Ricordi del primo cinema

Carmen Boni in Addio Giovinezza, Augusto Genina 1927

Roma, 21 settembre 1940

Ad «Addio giovinezza » risale il mio primo contatto con il cinematografo. Non riesco a ricordare se fu durante le vacanze o un giorno che non ero andato a scuola: quello che ricordo è una mattina di sole, primavera inoltrata o principio di autunno.

Sul grande prato fra Piazza di Siena e la Casina delle Rose incontrai il cinematografo. Si era radunata un po’ di folla intorno alla macchina da presa e agli inservienti che reggevano i riflettori di stagnola. Sulla strada erano ferme alcune automobili con le tendine misteriosamente abbassate: dall’automobile uscì un personaggio truccato, poi un secondo, L’uomo era Augusto Bandini, un caratterista che ricordo in altri film muti, la donna una generica, Si doveva girare una scena in cui Leone vive l’avventura che poi racconterà abbellita agli amici, C’erano anche Carmen Boni e Walter
Slezac, ma senza trucco.

Ricordo che Bandini, sospinto violentemente, doveva andare a urtare una signora, una specie di granatiere in gonnella. Augusto Genina, lo ricordo con lo stesso viso di oggi, fece ripetere la scena tre o quattro volte, incontentabile.

Appartenevo allora ad una società ginnastica che ha la sua sede lungo le mura pinciane. Qualche giorno dopo un altro amico ci chiese se avremmo voluto partecipare ad una scena per il cinematografo. Andammo di mattina presto a Piazza di Siena, a mettere in mostra le nostre qualità atletiche, In mezzo a noi c’era Slezac, il Mario della terza edizione, anch’egli in maglietta e mutandine. Si doveva girare la scena in cui Elena — era Elena Sangro — incontra per la prima volta Mario. La fatalissima stava sul poggiolo avanti alla casina dell’orologio, avvolta in veli e pelliccie, come se si fosse trattato di una serata di gala all’Opera.

Il film però lo vidi molto tempo dopo, in un cinema rionale che adesso non esiste più, insieme a un gruppo di compagni e compagne di scuola. Ricordo che ci commovemmo tutti ai casi di Dorina e al suo doloroso amore. Quando dal ponte Dorina salutava il treno che porta via per sempre il suo amore avevamo un nodo alla gola, e, a luce riaccesa, potemmo constatare che le ragazze avevano gli occhi lucidi di pianto. Questo ricordo ha un particolare significato poichè con noi c’era Maria Denis, quella che sta per essere la quarta Dorina che conoscerà il pubblico italiano.

Qualche anno è passato, non tanti ma neppure pochi, e adesso Dorina torna per la quarta volta sullo schermo. Quali siano le ragioni di questa vitalità dell’opera di Camasio e Oxilia, non sapremmo forse dire troppo bene. Ma le sentiamo, vecchi sentimentali, non per età ma per il tempo da cui crediamo all’immortalità di certi sentimenti, ci lasceremo sempre prendere dalla mestizia della storia di Dorina, tanto vecchia e tanto nuova, che trova risonanza nella vita di ciascuno di noi. Si può avere il cuore arido e aver sempre aspirato alla carriera di agente delle imposte ma una volta ciascuno ha avuto vent’anni alla maniera di Mario, e in fondo al cuore avrà un indistinto rimorso per una Dorina che si chiamò magari Elvira.

Nino Oxilia era un poeta, e si è poeti soltanto perché si è avuto dalla Provvidenza il divino dono di saper scegliere, fra i casi della propria vita, quelli che hanno risonanza nell’animo di tutti. Quando si tocca una corda la cui nota ha il potere di echeggiare su ogni parete, anche la più piatta, l’opera di poesia è compiuta né verrà il giudizio di nessun critico a stroncarla.

Quella di Camasio e Oxilia è, nel genere romantico, un’opera perfetta. Ha la profondità di richiamo di una canzone napoletana: sul piano estetico avrà magari assonanza con le romanze di Tosti ma nessuna critica avversa potrà diminuire il richiamo che esercita sul pubblico.

No, forse profondità non c’è. Almeno se vogliamo tenere in concetto di profondità l’analisi minuta, fondata su dei canoni precisi e senza possibilità di deflezioni, Ma la profondità è nel sentimento che la storia suscita, in quell’ondata indistinta di ricordi, di sensazioni. Il merito degli autori è stato soprattutto di avere scritto un’opera che ha sempre vent’anni e che ha, soprattutto, il merito di ricordare a tutti quell’età favolosa che non è soltanto una stagione, ma la sintesi della vita. E in fondo ad una vita triste, accorata, troppo convulsa o troppo noiosa ci sarà sempre, per ognuno, il ricordo dei vent’anni ad accendere un sorriso che non è soltanto di melanconia.

Per questo, in fondo, quella di Dorina è una favola. Si chiamano favole quelle storie in cui ciascuno può specchiare i sogni
che non ha osato avere.


Ancora una volta, dunque, Dorina tornerà. La fanno rivivere ogni domenica gli attori delle compagnie filodrammatiche. L’ha fatta rivivere un’operetta che ha girato a suo tempo tutta l’Italia e che ancora qualche volta arriva fino al nostro studio dall’apparecchio radio del vicino. Tre volte fino ad oggi, il cinema ha dato un volto preciso a Dorina: fu Laetitia Quaranta nella prima, Maria Jacobini nella seconda e Carmen Boni nella terza.

Carmen Boni portava allora i capelli cortissimi e le vesti cortissime. È stata una Dorina nella sua epoca, uguale alle ragazze che gli adolescenti vedevano passare frettolosamente lungo le vie illuminate alle sette del pomeriggio. Per noi, a cui i trent’anni non sono più una mèta, il volto di Dorina resterà quello, tanto simile ai volti che incontriamo in certe fotografie ingiallite, ricordo di gite scolastiche, che non abbiamo mai il coraggio di buttar via.

Adesso torna Dorina con un altro volto, quello di Maria Denis. Un volto caro al pubblico, specialmente al pubblico più giovane. Ma anche noi andremo a rivederla e al ricordo vecchio si sovrapporrà quest’altro, ma delle due immagini confuse non avremo alcun fastidio perché quanto resterà in fondo a noi sarà sempre un volto ideale, che assomiglia in modo impressionante a una donna che rivediamo di tanto in tanto e che tiene per mano due bambini che non sono i nostri.

Vogliamo sperare soltanto che il film sia messo in circolazione subito, appena finito. Nei giorni in cui l’ottobre declina nel novembre. Allora, quando usciremo dal cinematografo, dopo aver incontrato di nuovo Dorina, ci sarà facile ritrovare nei viali bui, nello scricchiolio delle foglie ingiallite sotto i nostri piedi, nell’odore di caldarroste che si sprigiona da ogni cantonata, l’atmosfera della sessione autunnale di laurea. E ritroveremo la profonda malinconia di un attimo in cui la vita sembra finita, insieme ad un mucchio di libri gialli sgualciti che non servono più.

Umberto de Franciscis

Alessandro Blasetti al Cinema Ritrovato Luglio 2000

Intervento di Mara Blasetti al Festival del Cinema Ritrovato XIV Edizione (Bologna 2000), a proposito delle ricerche sui film scomparsi di Alessandro Blasetti, ed in particolare del recente ritrovamento di alcuni fotogrammi del film “Sole” (1929).

Il seguito di questa storia, e del ritrovamento dei fotogrammi perduti, qui: Sole di Alessandro Blasetti: Ipotesi per un riconoscimento

Asta Nielsen fuori dal mito

Asta Nielsen

di Giuseppe Ferrara

Ci aspettavamo un’attrice romantica, piena di languori appassionati, carica di tutti i segni, persino sessuali, della diva affascinante, a cui solo per caso era mancato qualcuno che la chiamasse « immaginifica ». Si ricordava che il suo nome aveva goduto una celebrità mondiale, negli anni d’oro del muto, pari soltanto ai fasti delle attrici italiane o delle « star » hollywoodiane. « La gente correva a vedere i suoi film a Berlino come a Pietroburgo, a Parigi come a New York », hanno scritto gli storici, immancabilmente riportando appellativi stentorei come « la Duse del Nord », « la Sarah Bernhardt scandinava ». Con impazienza si attendeva allora di conoscere in Italia, dove le sue prove migliori erano scarsamente note, questa specie di Idolo nordico, che ci veniva descritto, prima, al centro dell’erotismo cinematografico danese; poi, come valida interprete dell’espressionismo tedesco in tutte le sue fasi, da Wiene a Pabst.

Invece, i quattordici programmi della retrospettiva veneziana dedicata all’attrice (impeccabilmente organizzata da Giulio Cesare Castello, che ha dato una grande lezione di scrupolo e di filologia, da rimanere memorabile nella storia della Mostra), hanno offerto esempi che oltre a deludere tali ipotesi, addirittura le hanno rovesciate. Si è potuto constatare infatti che la diva della leggenda non ha nessun valore culturale, è un volgare prodotto del più ingenuo commercialismo cinematografico. Ma si è anche visto che una volta uscita dalla moda, dal gusto melodrammatico della sua epoca, la Nielsen è una grande attrice; e lo è per ragioni esattamente opposte a quelle che hanno creato il suo mito. L’arte di Asta non ha nulla a che vedere col sesso; la « passione », quando è autenticamente vissuta, acquista in lei toni scabri e asciutti; l’espressionismo della sua recitazione è quasi inavvertibile e tende sempre a una dimensione realistica, in ciò mostrando grande fedeltà alle sue origini (veniva dal teatro danese, ben lontano dai caligarismi germanici).

Esito di una retrospettiva che vede confermata una tesi purtroppo non molto diffusa: che il divismo è uno degli atteggiamenti pubblici più deteriori e caduchi; che i miti da esso creati hanno bisogno, per sostenersi, dell’atmosfera in cui nascono, o di personali nostalgiche inclinazioni; che essere « diva » significa divenire oggetto di un idoleggiamento senza ragione che appaga le tendenze morbose, o per lo meno di sicuro carattere evasivo, del pubblico. Sicché le doti che fecero della Nielsen una delle più famose interpreti del muto, il fascino che indusse Apollinaire a esaltarla come la visione di un ebbro, o come la portatrice di cose « inesprimibili », oggi non dicono più nulla. Demitizzata, Asta appare solo una donna senza evidenti doti fisiche, anzi magra e forse brutta; però piena di temperamento, sicura delle sue possibilità, capace di esprimere cose molto precise: un’attrice che nella prima parte della sua carriera cedette alla moda e al cattivo gusto del regista e marito Urban Gad; nella seconda ripudiò le facili pose del divismo e recitò pienamente, con arte matura e vigile.

https://youtu.be/criEcLXgUQ0

Certo, dei primi quaranta film da lei interpretati, dal 1910 al 1918, la retrospettiva ha raccolto solo otto titoli, che sono troppo pochi per dare un sicuro giudizio complessivo su questa fase. Sono però titoli significativi, che ricorrono come esemplari nelle storie del cinema, e, quel che più conta, distanziati progressivamente in quell’arco di tempo. Abbiamo allora potuto constatare che il famoso esordio della Nielsen, Afgrunden (L’abisso, 1910), suscitatore di scandalo per l’oggi innocente danza gaucha, è tutt’altro che probante sulle doti dell’attrice, la quale, certo trascinata da Urban Gad (desideroso solo di fare uno slegato pasticcio melodrammatico, impinzato di retoriche didascalie sul « destino di una vita ») indulge al repertorio da palcoscenico più scontato e approssimativo, senza riuscire nemmeno a dare una caratterizzazione. La « danza del ventre » attorno al cow-boy legato con il lazo è appena curiosa; il colpo di scudiscio vibrato alla rivale, per quanto dia per un momento a questa figuretta di giovane donna bruna un sapore battagliero, non rialza il tono manieristico complessivo della prestazione, che si conclude con l’abbraccio strappalacrime all’amante da lei stessa accoltellato. Un esordio che scosse le ingenue platee del tempo con mezzi, anche recitativi, che oggi non hanno nessun peso culturale. Le concessioni alla moda spettacolare del film danese, pur variando scenografia — dall’ambiente del varietà a quello mondano — sono ben riconoscibili anche in Den Sorte Drøm (Il sogno nero, 1911) che può anzi essere considerato un’anticipazione del divismo italiano, sia per il gusto delle acconciature eccentriche, sia per alcuni atteggiamenti di enfasi amorosa (la scena sul canapé, dove il cavaliere pentito piange sulle ginocchia di Asta, e lei reclina la testa in un modo impossibile, anticipando quasi certe pose borelliane); sia, infine, per certe ridicolaggini, come quando nel finale, si dibatte, e colpita dallo sparo, cade retoricamente, con una teatralità priva di misura che sembra premettere la conclusione di Ma l’amor mio non muore!

Non sembrerebbe davvero, almeno per chi non sente la sirena della mitologia divistica, di trovarsi in queste prove di fronte ad un’attrice di talento. C’è una scena di Den Sorte Drøm in cui Asta dovrebbe esprimere l’angoscia per l’imminente perdita della sua virtù: ebbene, non solo tutta l’agitazione della donna è giocata esteriormente, ma la Nielsen ricorre persino a gesti dozzinali, come quello di toccarsi il cuore, per farci capire che soffre.

Eppure, in quest’orgia di concessioni alla moda, l’autentico temperamento dell’attrice sta per affiorare: In dem großen Augenblick (1911), girato da Gad in Germania, dove l’attrice si trasferì con stipendi favolosi, presenta la Nielsen immersa in un ambiente e in un costume che gli si attagliano perfettamente, sebbene il feuilleton della storia rovini il complesso del breve film. Una figura asciutta, questa, finalmente a suo agio nelle vesti nere di popolana, i capelli stretti alla nuca, in mezzo a scenografie vere. I dolori per la bambina che deve abbandonare acquistano credibilità nuova; il tono spesso realistico del film, che si svolge in povere stanze, con panni stesi ad asciugare, in vie misere e fangose, in osterie di campagna, dànno la convinzione che il cammino artistico della Nielsen in questi primi anni somigli un poco a quello della Bertini. Attrice d’istinto popolare, e attrice tragica, è costretta dai clichés cinematografici d’allora a rinunciare al suo io più vero, a forzare la sua natura in personaggi e storie profondamente falsi. Così In dem großen Augenblick è un po’ per la Nielsen quello che Assunta Spina è stato per la Bertini: una dimostrazione della sua misura più autentica. Con la differenza che mentre l’italiana non è più riuscita a ritrovare quel felice momento, l’attrice nordica ha saputo poi risalire la corrente.