Il Teatro del Silenzio (3)

Il lavoro in un teatro di posa
Si lavora in un teatro di posa…

Ma vi ho promesso di farvi da guida.

Vedete che nel teatro è “montato” un salone? Le scene non sono come quelle teatrali; siccome sarebbe brutto vedere i muri di una casa muoversi, così le scene sono dipinte su tela, e tirate su solidi telai. Non sono colorate, ma nelle sfumature cha vanno dal bianco al nero, perché in cinematografo non risultano altri colori: bianco grigio e nero. Quattro, cinque telai, dell’altezza di circa due metri, uniti fra loro, e fissati al pavimento mediante cantinelle, formano una scena. Il soffitto non esiste, perché a una data altezza, la macchina taglia il locale.

La macchina da presa viene piazzata a diversa distanza dalla scena, secondo l’ampiezza dell’ambiente, e più è ampio, più la macchina viene messa lontana, perché l’obbiettivo prenda tutto il locale.

Gli attori che per la loro importanza nell’azione devono essere più visti dal pubblico, agiscono in primo piano, cioè più vicini alla macchina; a maggior distanza (secondo piano) i generici; terzo, quarto piano, ecc. le comparse che fanno da riempitivo.

Ogni tanto poi, sia per rompere la monotonia di una lunga scena, sia per rendere più evidente un’azione, che nella confusione generale potrebbe sfuggire al pubblico, la macchina s’avvicina in modo che risultano solo le figure degli attori d’importanza, tagliate a metà. Poi si riprende la scena comune.

Il soggetto non viene eseguito nell’ordine con cui viene poi proiettato. Talvolta si fa per primo l’ultima scena dell’ultima parte, e a questa se ne fa seguire una della seconda. Questo dipende appunto dal fatto che essendo “piazzato” un ambiente che si deve vedere sia nella prima, che nella terza parte, si eseguiscono tutte contemporaneamente le scene relative.

L’attore raramente conosce la parte che interpreta. Questa disposizione fu presa dalle Case, in seguito a dei duplicati avvenuti, a copie di soggetti eseguiti dalle Case concorrenti.

E ciò rappresenta per l’attore una non lieve difficoltà.

In teatro si ha modo di studiare la parte, e il personaggio da interpretare; in cinematografo la scena viene spiegata al momento dal metteur en scène e l’attore deve improvvisare il personaggio, e dargli una linea, che dovrà poi conservargli durante tutto il lavoro.

È da aggiungere a questa difficoltà, quella che l’attore non ha, come avviene in teatro, il tempo di “montarsi” col susseguirsi delle scene, sul fatto, che vi ho detto, che queste non si fanno nell’ordine in cui si vedono poi proiettate sullo schermo.

Avviene così che un personaggio che esce da una scena ridendo, deve nella seguente piangere. O mentre voi lo vedete entrare in scena affannato per una corsa pazza, egli, i diversi passaggi delle corse, li ha fatti molti giorni prima, o deve ancora farli.

Sicché, per essere un buon attore, bisogna disporre di doti artistiche non comuni, e d’un particolare spirito d’improvvisazione; e l’arte cinematografica non è di quella facilità che potrebbe sembrare allo spettatore; senza contare che presenta pure dei pericoli, ed è sempre molto faticosa.

Per quanto talvolta, come dirò più avanti, si ricorra all’aiuto del trucco, pure certi ruzzoloni giù da qualche ripida discesa, sono autentici, e sono autentici… i bagni involontari… che talvolta l’attore deve fare in stagione non troppo propizia, e certe scenette a tu per tu con qualche animale che si preferirebbe ammirar a traverso delle solide sbarre, in un serraglio. Potrebbe confermare la mia ultima asserzione l’attrice Costamagna che fu ferita gravemente da un leopardo, e la conferma alla mia prima asserzione (quella dei ruzzoloni) la potreste avere da un attore mio amico, il quale, innamorato di una signorina, non osava domandarne la mano per non presentarsi zoppo. Non ebbe tempo a guarire che cadde di nuovo e si fece male all’altra gamba. In breve… si fidanzò… e si sposò, sempre zoppo.

Inoltre, se l’arte cinematografica ha dei vantaggi sulla vita del teatro, ha pure i suoi svantaggi.

Le spese di vestiario sono per gli attori cinematografici enormi, maggiori per le attrici; e mentre in teatro un abito dura eternamente, e si deve solo cambiarlo perché passa di moda, in cinematografo lo sciupio è molto maggiore.

Chissà quante volte vi è capitato di vedere una damina in abito da sera, correre attraverso a un giardino! Ebbene, a scena finita, quel povero vestito che s’è impigliato nei rami, ed ha battuto tutti i ciottoli del giardino, non è più servibile. E non è il caso di usare abiti da poco prezzo, perché il cinematografo rende esattamente, e avviene proprio per la bellezza muliebre, che non avvantaggia affatto. Sicché, se è vero che gli attori cinematografici hanno delle buone retribuzioni, è vero pure che vanno soggetti a grandissime spese, perché nei contratti d’opera c’è la parcella: l’attore deve vestire con lusso. E questo per un’attrice vuol dire, aver abiti da sera magnifici, un buon numero di vestiti da passeggio, da visita, da casa; pellicce, sortie, paletos, mantelli. Oltre a tutto ciò, un emporio di calzature, guanti, aigrettes, paradisi, ecc.; in modo che lo stipendio, a fine mese, per forte ch’esso sia, passa tutto nelle mani dei fornitori, e chi guadagna 2000 lire al mese, è nelle identiche condizioni, di chi ne percepisce 200.

Il “metteur en scène” nominativo francese, che non ha l’equivalente in italiano, ma che presso a poco vorrebbe dire “direttore artistico” è la persona che ha, nell’esecuzione del lavoro, la parte massima.

A lui infatti viene affidato il soggetto, che il più delle volte è solamente un sunto, o uno spunto di novella, e tocca a lui sceneggiarlo, secondo il proprio gusto. Quando del soggetto egli ne ha fatta una specie di commedia, l’ha diviso cioè in altrettante scene, egli dà ai scenografi la nota dei scenari che occorrono, agli attrezzisti le disposizioni per montare i diversi interni, al trovarobe la lista degli infiniti oggetti che nel film occorrono, ed infine agli attori le note dei vestiti. Poi, deve pensare a trovare coll’aiuto dell’operatore i luoghi per le scene che devono svolgersi all’aperto, case rustiche, passaggi pittoreschi, castelli medioevali, ecc., a seconda delle esigenze del soggetto.

Quando tutto è pronto il lavoro incomincia.

Ogni scena viene provata due, tre volte, finché gli attori la eseguiscono secondo il gusto del “metteur en scène”. È errato credere che i comici non parlino; ad ogni scena devono dire le battute che vengono loro suggerite dal direttore artistico, e che corrispondono presso a poco al titolo del quadro. Se l’attore parlasse soverchiamente si avrebbe la brutta impressione della bocca che si muove troppo, ma d’altronde qualche battuta è necessaria, per aiutare l’espressione ed il gesto.

Il gesto pure è oggi nell’attore cinematografico molto misurato; non era così ai primordi del cinematografo; quando credendo di essere più comunicativi, si gestiva scimmiescamente. Oggi l’attore si muove pochissimo; quello che lavora è il viso; ed in ciò si incomincia ad avvicinare il cinematografo a forma d’arte, perché nella vita i sentimenti non si esprimono colle mani né coi piedi, ma bensì colla fisionomia. Ed è perciò che più sono mobili le linee del volto di un attore, più egli risulta vero, e piace.

Faticosissime per il “metteur en scène” sono le azioni dove prendono parte le masse, perché se non è difficile farsi capire dall’attore, non è altrettanto facile arrivare al comprendonio delle comparse, e far muovere bene un insieme di qualche centinaio di persone, che sono quasi sempre ignorantissime.

Un buon “metteur en scène” deve conoscere i costumi di tutte le epoche, le armi, e i diversi stili,  quasi sempre conoscitore profondo della storia, e dovrebbe esse uno studioso dei diversi ambienti sociali.

Segue…