Il museo dell’attimo fuggente

tribuna_illustrata_tRoma, maggio 1914

I provvedimenti finanziarii che il nuovo Ministero Salandra ha presentato alla Camera accettando con lieve beneficio d’inventario l’eredità del Ministero Giolitti…

(Non vi spaventate. Non si tratta di politica e tantomeno di politica finanziaria. Andate avanti con tranquillità).

…contengono anche un progetto che, tassando i cinematografi, assicura allo Stato un reddito supplementare di non so più quanti milioni. Sono milioni che devono controbilanciare le spese della guerra. E guardate, in questo caso, il segno vivo della modernità: le spese della vecchia guerra son fatte da quanto v’ha di più moderno: i cinematografi, le automobili e le motociclette. È vero che c’è anche qualche cosa che non è più essenzialmente moderna. Ma se non è moderna, è eterna: la cambiale.

Il progetto di legge dunque colpisce con una nuova tassa l’esercizio degli spettacoli cinematografici. Ma io credo che un gabinetto veramente moderno, veramente up to date, non avrebbe dovuto solamente preoccuparsi dello smercio delle pellicole cinematografiche, ma anche della loro creazione e, più che della loro creazione, della loro conservazione.

C’è da fondare oramai, tra tanti musei di cose morte, un museo di cose eternamente vive: il museo dell’Attimo fuggente, il museo del Cinematografo. Il momento di occuparsene seriamente è oramai giunto. Ogni giorno che passa in un ulteriore indugio rappresenta tanta vita meravigliosamente strappata alla morte da un’invenzione geniale e che tuttavia si lascia perire lo stesso. È incredibile che nessun ministro ci abbia pensato. Il Governo si preoccupa di conservare ai posteri, mediante il deposito stabilito dalla legge nelle biblioteche nazionali, anche il più stupido libercolo d’elucubrazioni poetiche del poeta più sgrammaticato. E non si dà pensiero di conservare per quelli che verranno dopo di noi i documenti vivi della vita che oggi viviamo, degli uomini e delle cose che oggi ci circondano: conservare per legge, in un apposito museo, le pellicole cinematografiche che fermano per l’eternità l’attimo fuggente della nostra attualità.

Noi siamo degli enfants gâtés e, come tutti gli enfants gâtés troppo largamente provveduti di beneficii celesti e di vantaggi terreni, noi siamo leggeri, indifferenti, distratti, stanchi di tutto a furia d’aver tutto a portata della nostra fantasia e del nostro capriccio. Da meno di un secolo la genialità creatrice di pochi uomini ci ha dato la ferrovia e il tram elettrico, la luce e il telefono, il transatlantico e il telegrafo senza fili, l’automobile e l’aeroplano, il grammofono e il cinematografo. Tutta questa grazia di Dio c’è caduta addosso con tanta semplicità in tanti pochi anni, ha con tanta immediatezza radicalmente trasformato la nostra vita, che noi non abbiamo neppure il tempo di meravigliarci. Talché il tempo in cui i cavalli sembravano all’uomo la miglior comodità che fosse possibile offrire alla sua pigrizia, il tempo in cui ci si illuminava coi lumi a petrolio e ci si parlava solo vedendosi a pochi metri di distanza, il tempo in cui la nostra impazienza era affidata alla velocità sonnolenta di un ronzino sfiancato, il tempo in cui la lettera e la diligenza erano il più veloce mezzo di comunicazione fra gli uomini, quel tempo ci appare così lontano che quasi ci sembra sconosciuto e favoloso. A tal segno che non ci par quasi possibile che gli uomini vissuti prima di noi abbian potuto non avere quello che noi abbiamo. Quasi ci pare di vedere Napoleone dar ordini per telefono ai suoi generali nella giornata d’Austerlitz e di vedere Cesare salire in limousine sessanta cavalli per partire per le Gallie…

Così non ci preoccupiamo di quei nuovi doveri che le nuove condizioni di vita c’impongono. Che diremmo noi oggi di uomini che avendo avuto il modo di fissar per l’eternità su alcuni metri di pellicola cinematografica le persone e gli eventi della grande epopea napoleonica avessero trascurato di farlo? Noi stiamo preparandoci questa responsabilità di fronte ai nostri posteri. Ogni giorno, in ogni angolo del mondo — ma, poiché siamo in Italia, parliamo solamente di noi — ogni giorno in ogni angolo d’Italia, l’obbiettivo cinematografico raccoglie, precisi, viventi, eterni, i documenti della vita che passa. Ogni sera, nelle nostre sale di spettacolo cinematografico, noi possiamo vedere, nel suo moto, nella sua vita, quello che ieri accadde a Milano, a Palermo, a Torino o a Napoli. La viva cronaca dei gesti esatti è sostituita alla fredda cronaca delle parole approssimative. Si svolgono, sugli schermi di tutt’i cinematografi, le luminose e viventi pagine d’attualità di tutt’i varii “giornali”.

Poi il programma cambia, lo spettacolo di ieri è dimenticato e noi lasciamo che vada perduto tutto ciò che miracolosamente noi potemmo strappare alla distruzione dell’inesorabile legge umana e divina del ruit hora del poeta latino. Dove finiscono tutti quei fogli volanti della vita in movimento còlta dalla miracolosa invenzione, dove si perdono tutte quelle striscioline di minuscole fotografie che con un getto di luce proiettato su una tela bianca rianimano quello che fu, ridanno vita alla morte, rifan presente il passato, arrestano prodigiosamente, permettendoci di richiamarlo quando ci piaccia, “l’attimo fuggente”? C’è per le films la sorte dei giornali: nascita febbrile e prodigiosa, vita splendida e breve, morte oscura, oblio profondo. Ma anche i vecchi giornali possono rinascere a vita dalle loro polverose collezioni, ridar scintille di spirito, di verità, d’umanità da sotto le ceneri di caratteri impalliditi in pagine ingiallite. Basta che una curiosità li cerchi, basta che una mano li sfogli nelle biblioteche, nelle emeroteche, ov’essi si ammassano anno per anno, mese per mese, dì per dì. Ma come rintracciare le vecchie pellicole? Come salvare, nell’eccessiva produzione attuale, nella produzione sempre più grande che avremo domani, quelle che meritano di rimanere? Come potremo più tardi disseppellire, da sotto montagne di pellicole che avranno perduto ogni valore perdendo quello commerciale, le pellicole cui invece il tempo passando avrà dato sempre maggior pregio, quelle che al valore curioso dell’attualità avranno sostituito il valore suggestivo e prezioso del documento storico? Come potremo tra tante sciocche fantasie ritrovare le immagini vive della realtà, come potremo compiere negli anni lontani il prodigio che la conquista geniale dell’uomo ci ha permesso, ci ha imposto di compiere: non conoscere, non rianimare con l’immaginazione su delle pagine dei libri la storia del mondo: ma ridarle anima e corpo, luce e calore, movimento e vita, così quale i contemporanei la videro, così come la foggiò l’inafferrabile attimo che l’uomo ha fatto schiavo — per poi ridargli una libertà che non ha senso, una libertà che significa rinunziare alla conquista fatta, ridar vita al tempo che tutto distrugge e che tutto cancella.

Qualche cosa che assomiglia ad un “museo dell’attimo fuggente”, a un museo di documenti cinematografici dei nostri tempi, dei nostri costumi, dei nostri eventi, è stato fatto, se non erro, a Vienna. Un istituto appositamente creato conserva quelle pellicole che avranno un giorno valore documentario, provvede a esigerle dalle case creatrici, cura di rinnovare quelle la cui conservazione possa esser minacciata dal tempo. Anche l’Italia dovrebbe essere in grado di creare un istituto simile, non so per che via, non so con qual mezzo. Ignoro se il costo dei cosiddetti “positivi” non permetta di pretendere dalle case che una copia, almeno solo delle films che sono riproduzione animata della realtà contemporanea, venga depositata in un ufficio di Stato. I particolari appartengono ai legislatori. Il pubblico che passa non può che suggerire un’idea, accennare una necessità, ricordare un dovere, il dovere di conservare la vita strappata alla morte, il minuto divelto al tempo, “l’attimo fuggente” chiuso nel suo museo d’eternità. Chiedo ad uno dei cinquecento otto deputati italiani di far sua questa idea.

Lucio d’Ambra
(Il museo dell’attimo fuggente, La Tribuna Illustrata, Roma, 17-24 maggio 1914)

Carnevalesca – Cines 1918

Carnevalesca
Una scena del film

Messa in scena di Amleto Palermi, soggetto Lucio d’Ambra.
Operatore: Giovanni Grimaldi.
Interpreti principali: Lyda Borelli, Livio Pavanelli, Renato Visca, Gino Cucchetti.

Film restaurato dalla Cineteca di Bologna nel 1993, da una copia dell’archivio Sodre di Montevideo, 1500 metri (55′).

«L’azione di questo bouquet di quattro carnevali si svolge nel castello di Malesia.

Il carnevale bianco mostra i giovani figli di un sovrano ed i loro cuginetti e cuginette che si divertono in giochi festosi e fantastici.

Gli anni passano.

Luciano, erede della corona, si innamora di Lyda. Ed è il carnevale azzurro.

Ma quando si accorge che si cerca di strappare Lyda alla sua passione, rinunzia al trono e fugge con lei. La fuga del principe alimenta le ambizioni tra i cugini che aspirano allo scettro: si distruggeranno tra di loro. Ed è il carnevale rosso.

Tra gli aspiranti vi è Carlo, che pensa di essere il prescelto, ma, temendo che il vecchio re possa cambiare idea e richiamare il legittimo erede, tesse un’insidia a Luciano e lo pugnala a tradimento. Ed è il carnevale nero.» (dalla brochure originale del film)

« Fassini mi mandò a chiamare: Venga alla Cines a far colazione con la Borelli e con me… La Borelli, alla Cines, ci abitava. Che quando tra un periodo e l’altro della sua vita d’attrice di prosa dava alcune settimane alla cinematografia, il barone Fassini non voleva che di quel poco tempo si perdesse neppure la mezz’ora necessaria per condurre in vettura l’illustre attrice da casa sua al teatro. Le allestivano dunque lassù, nella palazzina centrale della Cines, un appartamento e Lyda Borelli non aveva, uscendo dal letto, che da far le scale per essere, nella sua imperiale bellezza bionda, davanti alla macchina da presa. E lì Alberto Fassini veniva ogni giorno a vigilare il lavoro, chiuso nei suoi maglioni di grossa lana, col suo passo napoleonico da imperatore della cinematografia, infallibile nella cortesia ma secco e rapido nei comandi in quell’abitudine di sbrigativa autorità che gli veniva dalle navi da guerra su cui aveva trascorso, brillante ufficiale di marina, gli anni della prima giovinezza. Allora era nella seconda giovinezza, come adesso è nella terza; che Alberto Fassini ha sempre una giovinezza di ricambio per essere eternamente giovane. Uomo intelligente e geniale, di larghe vedute, di molteplici esperienze, il barone Fassini voleva conferire alla produzione della Cines un prestigio superiore a quello di qualunque altro film. Uomo di gusto, di coltura, di largo senso artistico, non seguiva, da industriale remissivo, i suoi vari registi. Ma tutti invece li dominava e, come su gli antichi suoi bastimenti, li chiamava volentieri a rapporto. C’era in lui il desiderio di elevare il tono della cinematografia e di portarla ad autentica manifestazione d’arte. Così una mattina, avutomi alla sua tavola accanto a Lyda Borelli, comandò secco e breve col tono dell’ammiraglio che parli all’ufficiale di guardia chiedendogli una lancia a mare: “In dieci giorni un film vostro per Lyda Borelli, vasto, artistico, grandioso, degno di lei e dell’arte sua…”. Scrissi Carnevalesca: un ardito tentativo di film simbolico ed allegorico suddiviso in tre tempi e commenti: un carnevale bianco che era il mondo della felice adolescenza nei giovani principi d’una grande Corte imperiale; un carnevale rosso che, nel cieco e ardente furore della vita, insanguinava tra passione e debito quelle prime innocenze; e un carnevale nero ch’era il poema visivo della vecchiaia e, in un mondo di neri fantasmi, radunava attorno ai superstiti le oscure ombre d’un tragico passato. Occorrevano al film, negli episodi visivi e corali dei tre pittoreschi carnevali, larghi commenti musicali ed una specie di sinfonia dei suoni che accompagnasse la sinfonia dei colori. Si pensò a Mascagni, si pensò a Zandonai: impegnati l’uno e l’altro in opere nuove. E il film, al quale la musica, la grande musica, era indispensabile, rimase senza uno dei suoi principali elementi, affidando il sostrato lirico della composizione visivi solo ai commenti rabberciati delle orchestrine dei cinema cucendo insieme vecchi motivi verdiani e valzer viennesi.

Amleto Palermi inscenò Carnevalesca. Lyda Borelli ne fu stupenda interprete in un imponente gruppo d’attori tra i quali, tentato momentaneamente dalla cinematografia, era anche un fine poeta veneziano, allora giovane e più tardi affermatesi giornalista di razza e solido scrittore politico, Gino Cucchetti. L’opera cinematografica ebbe questo particolare risultato: che dieci compositori di musica videro, in Carnevalesca senza musica, la possibilità di una grande opera lirica. Primo a scrivermi fu Giacomo Puccini. Ritrovo la sua lettera, da Milano: “Ho ammirato iersera Carnevalesca. La gente, che al cinema non applaude mai, iersera, me presente, hanno battuto le mani. Che operone ci sarebbe là dentro! Vogliamo parlarne? Sarò a Roma la settimana ventura. Se ne parlò con Puccini sempre indeciso, senza concludere nulla. E altri, dopo Puccini, pensarono all’opera. Due o tre librettisti addirittura elaborarono schemi di libretto. Troppi galli a cantare!… Il giorno non venne. E l’opera lirica è ancora da farsi, mentre Carnevalesca, nel cimitero senza croci delle pellicole, nella fossa comune della vecchia cinematografia, è sepolta e dimenticata, senza un fiore, senza una lacrima…»
Lucio D’Ambra (Gli anni della feluca, Lucarini 1989)

E Carnevalesca, restaurata e presentata nel festival Il Cinema Ritrovato di Bologna edizione 1993, esce ogni tanto dal Pantheon dei Film Italiani Ritrovati Restaurati Invisibili… Pochi giorni fa a Venezia, Videoteca Pasinetti.

Come si gira un film nel 1909

Il Tirso, settembre 1909. Molti fra i frequentatori dei cinematografi si sono certamente chiesti con curiosità come si preparino le films cinematografiche, specie nelle scene che si svolgono all’aperto, talvolta per le vie stesse di una città. Lo spettacolo è veramente interessante peccato che non vi si possa assistere con la stessa facilità con cui poi si assiste alla sua riproduzione! Riteniamo perciò di far cosa grata ai lettori pubblicando qualche impressione che un nostro collaboratore c’invia dopo aver presenziato all’allestimento di alcune rappresentazioni preparate dalla nuova Film d’arte Italiana.

Siamo in una atelier soffocante. In un salotto elegantissimo, improvvisato in un angolo, si svolge la famosa scena della Signora dalle Camelie in casa di Olimpia. Margherita è Vittoria Lepanto; Armando, Alberto Nipoti, Varville, Dante Capelli, intorno a loro, una folla di personaggi minori, La Zanchi, Alessandro Marchetti, Antonio Spano, ed altri tutti nomi ben noti in arte. Fra le dame, due eleganti acquisti del palcoscenico: la Pasta e la Cicogna.

S’incomincia. Non si accordano che novanta secondi per l’esecuzione di una scena: Ugo Falena e Alfredo Campioni impartiscono ordini, con la rapidità di due coreografi. Margherita supplica Armando, Armando chiama fremente gli invitati, getta sulla faccia di Margherita i danari vinti al gioco. Tutto ciò che nel teatro si è svolto in un ora, nel minuscolo spazio ha avuto la durata di un attimo. Gli attori sostenuti dai brevi suggerimenti dei Direttori : «Attention! Figure! Face! Marguerite! Armand!» sono stati abilissimi. Essi stentano quasi, tuttavia, a credere alla riuscita del quadro. Questo è invece riuscito ottimamente.

«Al Bois de Boulogne!» Gli attori cambiano toletta, montano sulle automobili, si recano ai Giardini Margherita…. in Bologna. È la scena dell’incontro di Margherita con Armando, al Bosco. Passano vetture elegantissime su cui sono sdraiate in abiti invernali — siamo di Luglio — le più ricche signore…. della società parigina. Ecco Margherita che invita nella sua vettura Armando e la sfilata delle vetture continua. I rari passanti si fermano stupiti, credendo quasi di sognare, ad osservare tanto insolito movimento, cosi in contrasto con la canicola che arde dattorno. A un tratto s’ode un diverbio. È il Duca (Campioni) che litiga con i cocchieri. Meraviglioso nella sua pelliccia e nella barba posticcia che gli scende fino al petto, ha dimenticato di essere… duca.

La carrozza di Margherita si ferma a… rue d’Antin. Margherita e Armando discendono, vanno per accomiatarsi, ma un signore l’autentico padrone della casa, passa tra di loro… E’ un grido d’indignazione. Il mal capitato è accolto dai peggiori titoli ; «animale, cretino, bestia!» E’ un coro di male parole che esce dalle bocche esasperate dei direttori e degli operatori. Il poveretto crede di essere capitato in mezzo ad una masnada di pazzi, e fugge come… un medesimo.

Vittoria Lepanto in Carmen (Film d'Arte Italiana 1909)
Vittoria Lepanto in Carmen (Film d’Arte Italiana 1909)

Non credo che Vergato abbia brillato per tanta animazione come nei giorni della riproduzione di Carmen. Neanche alle elezioni dell’on.. Rava! Quando, una mattina, per tempo, i buoni abitanti di Vergato hanno visto comparire sulla piazza, fieri nei loro cavalli, un buon nerbo di dragoni spagnoli, hanno crollato la testa dicendo: «Questo governo non pensa che a cambiare le uniforme dei soldati!» Ma quando hanno veduto traversare il magnifico corteo della Corrida non sono stati più sulle mosse: le scuole si sono chiuse, gli impiegati hanno scioperato e la prefettura ha dovuto, molto gentilmente, inviare i carabinieri col loro tenente per prestare omaggio a Escamillo (Annibale Ninchi) che incedeva scintillante di oro tra una folla meravigliosa di toreros, espada, alguaciles, banderilleros, ciulas. Aggiungete il sole trionfante che illuminava la scena, dandole una nota straordinaria di verità e convenite che il buon pubblico di Vergato aveva di che rallegrarsi.

«Attention!» i quadri incominciano e si susseguono. Eccoci in un piccolo mercato di Cordova, improvvisato in una viuzza: nulla di più spagnuolo! Carmen ascolta le dolci parole di Escamillo. Eccoci dinanzi alla caserma: Micaela (Marchetti) supplica José. Eccoci nell’interno della fabbrica: Carmen ferisce una compagna. Eccoci infine nel Guadalquivir: le sigaraie prendono il bagno nell’ora dell’Angelus: è la riproduzione del quadro che ha sedotto con tanto fascino la fantasia scintillante di Merimèe.

E tra un quadro e l’altro, fughe di automobili da un punto all’altro del paese, galoppo di Picadores e di dragoni, un continuo sbucare dalle fratte di contrabbandieri armati fino ai denti che attendono il loro turno, un mescolarsi tra la folla variopinta.

Da un tabaccaio trovo l’attore Tellini in abito da eremita, gravato da parecchie ore dal peso di una barba fluente, che bestemmia come un turco perchè non trova toscani che tirino.

Eccoci a Venezia. Jago e Rodrigo muovono in gondola, di fronte al palazzo dogale, per tramare contro Otello. Passa d’accosto una barca di popolani che guardano sorpresi; uno di essi più sapiente, però, la ragione della strana mascherata: «i xe spagnoli venudi pei funerali de Don Carlos». La gondola si ferma dinanzi al Gran Canal Hotel: una lancia a vapore aspetta. Ecco Otello (Ferruccio Garavaglia), magnifico di armi e di atteggiamento. È in compagnia di Falena (oh caducità degli umani rancori!) Un paggetto lo segue, porta in mano un anfora. e un veleno? No! È la cioccolata che deve servire ad Otello per imbrunire di tempo in tempo la sua moresca signoria. Ecco Desdemona (Vittoria Lepanto scintillante di gioielli) ecco il Doge, Brabanzio, le dame… Sulla terrazza dell’Hotel una folla di signori prende fotografie istantanee…

Andiamo a Cipro… cioè a Sant’Elena. Da un vapore scendono un centinaio di attori : Ciprotti, dame, ufficiali, soldati, dignitari, gondolieri, trombettieri, araldi, ciurme, mossulmani. La nave di Otello è ancorata: gli attori prendono i loro posti. Otello scende dalla improvvisata galea, tende al ciclo le sue braccia nere e bacia Desdemona, tra gli urrah della folla e i sorrisi di compiacimento delle molte signore che, reduci dal Lido, hanno sostato nelle loro gondole a godere lo strano spettacolo.

E ancora due scene; la riproduzione del famoso quadro di Celentano. «Il consiglio dei dieci che si reca in Senato» e la film comica, protagonista Teresa Mariani. Nulla di più delizioso che assistere alle pose della mirabile attrice: quanta prontezza, quanta efficacia, quanta comica malizia!

Chi sa che a qualcuno che ha assistito a queste rappresentazioni non sia venuto in mente come all’inventore nel monologo di Ermete Novelli, di creare una nuova forma d’arte… la Pantomina?
Spectator