Un letterato del cinematografo Piero Antonio Gariazzo

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Il Teatro Muto di Piero Antonio Gariazzo, traduzione di J. Pietrini, pubblicato a puntate nella rivista La Cinématographie Française (1919)

Torino, Agosto 1919

Sino ad oggi la cinematografia italiana è stata rispettata pochino. Tanti insulti finirono sulla di lei faccina giovane. Gliene sputano addosso ancora oggi. E se potè dire che qualche illustre signore s’era abbassato sino a lei, non potè certamente nascondere che il signore s’era abbassato non per amore, ma per quattrini. Una grande umiliazione. Come nobili di coniatura recente che devono pagare caro il salotto del giovedì. La si considerò sempre come una intrusela buona al più per dar da mangiare ad una discreta schiera di somari più o meno ben truccati colla maschera di inclinazioni mal definite e poco apprezzabili.
Oggi Piero Antonio Gariazzo merita dalla cinematografia italiana in particolare un tantino di riconoscenza. Siamo obbligati a dovergliela perché quel libro non è solo un bel libro, che rivela uno scrittore elegante e forbitissimo, ma è anche un libro che ha l’ottimo pregio di far conoscere a chicchessia, senza fatica, i misteri della cinematografia e le sue strane figure.
Il Teatro muto è un libro le cui pagine sono invisibilmente legate le une alle altre. Bisogna leggerle di un fiato. Piero Antonio Gariazzo ha delle parole un po’ dure, un po’ crudeli ma che non nascondono un grande amore di padre che sa perdonare alla piccina qualche peccato. E questo padre sa dirne amabilmente male con l’aria però di aggiungere sempre a fine frase: sa… però è una grande bambinona bella…
Tutti i padri sono così. E l’autore di questo libro, un libro che può stare senza soggezione nello scaffale del più « complicato » lettore, è uno dei padri della cinematografia.
Se proprio non è un padre è un buon padrino perché vide la cinematografia, sebbene muta, agire. Di cinematografia ne respira non poco. L’amò ma come un amante che ragiona; un amante che non vola in paradiso e vede chiaro. L’amò e scrisse fino ad oggi nel libro dei successi o delle buone prove delle pagine non disprezzabili neppure da noi che siamo demolitori, come lui forse, e che viviamo come lui intensamente nella cinematografia, la quale è un ritmo furioso di vita pronta a trovare oggi vecchio quello che ieri era giovane.
E per aver avuto gli occhi Piero Antonio Gariazzo non ha solamente scritto un libro per tutti, ma anche per i cinematografisti. Frase misteriosa che mi affretto a decifrare dicendo, senza l’ombra più piccola di malignità, che i cinematografisti, presi nella loro grande massa, hanno bisogno di un libro come quello che ha scritto Piero Antonio Gariazzo. Ne hanno senza dubbio bisogno ed anche a mio debole parere il dovere di leggerlo, poiché in esso troveranno delle grandi verità, delle profonde osservazioni che non fanno male a nessuno, nemmeno ai cinematografisti celebri, sia pure per modo di dire…
Pier Antonio Gariazzo, con l’aria classica del vecchio lupo di mare che conosce bene il suo elemento e la sua nave, ha saputo scrivere sopra questo libro eccellente per ogni verso, delle grandi verità sul buono e sul cattivo cinematografo.
L’autore, che deve avere anche un’anima profondissima, insegna ironicamente e gratuitamente quali sono le vie che bisogna in cinematografo percorrere per arrivare a fare una buona film che abbia tutti i requisiti indispensabili per non cattivarsi l’interesse del pubblico. E per accertarsene di questo, basta leggere dove Piero Antonio Gariazzo parla degli antichi circoli equestri col relativo entourage di prime donne cavallerizze, di vari Tony, di direttori colla marsina rossa sgargiante. In questo capitolo vi è tanto da far meritare all’autore la patente di bravo. Poiché quello che dice è vero. Poiché tutti anche senza avvedersene hanno compreso che il pubblico ha le proprie fobie.
Vorrei che questo piacevolissimo libro fosse letto da tutti i direttori artistici che infiorano più o meno decentemente la cinematografia italiana. Vorrei che lo leggessero anche i direttori novellini, ai quali la superbia attossica la possibilità di diventare « buoni » direttori.
Ma lo stesso autore mi diceva, senza acredine, che il libro è stato comprato da molte persone estranee al cinematografo. Ciò che io credo senza esitazione perché la buona parte dei cinematografisti è gente che ha fretta di vivere e poco tempo per… studiare.
L’autore conosceva e conosce così bene i suoi « polli » che non pensò nemmeno in sogno di scrivere queste sue belle pagine su di una qualsiasi rivista di cinematografia, ma le scrisse per un libro che gira poco pel cinematografo. E fece benissimo.
L’uomo d’ingegno che scrive, scrive per sé, per quelli che lo possono apprezzare e capire, non per la folla ingrata. Quando autori come Piero Antonio Gariazzo scrivono, hanno già il compenso naturale per la loro nobile fatica.
Oggi io non voglio registrare se non il fatto di per sé stesso. Un cinematografista ufficiale, ufficialissimo ha scritto un bellissimo libro. Basta questo perché, se la cinematografia che ha fretta e non… legge non ne guadagnerà nulla, guadagnerà però di fronte alla folla che si pigia con vari commenti fuori dalle pareti del tempio dell’arte muta, dicendo un commento più benevolo, un commento che si riassume in una frase: Nella cinematografia esistono persone intelligenti che sanno anche scrivere un libro.
E questo può bastare a molti, molto più a me che modestamente vado cercando nell’arruolamento della cinematografia qualcosa che questa onori, guadagnandole stima, poiché ne ha tanto bisogno.

Amerigo Manzini
(tratto da Figure Mute – immagini e testo archivio in penombra)

Il Teatro Muto di Piero Antonio Gariazzo S. Lattes & C. Editori, Torino 1919 è disponibile online (Internet Archive)

Le premier Jeanne d’Arc

La maison de Domrémy sur la maquette de Méliès (L'Écran français, 13 Juillet 1948)
La maison de Domrémy sur la maquette de Méliès (L’Écran français, 13 Juillet 1948)

Paris, Juillet 1948

Tout le monde sait ch’Ingrid Bergman ne fait pas un voyage d’affaires. Elle est en pèlerinage. Se documentant (tardivement) sur la vie et l’aventure prodigieuse de Jeanne d’Arc, elle va visiter Domrémy, Orléans, Compiègne et Rouen. Ce voyage qu’elle va entreprendre autour des vielles pierres et l’enthousiasme que montre Ingrid chaque fois qu’elle parle de son film, prouvent assez à quel point ce rôle l’a prise et subjuguée.
Paris, qui lui en voulait un peu d’avoir « grillée » Michèle Morgan et de nous avoir privé d’un grand film français, n’a plus pour cette grande fille simple, aux cheveux encore courts, que de l’admiration. Actuellement, elle était bien dans le monde l’une des deux ou trois actrices susceptibles de tenir le rôle de la Pucelle.
Chaque époque a son Jeanne d’Arc cinématographique. Il y eut celui de Marco de Gastyne, avec Simone Genevoix, il y eut celui de Carl Dreyer, avec la grande Falconetti, il y eut celui de Cecil B. de Mille, avec Géraldine Farrar. Et il y avait eu, dès 1897, celui de Georges Méliès. Chaque époque a aussi ses projects qui s’écroulent: ainsi, en 1937, on parla de ressusciter Jeanne d’Arc. A ce propos, Méliès, alors retiré dans un pavillon du château de la Mutuelle du Cinéma à Orly, écrivit à un de nos amis pour préciser qu’il avait réalisé le premier film en date, sur Jeanne. Cette lettre, qui est inédite, a l’intérêt de faire revivre ce personnage assez extraordinaire du cinéma français, un personnage d’artisan vigoureux, ému et direct. Ces pages sont d’autant plus émouvantes que Mèliès les a écrites peu temps avant sa mort et qu’on ne verra jamais le film dont il parle: il a été détruit.

Lettre de Georges Méliès

Cher Monsieur,

C’est tout à fait amusant, les modernes historiens du cinéma semblent persuadés que « l’Art muet » n’a pris naissance qu’après la guerre et que nous autres, les vieux pionniers qui l’avons créé, nous n’avons jamais existé! Or, pour ma part, j’ai débuté et produit mes premiers films en février 1896 après avoir assisté, fin décembre 1895, à la première séance publique, dite « Séance historique », donnée au Grand Café par Louis Lumière, inventeur de l’appareil dénommé « Cinématographe ». C’est au théâtre Robert Houdin, disparu lors du percement du boulevard Haussmann, et qui était situé au 8, boulevard des Italiens, théâtre que j’ai dirigé pendant trente-six ans, que furent données les premières représentations cinématographiques du monde dans une salle spécialisée, et avec des films uniquement de ma composition. Le théâtre se trouvait exactement au centre du carrefour actuel: Richelieu-Drouot. Vous me demandez s’il est exact que le premier film sur Jeanne d’Arc fut tourné par moi. Oui! Absolument exact, ce film fut tourné dans mon studio de Montreuil, le plus ancien du monde d’ailleurs, en 1897. J’ai encore ici les maquettes originales des décors composés et peints par moi-même pour ce film, et des photos (décors est personnel) des principales scènes. De plus, mon catalogue, encore en ma possession, imprimé en 1904, et un prospectus rédigé en espagnol (pour l’Espagne) également entre mes mains, sont des preuves indiscutables. Ce dernier reproduit tous les tableaux du film , en photogravure.

Le film eut d’ailleurs à l’époque un succès universel, et ce même prospectus fut édité en anglais, en allemand, en italien, pour la clientèle étrangère.

Les rôles du père et de la mère de Jeanne d’Arc furent joués par ma femme et par moi. Au tableau du sacre de Charles VII, dûment maquillé et pourvu d’une superbe barbe blanche et d’une longue chevelure, qui me faisait ressembler à Charlemagne, je fus l’archevêque qui couronnait le roi. Pour ce qui est des interprètes, ils étaient tous, à cette époque, moi tout le premier, complètement anonymes (tout au moins pour le public). Seul le titre de la pièce était projeté.

Mais, puisqu’on a donné les noms des autres Jeanne d’Arc, pourquoi ne donnerais-je pas aujourd’hui celui de la première? Ce fut Mlle Calvière, première danseuse à ce moment au Trianon-Lyrique de Paris, et qui, au théâtre, portait son nom italianisé: Mlle Calviéri. Elle fit d’ailleurs partie de ma troupe pendant dix-neuf ans. C’est un bail!

Au seul tableau de la bataille de Compiègne, nécessitant une Jeanne d’Arc à cheval et couverte de son armure, elle fut remplacée par une écuyère du Cirque d’Hiver dont je reparlerai plus loin. Ah! certes, dans cette première version de la vie de Jeanne d’Arc, il ne s’agissait pas d’une de ces super-productions modernes comportant 2.000 figurants, et une mise en scène en staff ruineuse. Le tout se faisait au studio. Vu le genre de clientèle de ce temps-là, des forains durs à la dépense, nous ne pouvions nous permettre de consacrer un ou plusieurs millions pou un film, et nous n’avions aucun commanditaire! Donc, pas de comparaison possible, sous ce rapport, avec ce qu’on peut faire actuellement avec le financement moderne. Le film avait pourtant, déjà, une certaine importance à côté des bandes courtes en usage, bandes de 20, 40 ou 60 mètres durant une, deux ou trois minutes à la projection. Sans mon catalogue, je ne me souviendrais probablement plus de son métrage, mais j’y vois que la pièce mesurait 275 mètres, qu’elle comportait 12 tableaux et que sa projection durait quinze minutes. C’était une grande pièce!

On m’a dit que la cinémathèque de Berlin en possède encore une copie, ainsi qu’elle possède Cendrillon et Barbe Bleue, mes deux premières pièces à spectacle qui précédèrent Jeanne d’Arc. Voici comment mon film est libellé sur mon catalogue:

JEANNE D’ARC

Film à grande spectacle, en 12 tableaux. Environ 500 personnages superbement costumés (durée environ 15 minutes). Métrage: 275 mètres. Prix, en noir, 610 francs; coloris en plus, 1 fr. 50 par mètre.

TABLEAUX

  1. Le village de Domrémy, lieu de naissance de Jeanne.
  2. La forêt. Les apparitions.
  3. La maison de Jeanne à Domrémy.
  4. La porte de Vaucouleurs.
  5. Le château de Beaudricourt. Superbe intérieur moyen âge.
  6. L’entrée triomphale à Orléans.
  7. Couronnement de Charles VII dans la cathédrale de Reims.
  8. La bataille de Compiègne.
  9. La prison.
  10. L’interrogatoire.
  11. L’exécution, le bûcher, place du Marché à Rouen.
  12. Apothéose. L’âme de Jeanne monte au ciel.

Bien entendu, moi « l’homme aux trucs », ce qui m’avait tenté c’était la partie fantastique: visions, apparitions, la crémation d’une femme vivante! et son ascension, toutes choses assez délicates à réaliser en évitant le ridicule.

Je viens, je crois, de vous fournir une documentation indiscutable. J’ai heureusement conservé quantité de documents sur beaucoup d’autres films datant du début du cinéma jusqu’à 1914. De sorte que, lorsqu’une controverse se produit, il est toujours facile de la trancher, puisque j’ai entre les mains, si j’ose dire, des « Juges de paix » incorruptibles. Les Mahométans disent: « Ce qui est écrit est écrit! » A plus forte raison ce qui est imprimé et daté par l’imprimeur. Preuves évidentes!

Pour terminer gaiement, je reviens à mon écuyère, figurant dans les tableaux nécessitant  Jeanne d’Arc à cheval. Cette dame nous lâcha brusquement, le jour même du siège di Compiègne, et ne vint pas au studio. Toute la figuration était là; impossible de tourner. J’étais furieux; il fallut renvoyer tout le monde… et payer les cachets.

Grosse perte par conséquent. Je file chez l’écuyère qui me répond qu’elle ne pouvait plus venir, qu’elle ne gagnait pas assez pour le mal qu’elle avait pour conduire, à pied, son cheval à Montreuil et le ramener (car elle ne pouvait chevaucher dans les rues de Paris), bref, elle termina en déclarant qu’elle voulait cent francs par cachet.

— Comment! Cent francs! Mais c’est ce que je vous donne! m’écriais-je.

— Pas du tout, répondit-elle: on me donne trente-cinq francs.

— Vraiment! dis-je plein de stupeur. Eh bien! madame, c’est tout simplement le chef de figuration qui vous vole soixante-cinq francs à chaque cachet, car il en touche cent pour vous.

— Ah! le sa…, fut sa seule réponse.

Elle était très distinguée, certes, mais assez mal embouchée. Tout s’arrangea, elle revint terminer le film et je la payai moi-même.

Mais le plus drôle de l’histoire c’est que le chef de figuration, que j’avais immédiatement « balancé » de mon studio, eut l’audace de venir me faire une scène, dans mon magasin, passage de l’Opéra, devant mes employés, me disant que j’agissais malhonnêtement en traitant directement avec une artiste qu’il m’avait amenée! J’étais extrêmement leste et vif. Mon homme était un petit gros, court de pattes. D’un bond je franchis de comptoir derrière lequel je me trouvais, je le secouai par la peau du cou, comme un prunier et, ouvrant la porte de la boutique, de rage, je lui dis: Canaille! c’est vous qui volez les artistes et vous dites que c’est moi qui suis malhonnête! F…-moi le camp en vitesse et n’y revenez plus!

Je ne le revis jamais; mais par la suite je payai toujours moi-même tout le personnel.

G. Méliès
(Le premier Jeanne d’Arc fut tourné en 1897, L’Écran français, Paris 13 Juillet 1948)

En savoir plus: Méliès, carrefour des attractions – Colloque de Cerisy, 25 juillet-1er août 2011; sous la direction de André Gaudreault et Laurent Le Forestier; avec la collaboration de Stéphane Tralongo. Suivi de Correspondance de Georges Méliès, 1904-1937 édition critique établie par Jacques Malthête 

Anthony Asquith

Anthony Asquith
Anthony Asquith

Londres, Août 1929. De la Tamise, qui passe sous les fenêtres de mon hôtel, monte un brouillard léger. Les innombrables courants d’air anglais le font pénétrer jusqu’au salon où je me trouve, j’en suis entourée, l’âme du pays me possède.

Au moment où je fais cette constatation, on m’annonce la visite de M. Anthony Asquith, metteur en scène et fils du célèbre premier ministre. Anthony Asquith entre, léger et mobile comme un feu follet dont il a la couleur. Lui aussi fait certainement partie de l’âme du pays!

Anthony Asquith est jeune, ça ne l’empêchera pas de devenir rapidement un des chefs du cinéma anglais! Sous l’empire, les généraux avaient vingt-cinq ans et savaient se tenir sur des chevaux  qui n’étaient pas de bois. Il faut de la jeunesse pour faire des bêtises, c’est entendu, mais il en faut aussi pour risquer de grandes choses. C’est pourquoi j’avais si envie de mesurer la réaction d’un jeune devant ce casse-cou qu’est le film parlant.

— Le film parlant, me dit Anthony Asquith. Ah! si l’on voulait n’y pas trop parler! Si le mot n’y arrivait que pour ajouter son poids à une situation tendue et se fondre ensuite dans l’atmosphère qu’il a bouleversée!

Est-ce qu’un poète chez nous, n’a pas déjà dit ça, « un mot définitif qui a son prolongement dans le silence »! Aussi bien, Anthony Asquith a un peu l’aire d’un poète. Il en a aussi l’enthousiasme. Tout ce qu’il exprime avec sa parole nerveuse, ses gestes rapides, trahit, lorsqu’il s’agit du cinéma, une exaltation secrète. Il possède le métier, et le métier le possède, c’est le plus grand éloge qu’on puisse faire d’un metteur an scène.

Dés le collège, Anthony Asquith a pensé au cinéma. Quittant Oxford et se rendant à Washington, où se trouve sa sœur, il n’hésite pas à pousser jusqu’à Hollywood, c’est-à-dire à faire cinq jours de chemin de fer, « pour voir ».

La cité américaine du cinéma ne lui plaît pas, on y travaille trop en série, par tranches; Anthony Asquith ne comprend que l’œuvre homogène imprégnée d’un seule personnalité. Point de collaboration dans le travail, le scénario, le découpage et le montage uniquement faits par le metteur en scène. C’est le contraire de la théorie américaine. Anthony Asquith secoue donc la poussière de ses sandales sur le seuil d’Hollywood et revient en Angleterre, où, après avoir fait ses débuts comme assistant de M. Sinclair Hill, il entre à la British Instructional, dirigée par M. Woolfe, et commence son premier film, Shooting Stars, d’après un scénario de lui.

Il y révèle immédiatement un sens aigu du rythme, un goût marqué pour l’image originale, et on lui confie un second film, Underground, Un cri dans le métro, toujours d’après un scénario de lui, où il commence à s’apparenter à l’école impressioniste allemande. Anthony Asquith est, en affect, fort bien compris à Berlin, puisqu’il va ensuite y tourner la Princesse Priscilla, et c’est encore une combinaison allemande qu’il vient de produire A Cottage on Dartmoor, son premier film sonore et parlant.

Anthony Asquith m’a emmenée à Welwyn Garden City, aux studios de la British Instructional (qui s’équipe actuellement avec le procédé allemand Tobis pour faire du film parlant), et j’ai vu le Cottage on Dartmoor. Le scénario, fait par Anthony Asquith, est conçu de telle façon que la plus grande partie du film est simplement sonore, et que la parole n’arrive que pendant peu d’instants et d’une façon tout à fait originale pour révéler l’état d’âme des héros. Il y a malheureusement encore, dans la partie muette, des sous titres (c’est la formule appliquée jusqu’ici dans la plupart des films américains et qu’il faut supprimer), mais Anthony Asquith marque, dans cette œuvre, un sens du dramatique, une recherche de l’effet de lumière, de la rapidité du mouvement et du choc des impressions, qui dénotent un véritable tempérament. Je l’ai dit déjà, Anthony Asquith va conquérir très vite les feuilles de chêne! Cela ne lui ôte rien de cette modestie, de cet enthousiasme juvénile qui font son charme. Il ne cache pas son anxiété de savoir ce que je pense du Cottage on Dartmoor, ni sa joie quand je lui en dis… ma foi, beaucoup de bien, et nous visitons le grand studio de la British Instructional, tout en discutant sur le compte du film parlant, dont il va devenir un des temples.

Anthony Asquith a le courage de m’avouer que, pour le moment, il n’aime pas le film parlant.

— Eh bien! dis-je, vous n’êtes pas le seul, car j’ai constaté que le fameux succès des talkies, à Londres, se borne à un succès de curiosité. Tout le monde va les voir, mais tout le monde en dit grand mal!

— C’est que le public sent que la chose n’est pas au point. L’œil enregistre plus rapidement que l’oreille, et tout le rythme des nouveaux films en est changé… alourdi. Et puis, il y a de ces voix américaines qui nous mettent les nerfs en boule…

Nous déjeunons maintenant dans la charmante petite salle à manger réservée aux directeurs et aux metteurs en scène, et la discussion continue avec quatre autres Directors (qui, tou, on fait la même petite moue quand j’ai posé mon éternelle question) et cette discussion me prouve que, comme Anthony Asquith, chacun se tient là-bas dans une grande réserve sur le sujet brûlant.

Je mets alors, moi aussi, mon petit grain de sel:

— Figurez-vous, dis-je, que, dégoûtée de tous les talkies, j’ai été voir, hier soir, un film muet. Il faut croire que nous évoluons plus vite que nous ne le croyons, car j’ai eu l’impression atroce qu’ayant quitté la veille un jeune homme, je le retrouvais, ce soir-là, grand-père! La convention qu’on nous impose depuis tant d’années de ces lèvres qui remuent sans rien dire, m’a semblé navrante; j’ai senti, pour la première fois, tout le ridicule. Le film parlant, que je n’aime pas, tuait, pour moi, le film muet… Vous voyez la tragédie.

Le sourire d’Anthony Asquith, son petit sourire ironique et plein d’espoir, me montra que le cas n’est point si grave.

— Il faut fair du film parlant et chercher, voilà tout, conclut-il en souriant!

Anthony Asquith cherchera et trouvera.

J. Bruno-Ruby
(Ciné-Miroir)

A Cottage on Dartmoor Anthony Asquith DVD BFI
A Cottage on Dartmoor, Anthony Asquith DVD (BFI National Archive)