
Negli ambienti cinematografici italiani circola la voce che le principali Case straniere di produzione, specialmente americane, intendano impiantare le loro succursali in Italia, per sfruttare direttamente i loro films, senza più passare sotto le forche caudine dei monopolizzatori e dei noleggiatori locali. Qualcuna di queste Case sembra che abbia già organizzato gli uffici e che non aspetti se non la stagione propizia per iniziare il proprio lavoro; altre, invece, sembra che stiano formando importanti combinazioni con Case italiane; e le une e le altre si dice che non vogliono più dare in vendita o a noleggio fisso i loro films, ma che vogliono sfruttarli direttamente nei cinematografi col sistema della percentuale sugli incassi. Si parla, anzi, di percentuali che raggiungono persino il settanta per cento, come si parla di esperimenti che sono stati fatti con alcuni films e che hanno dato risultati superiori ad ogni previsione, raggiungendo e talvolta superando nelle prime visioni le somme che i noleggiatori avevano esibito per le rispettive zone, ed i monopolisti per l’Italia.
Bisogna convenire che questi bravi stranieri sono più furbi di noi! Almeno nel fare i loro affari. Prima hanno invaso il Paese coi films, favoriti dalla solerte iniziativa degli importatori ingordi che speculavano senza misura; ora, tagliando i viveri a costoro, hanno pensato che è meglio attendarsi addirittura in questo magnifico e tenero campo di conquista, così che sul collo della disgraziata nostra cinematografia da oggi in poi premerà il duro tallone del barbaro di oltre Alpe e di oltre mare!
È il colpo di grazia, qualunque cosa pensino e dicano coloro che sono facili ad illudersi, perchè il buffo ed il grottesco, in tanta tragedia, è che vi sono parecchi che credono che la calata delle Case straniere in Italia preluda al risveglio e alla rinascita della nostra industria. Buona gente che siamo! O non è stato da cinque o sei anni in qua, tutto un gioco subdolo, tutta un’obliqua politica per rovinare la nostra industria e fiaccare in tutti i modi le nostre energie a vantaggio della industria straniera? Che cosa si è fatto, prima per evitare, poi per fronteggiare, la concorrenza e la crisi? Si è forse cercato di emulare i prodotti stranieri, migliorando e rinnovando gli elementi artistici e gli stabilimenti di produzione? Nulla, da una parte abbiamo avuto gli esaltatori ad oltranza della produzione straniera, dall’altra un gruppo di industriali che giocava a chi produceva peggio! E la produzione fu così scadente, che non si può non pensare che sia stata fatta deliberatamente.
Non bisogna farsi delle illusioni. Non bisogna credere che saranno gli stranieri che faranno risorgere la cinematografia in Italia. L’industria in Italia non può risorgere se non per iniziativa nostra. Le Case straniere che piantano qui le loro tende, potranno eventualmente — se si dedicheranno anche alla produzione — sollevare la crisi di disoccupazione del personale artistico e tecnico — sollievo transitorio ed inefficace — ma non avranno nessuna convenienza a dar nuova vita all’industria, che potrà, in un prossimo o lontano domani, diventare una concorrente temibile e fastidiosa. Non è più possibile credere alla tenerezza degli stranieri per noi ! Tutto si risolverà in una nuova forma di sfruttamento, non meno disastroso, se pur più nobile e più onesto di quello esercitato dagli importatori. Più nobile e più onesto perché non esercitato da italiani contro l’industria italiana.
Per la rinascita dell’industria filmica italiana non resta che una sola speranza: che si spezzi finalmente ogni gioco monopolistico. Il sistema che vogliono adottare le Case americane, e sopratutto il loro diretto intervento, togliendo, si può dire, la base sulla quale gli attuali monopolizzatori fondano la loro forza e il loro impero, ne determinerà il crollo o ne scuoterà la potenza.
Per quale ragione, negli ultimi anni, chi può poteva ancora produrre, vi abbia rinunziato, e per quali ragioni non si riuscisse più a vendere un metro di pellicola italiana neppure in Italia, o si riuscisse a vendere con grande stento ed a prezzi avvilenti, in condizioni sempre da scoraggiare e frustare ogni iniziativa, oramai è risaputo e noi stessi ne abbiamo fatto argomento di discussioni.
La diminuzione, pertanto, della oppressione trustistica o la trasformazione delle stesse organizzazioni detentrici dei cinematografi, sbocchi naturali della produzione e base essenziale, di vita per l’industria, rovesciando il presente stato di cose, renderà indubbiamente possibile una maggior libertà d’azione e il sorgere di nuove iniziative, lascerà, almeno, qualche maggior garanzia ai produttori di poter commerciare e vendere in libera concorrenza i loro prodotti senza dover cozzare, e cadere dinanzi a barriere insormontabili.
Ma per risolvere veramente ed efficacemente la crisi, non c’è che una via: seguire l’esempio americano. È un fatto inoppugnabile che lo sfruttamento diretto della produzione nei cinematografi può dare vantaggi incalcolabili. Quando si pensi che taluni films in un solo locale di prima visione hanno raggiunto una media giornaliera superiore alle diecimila lire e che hanno dato delle percentuali dalle quaranta alle cinquantamila lire al produttore o all’importatore; e quando si tenga conto che i locali di prima visione in Italia, i quali possono dare risultati simili, oltrepassano la decina, si vede subito quale beneficio può realizzare lo sfruttamento diretto dì un film; può rimborsare quasi il totale costo di produzione con le sole prime visioni nei locali o nei centri principali. Se poi si aggiunge il profitto che ne può derivare dalle se conde visioni, proporzionalmente redditizie, e dalle prime visioni nei locali delle più importanti città di provincia, che sono abbastanza numerosi, oltre che dei passaggi di minore importanza, si capisce che non solo il film può realizzare l’intero costo di produzione, ma può anche offrire un legittimo congruo guadagno. Ma questo guadagno, purtroppo, è stato assorbito dai monopolisti, dai noleggiatori, da tutti quei parassiti attraverso a cui il film è passato, avanti di pervenire al suo sbocco naturale, il cinematografo. E tanto bene lo hanno capito gli americani, che non vogliono più, come si disse, vendere i loro films, ma vogliono darli a percentuale, sicuri di realizzare un guadagno superiore di due terzi da quello oggi ricavato.
Orbene, se è possibile agli stranieri ottenere questo, perché non possiamo farlo noi? Ben vengano essi coi loro lavori che meritano la nostra attenzione, perché sarebbe idiota da parte nostra rinunciare a conoscere quanto di buono e di bello si produce all’estero, ma non si creino condizioni di favore.
Lo sfruttamento diretto, a percentuale, scaricando la intera spesa o, nella peggiore ipotesi, una gran parte della spesa di fabbricazione del negativo, potrà permetterci di praticare prezzi che ne facilitino la vendita all’estero, dove la vendita non si effettuerà più come l’unica indispensabile risorsa, ma come un superfluo e sarà regolata dalla necessità di far conoscere laggiù i nostri prodotti.
Dal momento che siamo, a quanto pare, alla vigilia di radicali riforme, e che si nota un certo risveglio, non ancora nel campo della produzione, ma tra coloro che potrebbero darvi un nuovo impulso — uomini di grande iniziativa e di sicura competenza — ci sembra opportuno richiamare la loro attenzione e l’attenzione del Governo sull’indirizzo da tenere per risolvere la crisi cinematografica.
(Il Corriere Cinematografico, 20 giugno 1925)
(Cinema muto italiano storia di una crisi 7)