Il filo d'Arianna

Il filo d’Arianna

Il poeta Ugo Selmi e sua moglie Hermia vivono da un tempo felici in perfetta comunità di spirito e di sensazioni squisite. Non una nube, non un malinteso fra loro. Senonché un giorno… all’orizzonte di questa duplice felicità, passa una donna. È una violinista russa, perversa e strana. Il poeta ne è colpito, cede alle lusinghe dell’intrusa e, dimentico di tutto, fugge con lei.

Hermia tocca il vertice del dolore. Pure una voce nell’anima le dice di sperare e di attendere.

Passa del tempo. Dopo una serie di viaggi e di vita febbrile Ugo si stanca dell’amante e il fascino di Hermia, la sua donna nobile e fiera, lo riprende. Torna a Roma e s’accorge che Hermia mena una vita elegantissima e apparentemente spensierata. Ne soffre. Ed ella, vedendolo soffrire, segretamente ne gode non per malvagità di donna ma perché nel suo cuore ella ancora lo ama.

— Saprò riprenderlo! — dice a se stessa.

E infatti comincia a scrivere al poeta, che in quei giorni ha avuto un grande successo artistico, delle lettere ardenti di ammirazione, firmandosi « Arianna ». Per Ugo quelle lettere sono il magico filo che lo trarranno fuori dal labirinto. Egli ignora che Arianna ed Hermia siano la stessa donna. Seguita ad ignorarlo per lungo tempo, durante il quale Hermia gli appare sempre più ostile ed estranea mentre l’altra sempre più docile, affettuosa.

Un giorno finalmente il tormentoso enigma si scioglie e, dopo un inseguimento fantastico in un parco meraviglioso, Ugo si trova Hermia, la sua fedele, buona e appassionata moglie, tra le braccia, la stringe freneticamente. Questa volta egli non la lascerà più, mai più.

Messa in scena di Mario Caserini, soggetto Renato Baldani, fotografia Renato Cartoni. Interpreti: Vera Vergani, Nerio Bernardi, Lyda Nelidoff, Margherita Donadoni, Gherardo Peña. Produzione/Distribuzione Cines – Unione Cinematografica Italiana.

« Anche qui una moglie trascurata da un fatuo marito, riesce a portarlo a casa, tessendo, come la mitica Arianna, un filo di seduzione nel quale l’uomo si troverà piacevolmente catturato. La coppia Vergani-Bernardi, affiatatissima, funziona con molta efficacia. Una larga parte del film viene girata sul lago di Como, che funge da sfondo a questa commedia di bisticci e di ripicche. « Difetti ve ne sono — riferisce Vittorio Berlé su La vita cinematografica, 30.1.1923 — anzi, talora sono troppo appariscenti perché il pubblico non li possa notare. Ma in complesso, il lavoro piace. Per una volta tanto, abbiamo una reale esposizione di vita e non… le solite panzane, soffuse qua e là d’un sentimento che il più delle volte vuol essere poesia » (Vittorio Martinelli, Vera Vergani un’attrice friulana nel cinema muto, Griffithiana 32-33 settembre 1988)

Come ho creato Manolescu

Ivan Mosjoukine

Giorgio Manolescu, che in un certo momento fu il re dei cavalieri d’industria, occupò di sé le cronache di tutto il mondo verso la fine del secolo scorso. Ciò dimostra che questo emerito filibustiere era veramente cosmopolita. Vi furono delle canzoni sulle prodezze di Manolescu, dei romanzi la cui materia fu ispirata dagli avvenimenti di cui la sua vita fu piena, e vi fu pure l’immaginazione di R. Rinaldini, che aggiunse colore alla notorietà.

Al principio dello scorso anno, il gruppo direttivo Bloch-Rabinowisch, che presiede ad uno dei reparti della produzione Ufa mi propose d’interpretare la parte del protagonista nel film che si sarebbe realizzato sulla vita del celebre avventuriero. Il metteur-en-scène Tourjanski s’intrattenne lungamente con me per esaminare le possibilità che si sarebbero sfruttate nell’interpretazione del mio personaggio. Quindi mi procurai tutta la documentazione contemporanea allo scopo di possedere un completo ed esatto corredo di cognizioni, quando si fosse iniziata la lavorazione. Ma fu proprio durante la lettura di quei documenti, che provai una prima delusione. Dopo tutto ciò che l’immaginazione e la verità mi avevano appreso sul mio personaggio, ebbi l’impressione che nella personificazione a cui mi accingevo non sarebbe stato il materiale aneddotico che avrebbe fatto difetto per ricostruire una vita così turbolenta, ma mi sarebbero mancate le possibilità per organizzare il detto materiale secondo una lirica drammatica. Con i documenti che avevo esaminati si poteva bensì realizzare un film sensazionale; ma ciò era troppo poco nei confronti delle intenzioni dei produttori, come pure della concezione che io avevo avuto da tutta la mia parte. Si aggiunga inoltre che Manolescu nell’attuazione dei suoi « colpi », si manifestava abbastanza primitivo e non s’imponeva mai dei compiti difficili; ma al momento d’intraprendere il suo « lavoro », si rimetteva sempre, sia alla debolezza delle sue vittime, sia al capriccio del caso.

Un giorno ebbi fra le mani uno studio di psicologia criminale del Dott. Erich Wulfen, avvocato generale a Dresda, uno studio che mi fece intravedere una scappatoia. Quest’opera offriva la chiave di quell’anima di criminale, e metteva in luce tutto ciò che poteva essere di patologico in Manolescu.

In questo modo il modello che andavo forgiandomi, cominciò ad avere contorni determinati. In alcune lettere di Manolescu ricorrono sovente, simili a un doloroso ritornello, frasi come queste: « Voi sapete come io non abbia altri desideri che di guadagnare il mio pane onestamente, di godere di un focolare tranquillo e pacifico e di assaporare la felicità nell’ombra ».

Tali aspirazioni dimostrano indubbiamente che Manolescu non fu né un ladro professionale completamente corrotto, né un superuomo ergentesi al disopra del bene e del male. La figura di questo avventuriero, spogliata di colpo di quella specie d’incanto di cui la lontananza del tempo l’aveva circondata, cominciò subito a guadagnare in interesse psicologico.

Non rimaneva più che da illuminare la vita sentimentale di Manolescu, e quando anche questo lavoro fu compiuto mi vidi dinanzi un uomo di carne e sangue, che mi tornava graditissimo far rivivere nella mia interpretazione.

Il mio modello era là: Manolescu, il vagabondo continuamente dominato dall’aspirazione verso un’esistenza borghese, che si era abbandonato alla discrezione di una donna, della quale soltanto dipendeva di annientarlo o di salvarlo. Ma d’altra parte non ci si poteva limitare alla donna che esercitò sull’avventuriero una simile influenza.

Nel film è Brigitte e Helm, che incarna Cleo, la donna che nella vita di Manolescu, simboleggia la prima grande passione, e lo getta — ossia, mi getta — nelle spire del delitto. È una folle bambola danzante, che non ha quasi neppur coscienza del suo potere. Sempre attraente, sempre affascinante, ella fa di Manolescu la sua vittima, fino a non lasciargli più scorgere, nella sua ossessione di perseguitato, altra uscita possibile.

La seconda donna che porta la felicità sognata, la pace e la tranquillità, è Dita Parlo.

E non si tratta di un continuo movimento di oscillazione tra l’una e l’altra, d’una scelta tra questa e quella. Ma piuttosto d’imparare a distinguere nella vita i principi del bene da quelli del male. E, secondo il mio pensiero, è là il problema centrale di Manolescu, il mio modello. Si è trattato di creare un carattere che potesse scoprire il bene ed il male, ma non soltanto fra le donne che lo circondavano, ma ancora in se stesso.

Ivan Mosjoukine

Lo sconosciuto, Tod Browning 1928

Lon Chaney e Joan Crawford

È vero che per amore si commettono ogni sorta di pazzie! ma il caso che io sto per raccontare, per una sbalorditiva trovata — quintessenza di ciò che vi possa essere di più astruso — è nuovo.

Alonzo, bandito pericoloso, ricercato dalla polizia per ogni sorta di furfanterie, s’è rifugiato presso un circo, dove esercita una professione stranissima. Coadiuvato da Josè, piccolo gobbo, che ogni mattina gli fascia bene le braccia attorno al corpo, passa per un uomo privo degli arti superiori, deliziando così le folle con una serie di esercizi eseguiti coi… piedi.

Nessuno immagina che è falso monco, e da tutti è compassionato.

Un giorno — e questo capita anche ai banditi — Alonzo s’innamora della figlia del proprietario del Circo. Alla bella, gli sguardi pieni di cupidigia e le carezze lascive degli uomini, che vogliono cattivarsi la sua simpatia, fanno orrore. Anzi, la sensualità di un certo Malabar, lottatore, che ad ogni costo vuol farla sua, la rende paurosa ed ogni qual volta il lottatore cerca di sottometterla colle sue robuste braccia, impaurita, chiede difesa ad Alonzo, il quale (poverino!), suo malgrado, non può far nulla.

Una sera il bandito, liberatosi dalle bende, strangola, per vendicarsi di certi maltrattamenti, il proprietario del circo. La polizia sospetta di tutti, fuor che di lui, che, prese arie da protettore, vuol sposare la figlia della vittima.

Ma… c’è un ma! Sposandolo, lei s’accorgerà (di certo!) che possiede due braccia. Lo sospetterà assassino, ed allora addio amore.

Messo al bivio fra la donna e le braccia, opta per la prima; va da un chirurgo, col quale aveva conti in sospeso, e si fa mutilare!

Un mese di letto, poi tutto giulivo, coi suoi moncherini, va a cercare la sua futura sposa.

In questo periodo di tregua, però, lei ha cambiato opinione e convinta della forza erculea di Malabar, trova che non è poi cosa spiacevole essere… stretta da due braccia possenti, e cede alle richieste del lottatore.

Il povero Alonzo, non potendo più nemmeno strangolare il suo rivale, pensa di vendicarsi in un altro modo e durante uno spettacolo, con un trucco, tenta di ucciderlo, ma vittima del suo gioco rimane colpito lui stesso e muore.

Che inventiva! È, questo, Grand-Guignol da sbalordire Alfredo Sainati. Va bene che in tutto il canovaccio, Lon Chaney ha modo di dar saggio della sua potenza interpretativa e che più volte il grande attore fa dimenticare la balordaggine del lavoro presentato.

Ma fosse solo per più elementare senso di buon gusto, questa prova poteva essere risparmiata.

È giusto che in cinematografia si cerchi del nuovo ed io non sono certo il primo a sostenere questo. Che poi il nuovo lo si abbia a trovare lasciando in un canto ogni convenzionalità, sia pure per approfondire nel senso più veristico, è altra cosa.

Si è voluto ingentilire talvolta l’azione colorendo con toni e sfumature riuscite un episodio d’amore attorno al dramma e terminare il film con una scena patetica che voleva rappresentare il trionfo della vita dopo la morte di Alonzo.

Ma è umano che dopo aver esaltato il sacrificio mostruoso che il bandito s’impone, il lavoro abbia a terminare nel modo più roseo?

Perché si vuole un contrasto così violento? Si voleva provare che la giovinezza trionfa su tutto? E allora perché ci si insegna che il sacrificio redime e ci si presenta il caso più potente di volontà ferrea al servizio di una causa?

Io la penso così e volendo potrei trovare altre cose per dimostrare l’assurdità di ciò che si sostiene ma, come ho già detto, c’è un’attenuante poiché tutto è stato intessuto per dar modo a Lon Chaney, di dare l’ennesima prova della sua forza interpretativa, quindi ogni ulteriore discussione credo sia inutile.

Gli altri attori sono: Norman Kerry, quanto mai a posto nella parte a lui affidata, e Joan Crawford, graziosissima attrice, dotata di grazia finissima, che ormai è riuscita ad imporsi per l’efficacia e la misura colle quali sa plasmare i personaggi da lei creati.

La messa in scena (di Tod Browning) è accurata e di buon gusto.

Le innovazioni che si son volute portare alla fototecnica ed alla luministica non sempre hanno dato il risultato prefisso, ma nei primi piani le dissolvenze le trovai perfette.

Il nome di Lon Chaney attira le folle e la sala (Cinema Reale) era gremita, tanto alle rappresentazioni diurne che serali.

Ubaldo Magnaghi, Milano aprile 1928