In Italia lo attendeva quella lunga ininterrotta serie di trionfi che si concluse con il suo ultimo film Giuditta e Oloferne del 1928. Poi si ritirò, non per l’avvento del sonoro, come molti erroneamente credono. Furono le sue condizioni di salute che gli impedirono di continuare.
È il figlio di Maciste che ora riprende la parola. Ci tiene subito a sottolineare che suo padre, dopo il trionfo di Cabiria, che senza tappe intermedie lo portò alla fama, non perdette per nulla le sue fondamentali buone qualità: la modestia, il cavalleresco sentimento di protezione dei deboli, la parsimonia. «Su questo punto desidero proprio si mettano le cose a posto una volta per tutte». E con animo accorato, mentre la signora Balduzzi, vedova Maciste, fa segni di caloroso consenso, si lamenta dell’ingiusto trattamento fatto alla memoria del padre da un settimanale che egli si trovò costretto a diffidare, obbligandolo ad una smentita. «Mio padre fu dipinto come un violento, un uomo che sperperava e che si dava ai bagordi. Nulla di più falso». E intanto si guarda attorno, come dire che la grande villa fatta costruire da Bertumè, con i risparmi accumulati durante la sua lunga carriera, e il vasto appezzamento del circostante terreno, che l’attore nelle pause tra l’uno e l’altro dei quaranta film girati si dilettava a coltivare ad orto e giardino, nonché gli stabili in Torino, stanno a dimostrare chiaramente che da buon genovese Maciste seppe accantonare e guardare al sodo. Neanche volendo, avrebbe potuto darsi a stravizi se non mettendo a inevitabile rischio la vita. Basti pensare che egli, sino alla fine, avvenuta per collasso cardiaco all’età di 68 anni, nel Giorno di San Giovanni del 1947, per ben un ventennio si portò appresso una grave forma di diabete, che lo obbligava a rigorosa dieta e gli causava disagi specie nel camminare.
E questa fu la vera ragione per cui dovette abbandonare prematuramente la sua attività artistica. Aveva anche sempre sofferto di sonnambulismo sin dalla gioventù. Portava infatti sul la testa, nascosta dalla capigliatura, una lunga cicatrice, frutto di un volo dal terrazzo della casa paterna. Per questo voleva dormire sempre da solo. Temeva di alzarsi incosciente e magari trovarsi a dar sfogo alla sua incontenibile forza sull’eventuale compagno di camera. Per tale disturbo alla leva militare fu anche riformato e non poté, con suo dolore, partecipare alla guerra del ’15.
A chiudere la spiacevole polemica e ad esaltare il mite carattere del Maciste interviene anche il vivente compagno di lavoro Aronne Giardini, quel già citato sette, che ci dichiarerà testualmente: « È stato un grave dispiacere per me e per i miei amici leggere quelle menzogne. Proprio non si può dire che sia stato il modo migliore di ricordare il gigante buono».
Era pur sempre un grande attore, avidamente ricercato da tutti. Stanno a dimostrarlo — tra le altre, che a mucchi continuavano a pervenirgli — le cospicue offerte avanzate dai produttori di Hollywood nel 1936, quando aveva già 57 anni. Aveva sempre condotto una vita regolare, e metodica. Durante la lavorazione dei film e nei periodi di riposo genovese, come norma, si alzava da letto un’ora e mezza prima dell’impegno fissato. Se ne stava un’ora intera nel bagno, perché era un maniaco della pulizia e dell’igiene, e anche un tantino vanitoso delle sue forme scultoree: non intendeva quindi essere giubilato da precoce vecchiaia. E. per questo, quotidianamente si dedicava — per trenta minuti esatti — a esercizi fisici, nella palestra ancor oggi in efficienza nella sua casa di Sant’Ilario o in quella che la Pittaluga gli aveva fatta appositamente approntare negli stabilimenti. Il suo sogno era di poter godere la pace delle natie colline con il bel mare sotto: non appena le condizioni economiche gli consentirono di tornarvi e di starsene appartato, lo fece senza rimpianto.
(testi: Giovanni Pandolfi, La Cinematografia Italiana ed Estera, La Rivista Cinematografica)
Ricordo bene che da bambino il mio babbo mi portò a vedere “Maciste all’inferno”, in un cinema di Siena. Alcune scene infernali, accompagnate da un pianoforte suonato da un cieco, mi atterrirono e non le ho più dimenticate. Nel finale, quando Maciste ritorna sorridente e felice nel mondo dei vivi, tutto il pubblico, commosso, si sciolse in un lungo applauso.
Grazie per condividere questo ricordo. A presto!