Lo chiamavano Non-ci-fossi

Monty Banks
Monty Banks a Hollywood (anni ’20)

di José Pantieri (Forlì 19 novembre 1941 – Roma 17 maggio 2013)

Il cognome « Bianchi » è uno dei più diffusi in Italia. Crediamo ce ne siano varie migliaia . Basta sfogliare qualche elenco telefonico delle grandi città, Milano, Roma, per rendersi conto; Bianchi, Rossi e Neri sono certamente i cognomi più comuni d’Italia. Un fatto curioso: nell’elenco telefonico di Milano, ci sono cinquantadue persone che si chiamano « Mario Bianchi ». Fanno i più svariati mestieri. Potrebbero costituire un partito o un sindacato.

Questo è un nome usato sovente anche da scrittori e giornalisti per dare ai loro personaggi il simbolo dell’anonimità. Ad esempio, Indro Montanelli, nella Domenica del Corriere (1), nel raccontare un fatto curioso scrive: « un cittadino qualsiasi, al quale daremo per comodità il nome di Mario Bianchi…».

Ebbene proprio un cittadino qualsiasi, il cui vero nome era Mario Bianchi, uno dei tanti che si chiamano così, divenne, un giorno, un artista importante ed anche, per un certo periodo, abbastanza famoso, seppure non con il suo nome comunissimo, ma con lo pseudonimo di « Monty Banks ».

Il nostro Mario Bianchi nasce in un casolare di campagna (2) nella periferia di Cesena, in provincia di Forlì, cioè nel cuore della Terra di Romagna. È il 18 luglio 1897. I suoi genitori sono dei contadini molto poveri che vivono con difficoltà. Il padre si chiama Leopoldo (1870-1939) ma è soprannominato « Poldo » o meglio « Puldin ». La madre, Gioconda Pieri (1872-1926), pochi anni prima ha dato alla luce una bambina, Maria (1894-1968) e, successivamente, avrà il suo ultimogenito, Urbano (1899-1918) detto « Bin », che morirà giovanissimo.

Per tentare di risolvere le difficoltà quotidiane, dopo pochi anni dalla nascita di Mario, la famiglia « Puldin » si trasferisce a Cesena, dove, al numero uno del vicolo della stazione, apre un negozietto di frutta e verdura. « Uno di quei vecchi negozietti di una volta dove si vendevano le sementi brustolite, i lupini, quelle cose lì… » ricorda un conoscente (3). In realtà le difficoltà erano tante. Vivevano tutti in un solo stanzone, lo stesso dove c’era il « negozio » (4) e non è che vivessero meglio di prima. Avevano lasciato la campagna, come fanno tanti illusi ancora oggi, credendo di trovare chissà quale prospettiva migliore « in città » e invece dovevano constatare, purtroppo, che si vive, sovente in modo peggiore e sopratutto in modo più disumano.

Tuttavia, una volta lasciata la « campagna », non è facile tornare indietro, e così anche la famiglia « Puldin » come tanti altri, si adattò alla nuova condizione di « cittadini » poveri. D’altronde, a quell’epoca, inizio novecento, « la vita in Romagna era molto difficile perché la miseria imperava su tutto e le persone vivevano così alla meglio, quella miseria dava pena nelle case e le persone non erano tranquille per l’incertezza del domani » (5).

Il nostro piccolo Mario, come racconta una sua cugina (6), sin da bambino cercava di aiutare, a suo modo, la famiglia. Andava a giocare con gli amici per strada e siccome era molto fortunato e abile, vinceva sempre lui e poi tornava a casa trionfante, perché aveva guadagnato qualche soldo da dare alla mamma per comprare un po’ di pane. Ma evidentemente quel « sistema » di guadagno non doveva durare a lungo e appena fu più grandicello, Mario andò a lavorare al buffet della stazione dove fu assunto come « sguattero ».

A quell’epoca, si cominciava quasi sempre col fare il « garzone » o lo « sguattero ». L’apprendistato della « gavetta » era un passo indispensabile « per farsi le ossa » e diventare precocemente autosufficienti e capaci di affrontare le numerose avversità della vita. Si dice poi, che il nostro Mario fosse un bambino molto vivace. C’è chi dice che era troppo vivace, tanto da procurarsi presto l’appellativo di « Non-ci-fossi », perché, come ricordano i suoi concittadini « c’era e non c’era », non lo si trovava mai, era sempre in giro, scappava dappertutto.

D’altra parte, la vivacità e l’irrequietezza sono caratteristiche comuni di molti ragazzetti; questi sono segni di vita, di intelligenza, di carattere, e il nostro « Non-ci-fossi » non tarderà molto a dare prova del suo talento e delle sue doti non comuni.

A Cesena, però, Mario si sentiva incompreso, sottovalutato, anche perché la Romagna di allora non offriva grandi speranze per uscire da una vita di miseria in modo onorevole e onesto: bisognava tentare fortuna altrove, oppure avere la pazienza di aspettare molto a dare prova del suo talento e delle sue doti non comuni.

« Non-ci-fossi » preferì andarsene, perché era stanco e deluso di « quella Romagna » e così un bel giorno decise di piantare tutto e tutti e se ne andò a cercare fortuna altrove. Ma non pensiamo che « Non-ci-fossi » mirasse tanto alla fortuna, come viene intesa dagli stolti, cioè alla « fortuna uguale a denaro, molto denaro », anche se in realtà lui fece fortuna anche in tal senso, perché dal nulla divenne ricchissimo nel giro di dieci o vent’anni. Crediamo invece che quel ragazzino vivace ed irrequieto cercasse anche e sopratutto di realizzare se stesso e di rendersi utile, in qualche modo, alla famiglia, che era povera, ai suoi amici, che erano poveri, e alla gente, verso cui si sentiva portato a trasmettere allegria e buonumore.

La sua vivacità era gioia di vivere e la trasmetteva da tutti i pori, anche se, secondo alcune versioni, da bambino questo « Non-ci-fossi » era una specie di « Gianburrasca » in versione romagnola, ma con molto buon cuore.

Così, un giorno, se ne andò da Cesena. Doveva avere sì e no tra i tredici e i quindici anni, era quindi giovanissimo, diciamo ancora un ragazzo, anche se aveva già una certa esperienza di sacrificio e di fatica.

Si dice che sia partito assieme a un gruppo di gente di circo di passaggio per Cesena: ma non è un fatto certo (7); comunque, con costoro o da solo, Mario detto « Non-ci-fossi » ancora ragazzo partì da casa, lasciò tutto e tutti per tentare una vita migliore, per tentare almeno di mettere alla prova le sue capacità. Restare a Cesena non aveva senso: il suo talento sarebbe andato sprecato.

1. Cfr. Domenica del Corriere del 12-12-1972 n. 50 Anno 74.
2. Questo casolare si trova attualmente in Via Ancona 467, alla periferia di Cesena. In passato era indicato come via S. Rocco 46. È stato un suo parente, Egisto Bianchi, che visse nello stesso casolare, a darci assicurazione di tale evento nell’intervista registrata a Cesena il 7-6-1973 e conservata nell’Archivio-Registroteca del Museo Internazionale della Risata.
3. Lionello Casali, della famiglia che gestiva il buffet della Stazione di Cesena. Intervista registrata a Cesena il 30-10-1972 (Archivio-Registroteca del Museo Internazionale della Risata).
4. Sul periodo vissuto da Mario Bianchi vicino alla Stazione di Cesena abbiamo attinto informazioni anche e sopratutto dall’ex-ferroviere Augusto Zacchini che fu vicino di casa della famiglia Bianchi. Intervista registrata a Cesena il 7-1-1973 (Archivio-Registroteca del Museo Internazionale del Cinema e della Risata).
5. Come ricorda Domenica Paganelli che visse in Romagna in quelli anni (Intervista registrata il 30-11-1972 (Archivio-Registroteca del Museo Internazionale del Cinema e della Risata).
6. Emilia Biondi. Intervista registrata il 7-6-1973 (Archivio-Registroteca del Museo Internazionale del Cinema e della Risata).
7. Sulla Partenza di Mario Bianchi per l’estero esistono anche altre testimonianze confuse e contrastanti, ma nessuna di esse ha particolari precisi e veramente attendibili.

(Monty Banks, un romagnolo a Hollywood, I.M.M.P.P. XII, Cesena 1976 –  © World Copyright by Giuseppe Pantieri 1974. All rights reserved – Tous droits réservés – Tutti  i diritti riservati)

Vietata la riproduzione totale o parziale. Per gentile concessione di Elia Buster Domenico Pantieri, figlio ed erede di Giuseppe Pantieri, in arte José.

7 pensieri su “Lo chiamavano Non-ci-fossi

  1. Saperlo, purtroppo i racconti di quel nonno lì non ho fatto in tempo a sentirli. Li ho ricevuti di seconda mano, quindi peggio che dimezzati. Erano ragazzini, la povertà più nera condizione comune. Mio nonno e suo fratello, per dire, già bambini facevano mattoni in una fornace. Poi Bianchi è andato in America e ha fatto fortuna. Chissà quanto del suo successo arrivasse all’epoca nella sua cittadina di provincia: di sicuro però il suo ritorno, credo solo a carriera finita, fu trionfale: si fece costruire una splendida villa subito fuori città su un colle che domina la valle del torrente Cesuola e poi la lasciò in eredità a una associazione che si occupa di disabili e portatori di handicap. Credo che sia stato un bel modo di restituire almeno una parte della fortuna che lui aveva avuto.

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