
Fino ad ora, quando in Cinematografia si è voluto creare qualche lavoro che uscisse dalla produzione di ogni giorno ed avesse pretensioni di spettacolo eccezionale, si è sempre ricorso per aiuto alla sceneggiatura.
Il copione è stato chiesto ad uno scrittore celebre, che, digiuno di Cinematografia, ha pensato un bel dramma, mosso da molte belle idee, non prive d’originalità, ma disgraziatamente però inadatto alla riproduzione cinematografica, perché troppo pieno di buone intenzioni artistiche e troppo vuoto in materia drammatica, che reggesse alla prova della rappresentazione plastica.
Qualche altra volta, invece, si è consultato un catalogo di casa editrice, e scelto il nome di un noto autore e di un bel lavoro. E i risultati sono stati gli stessi: il teatro, sempre inconciliabile col cinematografo, lo è rimasto anche allora; l’opera magnifica, che aveva sconvolto tanti pubblici e vinto tante battaglie, aveva lasciato freddi gli spettatori delle sale cinematografiche. A chi la colpa? Io credo unicamente al mondo del cinematografo, troppo ingombro di nullità e di parassiti, che, per lungo tempo, hanno letteralmente paralizzato il suo cammino verso una giusta espressione di progresso e di perfezione.
Come si sarebbe potuto chiedere qualcosa di eccezionale a chi poteva dare, e con qualche stento, il solo normale?
Fortunatamente, da due anni a questa parte, le cose sono molto cambiate. Gli stabilimenti cinematografici si sono decisi a chiudere le porte dietro l’incapacità di tutti gl’inetti, per riaprirle dinanzi alle speranze di tante limpide intelligenze e di nuove attività. Perciò oggi il cinematografo può permettersi il lusso di una sua produzione, direi quasi di una sua letteratura, può, in altre parole, iniziare una serie di lavori che siano stati ideati, tenendo conto di tutti i mezzi di rappresentazione, di cui esso dispone, mezzi numerosi quanto quelli che offre il teatro, dei quali del resto essi differiscono totalmente. Vero è che questa sua produzione è lenta. Per cento lavori se ne trovano dieci fatti con criteri tecnici ed artistici veramente buoni, e su questi dieci due soli riusciti, però è vero che questi due sono dei modelli che potranno molto insegnare e facilitare il compito ai retrogradi.
E un modello di lavoro veramente perfetto, sia sotto ogni rapporto artistico, letterario, che, e questo è il più importante, per l’industria commerciale, ci è parso riconoscere nella pellicola La doppia ferita, che, per gentile concessione del barone Airoldi, Direttore generale della Milano Film e del dottor Guido Artom — che con tanto successo si occupa della produzione artistica — ho potuto vedere giorni fa a Milano. Mi son divertito come alla lettura di un emozionante romanzo, di una fine novella, che alla rappresentazione di un sensazionale dramma o di una arguta commedia, son ridivenuto un poco fanciullo per lasciar sorprendere il mio spirito da un certo senso di ingenuo terrore, come quando da piccino leggevo i libri di Giulio Verne. Ho riso, ho sorriso, ho cessato di ridere e di sorridere e son divenuto serio ed attento, ho avuto paura per coloro che mi avevan fatto ridere e poi sorridere, ho respirato vedendoli al sicuro. Poi si è fatta la luce: la prima parte era terminata. Poi è ritornato il buio ed è cominciata la seconda e la terza e poi la quarta parte ed io sempre ho continuato attento a guardare le animazioni dello schermo, sempre più preso dalla curiosità di quello che sarebbe avvenuto e che avveniva, lasciandomi più avido, sempre più avido di conoscere il seguito, fino alla fine, fino alla luce della sala, fino al bianco inanimato dello schermo, fino ai complimenti all’interprete e al Direttore. Perché mi dimenticavo di dire che colei, che si era fatta seguire con gli occhi, con il cuore, con i nervi, con tutto l’essere sensibile teso in un desiderio vivissimo di conoscere, era Mistinguett, la celebre attrice francese, che tanto successo ha suscitato mesi fa per tutta l’Italia con la sua rivista C’est la mode, e l’ideatore e l’inscenatore di questo cinema-dramma è Augusto Genina, il più giovane, e, senza dubbio, uno dei più valenti direttori di scena che conti la Cinematografia italiana. Parlar di Mistinguett e della sua grande arte di attrice cinematografica credo sia cosa superflua: troppo essa è conosciuta e amata dal pubblico del cinematografo, per tutte le sue suggestive interpretazioni passate, perché si debba ora, con parole, sforzarsi di dare al lettore un’idea di ciò che già egli sa e ammira; dirò quindi solo come nella Doppia ferita Mistinguett abbia saputo completarsi e rinnovarsi, piegando il gioco della sua recitazione ad un sapiente e riuscitissimo studio di particolarizzazione del personaggio, che per ciò ha ricevuto da lei una fisionomia così completa, così reale, così umana da far pensare con rimpianto al teatro, ove l’interpretazione di una attrice vive più a lungo di un’ora di proiezione.
A giorni La doppia ferita affronterà il giudizio del pubblico nei principali cinematografi di tutte le città d’Italia e di tutto il mondo. Sarà un successo? — Non esito rispondere di sì. — Il lavoro ha troppi pregi di originalità, di movimento, d’interpretazione, è troppo stato studiato e foggiato sullo stampo dei gusti del pubblico per non piacere in modo superlativo.
E. Silvestri
(La Tribuna)