
La carriera dei delitti al cinematografo prosegue imperterrita nel 1911, in mezzo alle comiche, i film storici, i drammi, L’Odissea, La caduta di Troia, e l’Inferno di Dante.
Il primo titolo dell’annata dovrebbe essere questo soggetto surrealista di autore ignoto, prodotto dell’Aquila Film di Torino:
Entusiasta per la Mano Nera
«Due tipi incontrano un giovane al quale estorcono del denaro. Questi crede di essere stato vittima di una donna, che invece è un manichino. L’assale per farsi ridare i soldi, ma poiché questa non reagisce, l’uccide.»
(Herbert Birett: Das Filmangebot in Deutschland 1895-1911, Filmbuchverlag Winterberg, 1991)(1)
Le domande non mancano: Si può uccidere un manichino? Si finisce in galera per un delitto simile? Dov’è la Mano Nera in questa storia?
Molto interessante, moderno e fantascientifico il soggetto di Dovere professionale, produzione Cines, autore, regista, interpreti sconosciuti:
« Carlo, figlio del professar Aubin, si rovina per i capricci e le prodigalità della sua amante Dilj; egli precipita dal gioco nel delitto, assassinando un amico che gli ha vinto una forte somma. Le ricerche dell’assassino sono difficili, tanto che le Autorità incaricano il prof. Aubin, padre di Carlo, di eseguire un esame microscopico dell’occhio della vittima per rintracciarvi, possibilmente, l’immagine dell’assassino, secondo i principi di una ben nota teoria scientifica. Il terrore e la disperazione del professore sono al colmo: egli ha visto l’immagine di suo figlio nella retina della vittima. Fedele al suo dovere professionale e malgrado il disperato dolore, denuncia il figlio alla giustizia, ma mentre questo accade, Carlo straziato dal dolore, va a consegnarsi egli stesso al Commissario di polizia. »(Cinema, 5 febbraio 1911)
Lo stesso mese di febbraio, grande ritorno dell’Ambrosio con Il domino azzurro, racconto morale per commesse birichine, interpreti Giuseppe e Lina Gray, Gigetta Morano, Mario Voller Buzzi, operatore Giovanni Vitrotti:
« E’ carnevale. La padrona chiama Mimì, le consegna lo scatolone in cui ha chiuso il bel domino azzurro e le ordina di portarlo a casa della signora Mathieu, la moglie di un banchiere. Mimì è di pessimo umore, è l’ora di chiusura del negozio e il suo Luciano, uno studente, l’aspetta all’angolo della via per trascorrere con lei la serata: e lei deve invece perdere un’ora per quella consegna. Poi incontra Luciano e decide di fare assieme a lui la commissione. La signora Mathieu intanto aveva combinato di andare al veglione con l’amante, in assenza del marito: ma, sospettando che quest’ultimo, uomo molto geloso e violento, sia tornato di nascosto, si impaurisce e avverte l’amante che rinuncia a uscire. Rimanda dunque indietro il domino. Così Mimi si ritrova di nuovo con Luciano e con lo scatolone da riportare al negozio: ma è già chiuso. I due innamorati hanno allora un’idea: Mimì indosserà il domino e andrà lei stessa con Luciano al ballo mascherato. E così avviene. Ma il marito tradito, che – messo sull’avviso da un biglietto – aveva seguito di nascosto la
moglie quando era andata al negozio a scegliersi il domino, interviene a sua volta al ballo e attende l’ora della vendetta: quando, fra le maschere, vede comparire il domino azzurro, credendo che vi si celi la moglie colpevole, estrae una rivoltella e spara. La povera Mimi stramazza a terra, ferita a morte. » (La Vita Cinematografica, 15 febbraio 1911)
Del soggetto Nella camorra, produzione Ambrosio interpretata dalla consolidata coppia Capozzi-Tarlarini, accompagnati da Luigi Maggi e Oreste Grandi, non sappiamo l’autore, ma l’argomento ricorda altra produzione Ambrosio di qualche anno prima:
« Sciancatello odia a morte Cicce O’ Guaglione, forse perché è un pezzo d’uomo alto e tarchiato, forse perché è un camorrista famoso: certo perché si beffa di lui quando lo intoppa a basso porto o all’angolo della strada. Però appena s’accorge che O’ Guaglione se l’intende colla Nunzia, la moglie di Pasquale, corre in piazza e senza tanti preamboli dà a Pasquale la… buona novella. Pasquale urla a strepito, non vuol crederne un accidente; ma finisce di chiudere in core il sospetto e l’amarezza. Passa qualche tempo e un mattino Sciancatello è trovato morto nella strada, con un coltello piantato nelle reni. La giustizia per certi suoi sospetti arresta O’ Guaglione e te lo caccia dentro. Pasquale respira. Gli pare che l’incubo svanisca a poco a poco e che piano piano s’allenti la stretta della gola. Ma è breve respiro il suo. Una lettera che O’ Guaglione scrive dal carcere a Nunzia, lo ricaccia a terra. Dice la lettera: “Vieni a notte fonda e canta Marechiaro. Poi guarda se una funicella scende abbasso. E attaccaci un buon coltello…” A notte fonda una voce s’alza di sotto le mura del carcere, una voce melodiosa e calda che dice dolcemente le note della canzone; ma d’un tratto la melodia si cambia in un urlo di spavento, poi in un rantolo di morte. La pattuglia di guardia accorre ed arresta Pasquale, che ha accoltellato la Nunzia.
Così i due rivali si rivedono nel carcere. Ed è il loro un incontro tragico. Un breve insulto, una lotta feroce. E O’ Guaglione rimane disteso a terra, contorcendosi e lamentandosi. Pasquale si rialza e gli grida: “Quattro dita di lama nel fianco fra la terza e la quarta costola, anche a te, come a lei, com’a Nunzia!”.» (Cinema, 5 marzo 1911)
Il film viene accolto malissimo dalla stampa: “Purtroppo al di là delle Alpi l’eco delle nostre cronache cittadine ha una ripercussione dolorosa; perché a tanto voler aggiungere la prova quasi lampante e materiale del come avvengono presso da noi i delitti, e quali le cause che generano gli stessi nella bassa classe del popolo? Camorra è, dunque, una pellicola destinata… al cestino, e ciò mi dispiace dirlo, per la casa Ambrosio che tanto ha fatto per la riuscita della film che, come dissi al principio, artisticamente vale… e molto” (La Vita Cinematografica, 15 marzo 1911)
Ma Don Arturo (Ambrosio) non è così convinto di dover buttare al cestino questo tipo di argomenti molto produttivi al botteghino, e insiste con Dalla colpa all’amore (Scene della mala vita), soggetto di Arrigo Frusta, operatore Giovanni Vitrotti:
« ‘O Mandriere ha pensato: – Ecco il piano. Ti prendo ‘a Concetta e te la vesto come una principessa, A Napoli non ci stanno donne più belle. E’ bella come il sole, come la Madonna! Poi te la caccio sulla strada del banchiere, e su e giù, e giù e su, se il banchiere non ci casca, ch’io possa morire ammazzato! Quando il giovinotto e Concetta se l’intenderanno al resto ci penso io…
‘O Mandriere ha fatto bene i suoi calcoli. Ora la Concetta è l’amante del Castoldi, il richissimo banchiere di Piazza Nova, e ne conosce tutti i segreti e tutti gli interessi. I colpo è semplice e ardito. Il Castoldi usa portare lui stesso le somme per le operazioni che fa la sua banca. Che ci vuol molto ad aspettare un uomo nell’ombra di una cantonata, piantargli quattro dita di ferro in core, toglierli il pacco dei quattrini e far vela per ignoti lidi?
Ma Concetta, la spia, che accompagna il giovane banchiere, come si avvicina allo svolto dov’è stato concertato l’agguato, sente qualcosa che le urla dentro: No! No! No! Pare che una mano le apra a forza le labbra, e che una volontà superiore le cacci fuori le parole affannose: No, basta, ti vogliono assalire…
Castoldi afferra la rivoltella e quattro figuri spariscono nell’ombra. Che forza ha fatto parlare Concetta? L’amore! E l’amore l’ha redenta.
Il giorno dopo Concetta viene trovata irrigidita, inzuppata di sangue, ai piedi di un fanale, con quattro dita di ferro piantato in core.
Forse la coltellata destinata al banchiere Castoldi.» (La Vita Cinematografica, 30 aprile 1911)
Il saggio Ernesto Maria Pasquali, che ha lanciato con successo la serie Raffles, gentiluomo ladro, tanto per dimostrare che i delitti non hanno patria ci propone I delitti americani:
« Hubert, dopo 25 anni passati a far fortuna in America, ritorna in patria per riabbracciare la figlia, che lasciò in tenerissima età. Sbarcato a Le Havre, si dirige verso Bordeaux: ma mentre in una stazione attende l’arrivo del treno, è individuato da un truffatore, che lo avvicina e gli fa raccontare la sua storia; con un pretesto l’uomo guida Hubert a visitare le bellezze dei luoghi e lo fa cadere in un precipizio, dopo avergli sottratto il portafoglio e i bagagli. Può cosi presentarsi a casa della figlia facendosi passare per il padre. Ma il delitto ha avuto un testimone, che a sua volta intende approfittare della situazione, ricattando l’impostore. I due malfattori trionferebbero dell’inesperta giovinetta, se non intervenisse a difenderla il fidanzato, che, giocando d’astuzia, sventa i loro piani per impadronirsi delle sostanze della ragazza e li consegna alla giustizia. »(Arte y Cinematografia, Madrid (sic. Barcellona), n. 17, 30 mayo 1911) (1)
Un momento. C’è qualcosa che non va. Il titolo dovrebbe essere: I delitti francesi. Cosa c’entrano gli americani?
L’argomento di Odio di gitana, prodotto dalla Milano Films, sulla carta, mi sembra troppo convenzionale:
« Un gitano ha installato la propria carovana davanti al ricco castello del conte d’Auriaz, nelle cui terre va abusivamente a caccia. Un giorno però viene sorpreso dal conte, il quale, indifferente alle preghiere della moglie dello zingaro, lo fa arrestare e condannare alla prigione. Gina, la gitana, giura però di vendicarsi e, senza perdere tempo, si dirige verso la città, dove trova occupazione come modella. Grazie a questa sua nuova occupazione, un giorno viene presentata al conte, il quale, non avendola riconosciuta, s’innamora perdutamente di lei e per lei si rovina. Un giorno, scoraggiato, porta un ennesimo regalo alla modella, una superba collana di perle: la modella però sembra prendersi gioco di lui e del prezioso dono. Mentre il conte se ne va, si presenta da Gina il figlio di lui, che, ammaliato a sua volta dal suo fascino, le offre dei fiori: la donna li accetta, perché il giovane visconte deve essere lo strumento della sua vendetta. Un’idea diabolica infatti la ispira: approfittando delle dimostrazioni d’amore del giovanotto, gli introduce in tasca la collana avuta in dono. E appena il visconte la lascia, avvisa il commissariato di polizia di essere stata derubata dal visconte, sollecitando indagini. Il visconte viene arrestato, mentre il conte, credendo il figlio colpevole, si uccide. «La modella, rivestitasi dei suoi abiti di gitana, assiste all’arresto, gustando odiosamente la vendetta che fu completa».» (La Vita Cinematografica, 30 maggio – 5 giugno 1911)
Completa? La scena finale sarebbe questa: Il visconte va in galera, quindi il marito della gitana e lui s’incontrano. Che fanno? Giocano a carte?
Per l’ambizione di una donna, produzione Cines, giugno 1911, che dovrebbe cambiare titolo in Vittima del successo:
«Il poeta Avani, all’inizio della sua carriera artistica, è avversato nei primi lavori d’arte dal re della critica teatrale Guglielmo Berti: i suoi primi slanci cadono miseramente dinanzi agli articoli del critico. La signora Avani, ambiziosa di essere ossequiata moglie di un grande autore, cerca di agevolare la pericolosa salita al marito; ella, incosciente della propria leggerezza, nell’assenza del marito va a trovare Berti nella sua casa, mentre trovasi in convalescenza per una ferita riportata nel duello col di lei marito. Il fascino, la seduzione della donna vincono l’anima del critico; egli si offre schiavo del desiderio e della volontà di Emma e con nuovi articoli prepara un nuovo radioso avvenire al poeta. In questo lavoro di preparazione Emma cade inconsciamente nell’amore di Berti e compra a prezzo del suo onore la gloria del marito. Il marito torna a Roma e va in scena una sua tragedia, che grazie all’aiuto di Berti ha una felicissima riuscita; ma un biglietto di Emma sorpreso da Avani rivela il valore di quella vittoria. Avani dietro le quinte (mentre gli attori recitano il suo lavoro) aggredisce Berti, che si difende. Interviene Emma e Avani l’uccide. Quando il pubblico chiama l’autore i comici si trovano avanti a quella scena d’orrore. » (Cinema, 5 giugno 1911)
Molto diverso è il personaggio della protagonista femminile di La tigre, produzione Ambrosio, ancora Tarlarini-Capozzi, Gigetta Morano che interpreta la vittima innocente, messa in scena di Luigi Maggi:
«Come Nerina, l’Altera, l’Adamantina, la Vergine forte, apprende il matrimonio dell’amica Beatrice con l’irresistibile Sandri, le pare che una lama di pugnale le squarci il cuore. Tale è lo spasimo che la vita s’oscura e i polsi rallentano il ritmo. Ma a poco a poco lo spirito indomito riprende il sopravvento e Nerina con calma e freddezza studia il suo piano: riconquistare l’amore di Sandri, portare via con arte sottile il fidanzato all’amica. Il fingere non le costerà molto. Nerina è maestra in quest’arte. Un invito per le nozze giunge in buon punto per facilitarle il principio dell’impresa. Cosi, ospite nel castello di Beatrice, Nerina può avere un colloquio con Sandri. Ma il giovane respinge con sdegno le parole e le profferte. Nerina è vinta. La ferita nell’intimo si è riaperta e l’irreparabile la fa soffrire più crudamente. Nel suo pensiero s’afferma l’idea del delitto. Come il felino si nasconde tra le alte erbe della giungla ed attende le ombre per azzannare e ferire, Nerina esce cautamente la notte dalla sua camera. Striscia pei corridoi, dove la fiammella saltellante della candela getta strani grovigli di lume e d’ombra, giunge nella camera di Beatrice, reprime il battere del sangue nelle vene, ascolta il respirare tranquillo della dormente e con pensiero risoluto accosta la fiammella della candela alle cortine. Dopo un po’ le fiamme divampano altissime. Ogni soccorso è impossibile. E, sicura nel suo covo, la tigre gode l’impunità.
Dopo un anno Nerina sposa l’irresistibile Sandri. Dalle corbeille di nozze prende un mazzo di rose e col marito va a deporlo sulla tomba dell’amica morta. La tigre insaziata ha voluto dare l’ultima zannata. » (Bollettino Ambrosio)(1)
Manca un finale tipo Carrie di Brian de Palma e siamo a posto.
Facciamo una pausa per ascoltare, in questo caso per leggere nel prossimo post l’eco delle proteste dei difensori della morale.
Alla prossima!
1. Aldo Bernardini, Vittorio Martinelli, Il cinema muto Italiano 1911 – I film degli anni d’oro; Biblioteca di Bianco e Nero – Centro Sperimentale di Cinematografia 1996.