
— Non ti ho detto poc’anzi che sono l’inventore d’un apparecchio per la visione a distanza? Un giorno, mentre discorrevo con Susannetta al telefono, e ne sentivo la voce dolce, armoniosa, carezzevole, facevo fra me stesso questo soliloquio: « Che bella cosa sarebbe, se oltre alla voce, potessi vedere il suo viso riflesso in qualche parte dell’apparecchio ! » E più tardi lo stesso pensiero venne a ronzarmi alle orecchie. « Se si è trovato il modo di trasmettere la voce a distanza — mi chiedevo — perché non deve trovarsi il modo di trasmetterne la visione ?» Si otterrebbe così il telecinematoscopio.
La mia idea, lo ammetto, non è totalmente originale. Del telecinematoscopio si sono già occupati Adriano de Paiva e Seulecq in America, Arton e Perry in Inghilterra, Marcel Desprez e Maurice Lebranc in Francia. Nel 1894 se ne occupò il prof. Armengaud, dopo di aver notato la proprietà posseduta dal selenio, di avere una resistenza elettrica variante secondo l’intensità della luce che agisce su questo metallo, studiò il modo di servirsi di esso, ne’suoi esperimenti di visione a distanza. Ma questi esperimenti non ottennero risultati pratici.
Innamoratemi del soggetto, proseguii gli studi e trovai che il selenio, essendo un corpo fotoelettrico per eccellenza, non ha chi lo eguagli nel trasmettere un’immagine animata con l’elettricità…
— Questo nel campo teorico — interruppi io; — entriamo ora in quello pratico. Come si ottiene la visione?
— Allo stesso modo che col cinematografo: proiettata sopra una superficie.
Nel cinematografo si fa agire l’apparecchio facendo passare davanti alla lente d’ingrandimento le mille istantanee componenti il film; sul telecinematoscopio si gira invece una chiavetta. Si sprigiona allora da una specie di obice, situato in una delle faccie della cassetta contenente l’apparecchio, un fascio di luce, che si proietta sulla superficie. Tutto ciò che è situato nel campo visivo dell’obloc dell’apparecchio trasmettitore (il quale, si intende, è unito al ricevitore mediante un filo elettrico), si vedrà riprodotto in tutte le sue particolarità. E siccome il telecinematoscopio non è altro che un cinematografo indipendente dai films, la scena risulterà animata.
Tu comprendi il resto. Io sono in comunicazione con mia moglie per mezzo del telefono e del telecinematoscopio. Ella però sa dell’uno e non dell’altro. Ho detto a lei che l’apparecchio, munito d’un sol occhio, come i ciclopi, è un complemento a quello telefonico, poiché la grande distanza che ci separa non ci permetterebbe altrimenti di comunicare a viva voce. E Susannetta eh’ è tanto ingenua, tutta bontà e candore, lo crede. Ed è così eh’ io posso spiarla quando si trova nella stanza ov’esso è situato.
La scoperta di Rodolfo mi parve subito meravigliosa. Vedere a molte migliaia di chilometri di distanza il volto delle persone a noi più care è il massimo delle soddisfazioni che possiamo domandare alla scienza.
Per quanto ignorassi — come ignoro tuttavia — il sistema seguito dall’amico, gli studi per la visione a distanza non mi erano sconosciuti. Avevo seguito, nei rendiconti di talune accademie scientifiche, gli esperimenti sulla trasformazione delle variazioni elettriche in variazioni luminose. Sapevo perciò degli studi di Lazzaro Weiller, di Belin e di Blondel, del telestereografo e dell’oscillografo.
Rodolfo guardò l’orologio. Sono le cinque — disse. — Susannetta deve essere ritornata in casa. Quest’oggi doveva prender parte ad una riunione. Ella è vice-presidente della Società per la riabilitazione delle donne traviate…
— Vieni — aggiunse levandosi da sedere.
Lo seguii.
M’introdusse in una stanza abbastanza vasta, occupata da tavoli di tutte le dimensioni, sui quali notai una macchina Rhumkorff, un regolatore Serrin, un microfono Hughes. Le pareti erano ricoperte quasi per intero da orologi elettrici del sistema Lemoine e Haudin, e da barometri e termometri di tutte le forme. Sul centro d’una di esse era situata la meravigliosa invenzione di Rodolfo, formata da una cassetta rettangolare portante sul mezzo l’occhio di cristallo, l’obloc, di cui egli aveva parlato. Dalle parti laterali della cassetta partivano parecchi fili elettrici, che s’intersecavano poi bizzarramente sulla parete, per sfuggire in seguito dalla finestra.
— Il suo funzionamento — mi disse l’amico, indicandomi con compiacenza il telecinematoscopio — è semplicissimo: si gira questa chiavetta e dall’occhio di cristallo si sprigiona come ti ho spiegato, un fascio di luce, che va ad infrangersi sul quadro bianco di faccia. Se Susannetta si trova nella stanza ov’è situato il ricevitore, tu potrai vederla muoversi, gestire, accudire alle faccende domestiche.
Così dicendo chiuse gli sportelli della finestra per avere una certa oscurità; si accostò poi all’apparecchio e ne girò la chiavetta. Si produsse allora un fascio di luce vivida, simile a quella che si sprigiona dai riflettori a magnesio. Il quadro ne fu illuminato. Vidi… che cosa vidi !
Se campassi mille anni non lo dimenticherò mai. Talune impressioni restano impresse nella nostra mente come l’immagine sulla lastra fotografica.
Desideravo, è vero, conoscere Susannetta in qualche geniale esplicazione della sua vita donnesca; ma non avrei mai supposto che la vita donnesca avesse per lei le più opposte esplicazioni. Ella rassomigliava nel fisico ad una di quelle figurine che Boucher ha immaginato sull’altalena o sdraiate sul musco nei parchi ombrosi dì Versailles e di Fontainebleau; od una di quelle figurine leziosamente eleganti, idealmente vaporose, quali si vedono ancora dipinte sui ventagli delle nostre bisavole. Ma che cosa vidi, dunque?
Susannetta, la buona, la dolce, l’onesta Susannetta, la vice-presidente della Società per la riabilitazione delle donne traviate, non era sola in casa: un giovane le teneva compagnia. La loro intimità non era dubbia. Ella stava seduta sulle sue ginocchia in una posa di voluttuoso abbandono. A quella vista, Rodolfo mandò un ruggito di belva ferita; mi afferrò per il braccio con violenza. Le sue unghie mi lacerarono le carni, come i denti d’una morsa. Lo sentivo respirare affannosamente ed emettere ad intervalli rantoli angosciosi.
Anche egli seguiva lo svolgersi della scena con un interesse maggiore certamente del mio. Era pallido da far paura; aveva gli occhi smisuratamente aperti, come quelli d’un allucinato. Avrei voluto metter fine a quella tortura morale e rimprigionare il fascio di luce galeotto. Rodolfo indovinò il mio pensiero; mi trattenne, stringendomi ancora più forte il braccio. Tuttavia riuscii nell’intento. Tolta la comunicazione elettrica il fascio di luce si estinse e la stanza restò in una semi oscurità…
Riaprii gli sportelli e, con dolce violenza, feci sedere l’amico sopra un divano… Che cosa dicessi a lui per tranquillizzarlo, non rammento bene. Certo, le solite banalità del momento. Rammento solo che dovetti affaticarmi molto per dissuaderlo dal partire subito per la villa. La sua eccitazione gli avrebbe fatto commettere uno sproposito. Uscimmo in strada; vagammo per la Riva degli Schiavoni, per il giardino pubblico, quasi muti entrambi. Un dolore così intenso meritava il più religioso rispetto. Egli era un vinto dalle apparenze.
Obbligato, come ho detto, a partire la sera stessa per Milano, lo raccomandai ad un amico comune, il quale qualche giorno dopo mi scrisse che Rodolfo era scomparso improvvisamente, portando con sé il segreto della sua invenzione.
Ho voluto scrivere di lui e del telecinematoscopio perché altri non possa un giorno, indovinandone il sistema, ricostruirlo e farlo passare per opera propria. Così, e non altrimenti, dicessi facesse Graham Bell con l’italiano Meucci, il vero inventore del telefono. Di Rodolfo Alfiani sia quel che Dio vuole. Un cuore ferito sanguina sino alla morte!…
Giovanni Paesani, ottobre 1908