Attraverso l’obiettivo

obiettivo
in un mondo incantato...

Il primo obiettivo fu un forellino che certo Giambattista della Porta aprì in una camera oscura. Egli la descrive nel suo volume di Magiae Naturalis come una scatola chiusa con una piccola apertura munita di lente attraverso la quale penetrano, incrociandosi, i raggi luminosi riflessi degli oggetti esterni, la cui immagine va ad iscriversi su uno schermo piazzato ad una certa distanza. Giambattista della Porta fu un genio curioso e fantasioso e, presago forse di tutte le conseguenze che sarebbero derivate dalla sua scoperta, tentò anche l’invenzione del fonografo e al suo trattato aggiunse delle osservazioni sulla visione a distanza nonché sulla composizione dei filtri amorosi e sui rimedi più acconci per frenare la chiacchiera delle donne.

Subito dopo il padre Kircher, valendosi degli studi del Porta, costruiva il primo rudimentale apparecchio di proiezione, cioè la lanterna magica.

L’invenzione di Louis Lumière che consentiva la fotografia in movimento è qualcosa d’importante nella storia della civiltà umana come la scoperta della ruota compiuta da un nostro lontanissimo e ignoto progenitore. Un giorno si dirà che il nome Lumière l’hanno inventato i posteri, tanto sembra appropriato e augurale per lo scopritore del cinema.

Ciò che si captò allora nella camera oscura del Porta e che fu rivisto attraverso la lanterna di padre Kircher, meritò davvero gli attributi di « magica e taumaturgica » dei quali il geniale gesuita aveva gratificato la sua lucerna. (Quam (lucernam) non immerito magicarn et thaumaturgicam… appellandam duximus).

Così magico, così meraviglioso il cinema che gli uomini credettero fosse sufficiente aprire l’obiettivo sulla scena del mondo e… girare la manovella. Bastava. E per anni bastò. Ma gli uomini si stancano presto anche dei giocattoli fatati e si sarebbero stancati anche del cinema se, ipotesi assurda, il cinema si fosse limitato a… vivere di rendita.

Ma il destino del cinema è essenzialmente… cinematografico: tre secoli di ricerche e di scoperte l’una più sorprendente dell’altra non potevano esaurirsi in un divertimento per baracconi da fiera.

Quando la Provvidenza scomoda dei grandi personaggi come i citati, per non parlare dei numerosi altri, vuol dire che persegue un suo altissimo fine e chi si discosta da quella mèta è condannato prima o poi a pagare le spese.

Avvenne dunque nel cinema un’altra mirabile invenzione della quale non sappiamo precisamente a chi attribuire la paternità perché fu il premio della fatica e della nobile curiosità di molti.

Si comprese — ad un certo punto — che l’obiettivo nascondeva in sé altre magiche virtù e precisamente quella di potenziare all’infinito la sensibilità del nostro occhio e di vedere il mondo, l’ immensamente grande, l’ immensamente piccolo, i viventi e le cose, con una penetrazione che sembra divina. Non basta: si comprese anche che l’obiettivo poteva servirsi del reale per ricostruire l’irreale, poteva manipolare sul concreto per immaginare i sogni più strabilianti. Una macchina ottica, insomma, usata fin d’allora nei laboratori, negli osservatori e nei gabinetti dei fotografi, ci svelava una nuova poesia della vita. Non era più una macchina per noi, pur restando tale e perfezionandosi continuamente, ma diventava un arnese d’arte, qualcosa come il pennello del pittore e la stecca dello scultore, un pennello da intingere in una tavolozza prodigiosa, una stecca da manipolare nell’eterea argilla della luce.

Allora nacque veramente ciò che noi intendiamo cinema: prima ci eravamo divertiti come fanciulli con un giocattolo e lo spettacolo ci avvinceva per la curiosità, non per il fascino di poesia o il desiderio di sogno.

Quando veramente nacque non si può dire: fissare una data sarà impossibile fino a quando non si stabilirà con precisione quale fu il primo film veramente cinematografico, cioè quando si scoprì che, oltre i soliti trucchi di studio, pur essi leciti ripieghi della messinscena, ne esistevano altri più semplici ma più ricchi di conseguenze artistiche, le sole che importano.

E il primo di questi trucchi poetici, chiamiamoli ancora così per poco, fu il seguente: la macchina di ripresa non è un passivo mezzo di riproduzione della scena che si svolge dinanzi al suo occhio di cristallo, ma uno strumento col quale il creatore del film deve attivamente operare come fa il pittore col pennello.

La messinscena, il gioco degli attori, la disposizione delle luci non esauriscono la visione del film: v’è un atto che la completa e la definisce veramente come opera d’arte e questo è compiuto dal rapporto che di mano in mano assume l’obiettivo verso la scena. Spieghiamoci meglio: vedere di fronte, cioè filmare di fronte, dal basso, per scorcio, dall’alto, avvicinandosi, allontanandosi, porre cioè di volta in volta l’obiettivo in un dato punto, non è un’operazione di pura tecnica, né, tanto meno, può essere una decisione arbitraria. La manovra dell’obiettivo è invece un’attività artistica pari a quella del pittore che in un quadro elegge una determinata prospettiva e ritrae le sue figure, il suo paesaggio da un determinato punto di vista.

Ecco perché la scena esterna, quella che si vede nello studio mentre si gira un film è cosa assolutamente diversa da quella che si vede sullo schermo come, vale un vecchio esempio, l’immagine della bella ciociara romana amata da Raffaello e quelle di tutte le modelle di questo mondo sono immagini completamente dissimili da quelle che i pittori, servendosi di esse, fissano sulla tela. Uno stesso paesaggio è visto dai paesaggisti in modi diversi, e lo stesso pittore ripetendo in un secondo quadro la stessa scena la dipinge certamente diversa.

Orbene questa sensibilità artistica che nei pittori diventa colore, pennellata, disegno, prospettiva, si concreta nel film attraverso l’obiettivo.

Un esempio estremo: si deve girare una scena terrificante: un uomo è stato legato sui binari, fra poco arriverà un treno e lo stritolerà. Vi sono parecchi modi di riprendere la scena: mettendosi al posto di un insensibile spettatore e girando la scena come ci si presenterebbe da una ribalta, oppure centrando l’obiettivo nell’occhio della vittima che vede arrivarsi addosso la locomotiva, oppure centrandolo nell’occhio del macchinista che s’è accorto del misfatto. Nel primo caso avremo nello schermo una banale fotografia in movimento, nel secondo e nel terzo avremo una visione essenzialmente cinematografica; adopereremo il secondo se interessa a noi esprimere lo stato d’animo della vittima; adopereremo il terzo se importa svelare lo stato d’anima del macchinista, adopereremo l’uno e l’altro se vogliamo chiarire un rapporto fra la vittima e il macchinista.

L’esempio può essere di dubbio gusto ma è efficace perché esso, spero, fa comprendere non solo cos’è cinema o fotografia in movimento, ma anche ciò che può dare e che bisogna pretendere dal cinema e ciò che è possibile fare a teatro.

Il lettore avveduto si serva dell’esempio come di uno schema e dinanzi ad ogni visione provi a ragionare così: ciò che vedo è proprio l’essenziale, è proprio l’estrema conquista che si poteva compiere con l’obiettivo per raggiungere la massima efficacia?

Provando e riprovando penetrerà senz’accorgersene in un mondo incantato. Il vero divertimento può essere questo.