Un cinematografista francese interpellato su ciò che pensava dell’arte cinematografica, ha dato questa vivace, entusiastica e perspicace risposta:
Il cinematografo?… Ma è la sesta¹ fra le belle arti, un’arte che sarebbe ai primi passi. Una sesta arte che in questo momento, come la tragedia in Francia, ai tempi di Hardy, attendeva il suo Corneille, desiderava il suo autore classico per aprirle la via alla gloria.
Una sesta arte vivida per movimento, per varietà e per scena, dove ci è concesso, prendendo ogni quadro dei grandi pittori, di far discendere dalle loro cornici i loro eroi, di farli vivere come i loro creatori immaginarono, e poscia di far loro riprendere gli atteggiamenti immortali che il nostro sguardo conosce.
Una sesta arte dove palpitano le ali della vittoria di Samotracia, e dove Diana cacciatrice può uscire dal bosco creato dal pennello di Guyon…
Una sesta arte che ci permette d’evocare, in pochi istanti, tutti i grandi avvenimenti della storia, ricavandone un immediato reale ammaestramento.
Una sesta arte, che nell’istante medesimo farà versare lacrime all’Arabo e all’Eschimese sotto l’impero dello stesso dolore, e che darà loro nello stesso istante la stessa lezione di coraggio o di bontà.
Una sesta arte infine che quando un artista geniale vorrà considerare ben altrimenti che come un facile passatempo, diffonderà la sua fede per il mondo meglio che il teatro o il libro.
Al cinematografo le lagrime, il riso, i tratti del viso, sono così chiaramente posti innanzi allo spettatore, che non è possibile resistere alla commozione; non è possibile forse leggere nel viso di Giulietta morente il verso del grande Shakespeare, e nella fronte pensosa di Dante qualche strofa della Divina Commedia?
Rinnovare l’arte cinematografica in un senso più grandioso e umano, evitando che le nuove forme siano di fronte alle attuali ciò che i frivoli romanzi di questi ultimi cinquant’anni sono stati di fronte alla letteratura; evitare le esagerazioni del sentimentalismo piagnucolone come la comicità meccanica che sembrano alla moda perché la vera via non è tracciata; non fare del teatro soprattutto, ma ricorrere all’allegoria e al simbolismo; pendere la parte essenziale di ogni forma di civiltà, e lo scenario che la caratterizza, abbracciare tuti i cieli di tutte le epoche allo scopo di preparare la venuta, lo ripeto, dell’autore classico del cinematografo che lo indirizzerà verso un’era novella, ecco alcuni dei miei grandi sogni…
È necessario dire pertanto che per giungere a questi prodigiosi risultati chiaramente intraveduti, sarei obbligato di essere commerciante e commerciale come gli altri (quale Wagner o quale Molière arricchirono i loro editori durante la loro vita?); è prossimo il giorno, io spero, ove le mie aspirazioni divenute tangibili, mostreranno ciò che è possibile attendersi da questa mirabile sintesi del movimento, dello spazio e del tempo.
Abel Gance
(Novissima Echo, Milano, 4 Maggio 1912)
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