caratteri ma l’invenzione e la trattazione segue linee proprie, inoltrandosi in una temperatura psichica originalmente genuina e fervida. Frugare l’anima dei personaggi, analizzarne i sentimenti, le aspirazioni e le tendenze primordiali è stato il compito maggiore dell’autore prima ancora di curare il contorno — che in cinematografia ha sempre una parte preponderante — e il tono pittorico, soffermandosi più specialmente su certi stati d’animo eccezionali come più propensi ad aprire orizzonti nuovi e ad appagare le nostre ricerche etiche. Ma, dobbiamo confessarlo, non sono mancati fascinosi momenti pittorici, volutamente lacerati da soffi d’ardenza spirituale elle lasciano una rossa scia di passione, di mobilità fisiologica, da ritmi decisi e netti di colore e di disegno, di vibrazioni musicali, se tale si può chiamare una estesa armonia di parli figurative e impressioni locative.
L’autore, sagace ed esperto, non ha ceduto ai suggerimenti di opere maggiori ma ha piegato il suo pensiero alla visione primordiale foggiandola con elementi che gli venivano spontanei dal suo fervore creativo; da ciò un respiro ampio di sentimentalismo che irrobustisce la concezione, un movimento di personaggi e di masse corretto ed equilibrato, espressioni e manifestazioni intonate ed elaborale, organicità perfetta nella fantastica libertà.
Danno pregio all’originale produzione le scenografie di Alfredo Manzi che hanno un ottimo risalto grazie all’abilità dei fotografi Alberto Conti e Otello Martelli, mentre gli attori, dalla Francesca Bertini, sempre nobilmente virtuosa, a Ettore Piergiovanni, a Lydianne, Maud du Mestay, Raimondo van Riel, Achille Vitti, Ignazio Bracci e Gino Viotti hanno sostenuto egregiamente gli importanti ruoli.
Direttore artistico è stato Gabriellino D’Annunzio. C’est Tout.
(dalla brochure pubblicitario del film 1922)
Nota: secondo il volume Il cinema muto Italiano 1922-1923, Vittorio Martinelli (Biblioteca di Bianco e Nero- Centro Sperimentale di Cinematografia 1996), la messa in scena sarebbe di Roberto Leone Roberti (Vincenzo Leone), e non sarebbe uscito che nel 1925 (visto di censura 30 giugno 1922), mentre nello stesso volume compare due recensioni del 1924.