di Giuseppe Ferrara
Ci aspettavamo un’attrice romantica, piena di languori appassionati, carica di tutti i segni, persino sessuali, della diva affascinante, a cui solo per caso era mancato qualcuno che la chiamasse « immaginifica ». Si ricordava che il suo nome aveva goduto una celebrità mondiale, negli anni d’oro del muto, pari soltanto ai fasti delle attrici italiane o delle « star » hollywoodiane. « La gente correva a vedere i suoi film a Berlino come a Pietroburgo, a Parigi come a New York », hanno scritto gli storici, immancabilmente riportando appellativi stentorei come « la Duse del Nord », « la Sarah Bernhardt scandinava ». Con impazienza si attendeva allora di conoscere in Italia, dove le sue prove migliori erano scarsamente note, questa specie di Idolo nordico, che ci veniva descritto, prima, al centro dell’erotismo cinematografico danese; poi, come valida interprete dell’espressionismo tedesco in tutte le sue fasi, da Wiene a Pabst.
Invece, i quattordici programmi della retrospettiva veneziana dedicata all’attrice (impeccabilmente organizzata da Giulio Cesare Castello, che ha dato una grande lezione di scrupolo e di filologia, da rimanere memorabile nella storia della Mostra), hanno offerto esempi che oltre a deludere tali ipotesi, addirittura le hanno rovesciate. Si è potuto constatare infatti che la diva della leggenda non ha nessun valore culturale, è un volgare prodotto del più ingenuo commercialismo cinematografico. Ma si è anche visto che una volta uscita dalla moda, dal gusto melodrammatico della sua epoca, la Nielsen è una grande attrice; e lo è per ragioni esattamente opposte a quelle che hanno creato il suo mito. L’arte di Asta non ha nulla a che vedere col sesso; la « passione », quando è autenticamente vissuta, acquista in lei toni scabri e asciutti; l’espressionismo della sua recitazione è quasi inavvertibile e tende sempre a una dimensione realistica, in ciò mostrando grande fedeltà alle sue origini (veniva dal teatro danese, ben lontano dai caligarismi germanici).
Esito di una retrospettiva che vede confermata una tesi purtroppo non molto diffusa: che il divismo è uno degli atteggiamenti pubblici più deteriori e caduchi; che i miti da esso creati hanno bisogno, per sostenersi, dell’atmosfera in cui nascono, o di personali nostalgiche inclinazioni; che essere « diva » significa divenire oggetto di un idoleggiamento senza ragione che appaga le tendenze morbose, o per lo meno di sicuro carattere evasivo, del pubblico. Sicché le doti che fecero della Nielsen una delle più famose interpreti del muto, il fascino che indusse Apollinaire a esaltarla come la visione di un ebbro, o come la portatrice di cose « inesprimibili », oggi non dicono più nulla. Demitizzata, Asta appare solo una donna senza evidenti doti fisiche, anzi magra e forse brutta; però piena di temperamento, sicura delle sue possibilità, capace di esprimere cose molto precise: un’attrice che nella prima parte della sua carriera cedette alla moda e al cattivo gusto del regista e marito Urban Gad; nella seconda ripudiò le facili pose del divismo e recitò pienamente, con arte matura e vigile.
Certo, dei primi quaranta film da lei interpretati, dal 1910 al 1918, la retrospettiva ha raccolto solo otto titoli, che sono troppo pochi per dare un sicuro giudizio complessivo su questa fase. Sono però titoli significativi, che ricorrono come esemplari nelle storie del cinema, e, quel che più conta, distanziati progressivamente in quell’arco di tempo. Abbiamo allora potuto constatare che il famoso esordio della Nielsen, Afgrunden (L’abisso, 1910), suscitatore di scandalo per l’oggi innocente danza gaucha, è tutt’altro che probante sulle doti dell’attrice, la quale, certo trascinata da Urban Gad (desideroso solo di fare uno slegato pasticcio melodrammatico, impinzato di retoriche didascalie sul « destino di una vita ») indulge al repertorio da palcoscenico più scontato e approssimativo, senza riuscire nemmeno a dare una caratterizzazione. La « danza del ventre » attorno al cow-boy legato con il lazo è appena curiosa; il colpo di scudiscio vibrato alla rivale, per quanto dia per un momento a questa figuretta di giovane donna bruna un sapore battagliero, non rialza il tono manieristico complessivo della prestazione, che si conclude con l’abbraccio strappalacrime all’amante da lei stessa accoltellato. Un esordio che scosse le ingenue platee del tempo con mezzi, anche recitativi, che oggi non hanno nessun peso culturale. Le concessioni alla moda spettacolare del film danese, pur variando scenografia — dall’ambiente del varietà a quello mondano — sono ben riconoscibili anche in Den Sorte Drøm (Il sogno nero, 1911) che può anzi essere considerato un’anticipazione del divismo italiano, sia per il gusto delle acconciature eccentriche, sia per alcuni atteggiamenti di enfasi amorosa (la scena sul canapé, dove il cavaliere pentito piange sulle ginocchia di Asta, e lei reclina la testa in un modo impossibile, anticipando quasi certe pose borelliane); sia, infine, per certe ridicolaggini, come quando nel finale, si dibatte, e colpita dallo sparo, cade retoricamente, con una teatralità priva di misura che sembra premettere la conclusione di Ma l’amor mio non muore!
Non sembrerebbe davvero, almeno per chi non sente la sirena della mitologia divistica, di trovarsi in queste prove di fronte ad un’attrice di talento. C’è una scena di Den Sorte Drøm in cui Asta dovrebbe esprimere l’angoscia per l’imminente perdita della sua virtù: ebbene, non solo tutta l’agitazione della donna è giocata esteriormente, ma la Nielsen ricorre persino a gesti dozzinali, come quello di toccarsi il cuore, per farci capire che soffre.
Eppure, in quest’orgia di concessioni alla moda, l’autentico temperamento dell’attrice sta per affiorare: In dem großen Augenblick (1911), girato da Gad in Germania, dove l’attrice si trasferì con stipendi favolosi, presenta la Nielsen immersa in un ambiente e in un costume che gli si attagliano perfettamente, sebbene il feuilleton della storia rovini il complesso del breve film. Una figura asciutta, questa, finalmente a suo agio nelle vesti nere di popolana, i capelli stretti alla nuca, in mezzo a scenografie vere. I dolori per la bambina che deve abbandonare acquistano credibilità nuova; il tono spesso realistico del film, che si svolge in povere stanze, con panni stesi ad asciugare, in vie misere e fangose, in osterie di campagna, dànno la convinzione che il cammino artistico della Nielsen in questi primi anni somigli un poco a quello della Bertini. Attrice d’istinto popolare, e attrice tragica, è costretta dai clichés cinematografici d’allora a rinunciare al suo io più vero, a forzare la sua natura in personaggi e storie profondamente falsi. Così In dem großen Augenblick è un po’ per la Nielsen quello che Assunta Spina è stato per la Bertini: una dimostrazione della sua misura più autentica. Con la differenza che mentre l’italiana non è più riuscita a ritrovare quel felice momento, l’attrice nordica ha saputo poi risalire la corrente.
Una bellissima prosa che rovescia apparentemente un giudizio, per farlo proprio, per opposte ragioni. Molto interessante.Grazie.
Un caro saluto