“La Film Artistica Gloria vincendo le maggiori offerte di alcune Case Italiane si è assicurata la proprietà di Lidia Borelli (sic) la celebre, charmante artista italiana per l’interpretazione di due grandi lavori.” (nell’immagine a sinistra)
Torino, 19 agosto 1913, ore 14.
I molti forestieri convenuti al celebre Santuario di Trana in gita di piacere attratti dalla magnificenza dell’alpestre luogo o in pio pellegrinaggio, sono stati testimoni di una movimentatissima scena.
Lyda Borelli, mentre usciva dal santuario, è stata… rapita da una sotnia di cosacchi nelle loro sgargianti uniformi, al comando di alcuni ufficiali e di un personaggio misterioso nonché in borghese. La comitiva si involò, fatto il colpo, rapidamente verso Torino, in sei o sette automobili.
La presenza in quel pio luogo dell’avvenente ed elegantissima attrice e sopra tutto l’audace rapimento italo-russo formarono le alte meraviglie e gettarono anche l’allarme nella folla; ma allarme e meraviglia durarono fortunatamente brevi istanti, perchè fu visto da una vicina altura un uomo, che, cinicamente, durante lo svolgersi della scena, girava la manovella di un apparecchio cinematografico.
L’episodio clamoroso era avvenuto per incarico di una casa cinematografica, la Gloria Film che ha scritturato la Lyda Borelli per una serie di pellicole.
Si tratta delle riprese del film Ma l’amor mio non muore, diretto da Mario Caserini.
Tenere il pubblico per circa un’ora attento, farlo divertire, provocare un’ilarità schietta, sana, con mezzi di una semplicità veramente unica, ecco il miracolo che Casa Ambrosio ha saputo compiere!
La scelta della produzione, non poteva essere migliore: il brio indiavolato, tutto francese, anzi parigino che sprizza dalla graziosa eroina, educanda, cantante, amante, sposa; tutto quel che si vuole nel limite dell’onestà, più meno convenzionale, una commedia insomma -che non è ancora una pochade, ma la rasenta con garbo; che ad ogni modo è una trovata giustificante appieno il mondiale successo con cui continua a percorrere i teatri, – e ora i cinematografi – dei due emisferi – tale produzione, diciamo, non poteva avere rivali come première d’inaugurazione, per la sua trama festosa che fa buon sangue e aggiunge coi suoi sani sorrisi, un filo per quanto tenue, al tessuto sottilissimo della vita.
Santarellina, dunque, è un capolavoro, e quello che più conta, un capolavoro di comicità, e tutti sanno che far ridere senza parole e senza pagliacciate, è l’arte più difficile che ci sia.
Gli ambienti di Santarellina, sono ambienti veri, autentici, quadri di una chiarezza e di una luminosità indovinata.
Dalla fotografia non ne parliamo: è fotografia di Casa Ambrosio. E gli artisti? Gigetta Morano, nella parte della protagonista, fu un’interprete perfetta, di una grazia e di una furberia da far venire la voglia matta di baciare… il quadro che la riproduceva. Ercole Vaser, nella non facile parte del maestro Celestino, fu di una naturale ed eccellente comicità. Ah! Come si ride di gusto a vedere il disgraziato Floridoro nelle diverse sue critiche situazioni! Tutte le volte che Vaser si muove scoppia nel pubblico una risata fragorosa. Questo attore in un attimo si è rivelato un prezioso elemento e non sappiamo perchè la Casa Ambrosio abbia aspettato fin’oggi a farlo conoscere ai pubblici di Europa; da parte mia, su queste colonne gli invio un elogio spassionato, come critico e come amico. Il Bonnard, veramente corretto e bello – oh! Si, bello! E glielo possiamo dire noi che siamo uomini, e quindi al sicuro dalle sue languide occhiate e dai suoi sorrisi irresistibili.
E formidabile il Maggiore di Chateau-Gibus, lo Zocchi ch’è di una severità e di un temperamento così collerico da far… schiattare dalle risa?
Aggiungiamo a costoro la signora Gobbi, molto bene nella parte di Madre Abadesa, la signora Brioschi (Corinna) e tutti gli altri che nella film presero parte lavorando, con impegno ed abilità senza pari.
Ci permetta l’egregio Caserini di stringergli fortemente la mano: sapevamo già quanti meriti egli abbia ma Santarellina ci ha entusiasmati ed è lui che con pazienza e vero sentimento artistico l’ha saputa dirigere e condurre al trionfo.
La messa in scena è accuratissima; gli sfondi, i contorni, sia dei quadri esterni che degli interni fanno denotare il gusto squisito del buonissimo operatore Scalenghe, al quale rivolgiamo anche la sua parte di lode augurandoci che la valorosa Casa Torinese ci dia presto un altro di questi lavori, che riempe oggi di ammirazione i pubblici d’Italia e dell’estero.
Ego.
Santarellina Ambrosio 1912
L’azione è desunta dalla celebre operetta, ma l’intreccio è in questa cinematografia mirabilmente complicato e migliorato attraverso una ad una fuga di quadri logica e serrata che non stanca ma trascina il pubblico. L’azione consta di tre parti: nella prima Denix parla attraverso il pudibondo paravento conventuale con Fernando l’ignoto fidanzato; è affidata all’ipocrita maestro di musica Celestino che la deve condurre a casa. Nella seconda sostituisce l’attrice scioperante, debutta e trionfa nell’operetta di Celestino Floridor; va in caserma, si traveste da ussaro, balia con Fernando, prende la lezione di equitazione; nella terza infine ritornata educanda, parla con Fernando, e questa volta senza paravento… Essi s’intendono al volo e Fernando presenta in un magnifico quadro finale al pubblico la sua fidanzata educanda, attrice, cavallerizza ad un tempo.
Santarellina è una Mascotte: porta fortuna a tutte le persone che hanno l’astuzia o il buon senso di ingraziarsela. Nata a Parigi, nella città diabolica per eccellenza, diede lustro e fortuna a qualche dottrina di maestri Floridoro e di educante Nitouche; trasmigrata in Italia, toscaneggiata in Santarellina e napolitanezzata in Santarèlla, offrì cartelle di rendite a Novelli e una villa a Scarpetta; tradotta dalla ribalta al panno bianco del cinematografo riconferma e sanziona definitivamente la gloria e là fortuna della casa Ambrosio. Inutile discutere e sofisticare: qui ci troviamo di fronte all’opera imposta; e sarebbe ridicolaggine e stoltezza voler fare la critica al capolavoro. E badate, lettori: io non ho perduto il senno al punto di dichiarar capolavoro quella commedia stranissima e spesso inconcludente che ha suoi protagonisti un’ educanda troppo astuta e un organista troppo scemo, e le cui vicende si svolgono e si concludono solo o in forza della volontà o del capriccio di due autori capiscarichi, ostinati a mettere assieme un sacco e una sporta di allegre diavolerie per cavarsi il gusto di esilarare il prossimo e di far soldi a palate. In Santarellina, l’arte non entra, né per diritto ne di traverso: è una pochade: cioè una cosa lontana dalla logica e del senso comune : uno scherzo composto per far quattro risate e per assestare ancora un calcio alla verità e cacciarla dietro le quinte. Nulla di più stolto e irragionevole dell’avventura di quell’organista e di quella educanda : unico pregio di Santarellina — se di pregi si possa parlare — è quello di aver visto, pur se con lenti d’ingrandimento, il tipo di quella monacella indiavolata che sa cosi stupendamente menar pel naso il piccolo mondo che le si muove attorno. Ed è appunto in questa scoperta di un carattere umano devastato e deformato della caricatura la ragione della smisurata fortuna che ha arriso e tuttavia arride a Sàntarellina. Mettiamo quindi, da canto 1’opera considerata in se stessa e nelle sue relazioni con 1’arte; e occupiamoci qui della riproduzione cinematografica, che a parer mio, costituisce la massima fortunata audacia della ditta Ambrosio.
Audacia notevole, specie in questi tempi in cui l’arte del cinematografo è oppressa e corrotta dal malanno del dramma a fortissime tinte e di interminabile metraggio. Ci vuole una buona dose di coraggio; e una grande fiducia nella bontà di un programma che ha scarsi seguaci per lanciare sul mercato cinematografico, tutto invaso dagli applauditi e proficui orrori di drammacci interminabili complicati e sanguinolenti, una commedia allegra, e per giunta in tre atti, e per giunta ancora tenue e parca nei suoi partiti comici. Al cinematografo si tollera il film comico, pur che sia breve e saturo delle più inverosimili buffonate del sig. Cretinetti e del sig. Tontolini; non si resiste a lungo, se non a patto di mantener desto e vigile lo spirito dello spettatore mediante un intreccio complicato, tenebroso, commovente, e che si risolva tragicamente. Vincere di questi tempi con i tre atti di Santarellina, nei quali non c’ è ombra di interesse e anche il comico o è stupido o a fior di pelle, significa trionfare per ragioni estranee al contenuto della pièce : non per le virtù sostanziali, ma per quelle ulteriori della cosa rappresentata. E’ l’ultimo felicissimo successo della Ambrosio è appunto dovuto alle qualità formali del film di Santarellina : un vero innegabile e indiscutibile prodigio di riproduzione fotografica e d’ interpretazione. Gli ambienti a traverso i quali l’azione si svolge sono scelti e arredati con aristocratico buon gusto specie la scena del giardino dell’educandato e l’altra del teatro in funzione costituiscono due manifestazioni sorprendenti di verità. Fotografie irreprensibili, curate con vero cuore di artista fino nei più remoti e trascurabili particolari. Non risparmiarne la lode alla ditta Ambrosio, la quale ci aveva del resto , abituati a simili spettacoli di precisa e luminosa bellezza. L’interpretazione è, come ho detto più innanzi, perfetta : di una sobrietà, di una sicurezza, di una fusione esemplari : specie i tipi di Santarellina e di Floridoro sono incarnati e mossi in modo mirabile.
Santarellina merita il lieto gran successo riportato. Essa è sopra tutto e innanzi tutto, una bella e coraggiosa eccezione di semplicità nella regola ingombrante e asfissiante di una cinematografia nutrita di tutti i veleni e di tutti gli orrori della più detestabile cronaca nera.
Contro il cinematografo ne sono state dette e stampate di tutti i colori. Più esso entrava nelle simpatie delle masse, più si accentuavano le avversioni. E non tutte invero, interessate.
Qualcheduno nella recente invenzione e nel favore che l’ha accompagnata ha voluto vedere persino un indice di decadenza e ha imprecato al cinematografo augurandogli un mortale esaurimento per anemia.
L’arte cinematografica – poiché può realmente chiamarsi arte – ha invece preso più che mai piede Essa si è affrancata dalle pastoie che prima la tenevano e ha assicurata la sua vitalità.
E’ certo che se essa si fosse ancora tardata alla riproduzione dei soliti fattacci di cronaca, delle vecchie favole sentimentali, fritte e rifritte nei copioni dei primi letteratonzoli del nuovo genere, avrebbe finito per stancare e avrebbe dovuto rassegnarsi ali’ isolamento nelle fiere paesane, ove soltanto avrebbero ancora potuto aver fortuna e le commoventi storie d’amore e le straordinarie avventure dei poliziotti dilettanti e della mano nera e il paradossale grottesco delle scene comiche finali. – Ora forse non più.
Che sia un bene o che sia un male non è il caso di discutere.
Sta il fatto che la cinematografia si è affermata e ha assicurato il suo successo. La speculazione commerciale si è mutata, o forse meglio si è combinata con una manifestazione artistica, ha messo a contribuzione letterati fra i migliori, musicisti, pittori decoratori: ha chiamato a sé gli artisti di teatro dei più acclamati, sicché questi che pur dianzi urlavano il «crucifige» non disdegnano ora più – per le mutate condizioni — sperimentare ogni loro abilità dinanzi all’obbiettivo fotografico e contribuiscono al successo della film.
Ma, per giungere a tanto, ostacoli non lievi si sono dovuti superare. La rappresentazione ristretta nella sola anione mimica — spesso ancora questa scadente – privata dal coefficiente più grande e migliore che è la parola, n’era uno dei maggiori.
Alla deficienza si è dovuto supplire ricorrendo ad altri elementi: si è dovuto allettare il senso della vista usando magnificenza e grandiosità. Posto il principio della concorrenza al teatro si è dovuto dare qualche cosa di più del teatro.
Sono sorte così le grandi case cinematografiche le quali impiegano capitali ingentissimi, le quali hanno eserciti di operai, intere compagnie artistiche, fabbriche proprie, materiale ricchissimo. Sono venute così le spettacolose films nelle quali con diligenti studi di tipi e di ambienti, con accurate ricostruzioni si fanno rivivere sullo schermo bianco episodi di lontane epoche storiche, le quali sulle altre ricostruzioni narrative, poetiche, drammatiche questo vantaggio principalmente hanno: la verità.
Oggi una casa cinematografica italiana la «Films Artistica Gloria», ha tentata la ricostruzione di uno dei più meravigliosi periodi di Roma imperiale, periodo di magnificenza e di fasto che caratterizzo il precipitoso declinare dell’antica potenza, quando il «civis romanus» era ormai troppo grave peso lo scudo e l’asta e solo amava l’orgia, sia pur goduta nelle taverne della suburra o fra gli sfibranti profumi delle sale imperiali.
La lunga pellicola riproduce fedelmente un ambiente che la nostra sola virtù ideativa può difficilmente far rivivere attraverso le comuni conoscenze storiche. E in essa, più che la virtuosità degli attori che la interpretano, è elemento di precipuo valore il concorso portatevi dagli studiosi che si sono attardati con paziente amore sulle più piccole sfumature.
Rappresenta Nerone e Agrippina ed è una evocazione meravigliosa della romana vita durante il regno del sanguinario istrione che, allievo del filosofo più vantato, adunò in sé e peggiorò le dissolutezze e le atrocità dei precedenti imperatori, fece pompa delle infamie che Tiberio aveva nascoste fra gli scogli di Capri, trattò espertamente veleni, incendiò, uccise maestro e moglie, amante e madre, mentre sottoterra in antri impenetrabili ed oscuri, una nuova società, così diversa dall’altra, che doveva sovvertire il mondo pagano e instaurare una nuova legge di rigenerazione gettava i suoi primi tentacoli fra le persecuzioni e i supplizi.
Agrippina (Maria Caserini Gasperini)
Accanto alla paurosa figura del vituperevole Cesare, e le dissolutezze e la tristizia della madre Agrippina e la sua ambizione di comando che la rende nemica al figlio del figlio e intorno la corte imperiale ove gavazzano liberti e feccia di femmine, cinedi pretoriani, filosofi, e il tumulto delle passioni e gli sconci festini, le ruberie, la ribellione.
Tutto questo rivive nella proiezione dell’immagine.
Dalla Domus Aurea e dai Palazzi imperiali della Roma neroniana alle divine marine d’Anzio, dove la trireme ancorata attendeva il sacrificio di Agrippina, dai quieti riposi delle ville di Pompei (un quadro di Alma Tadema in movimento), alla scena arguta del Senato Romano, dal teatro strepitante di patrizi e di popolo allo spettacolo raccapricciante di Roma incendiata dalle orgie del torbido imperatore al supplizio tremendo dei cristiani, esposti alle belve e crocifissi fra le fiamme del Circo, dalle prime commoventi riunioni dei cristiani alle catacombe al terribile suicidio di Nerone, tutta l’epopea del crudele imperatore esteta a cui Roma, giunta al fastigio della potenza e dello splendore, offre i suoi fastosi scenari, rivive innanzi allo spettatore.
La ricostruzione mimica esatta, organica, sfida la descrizione verbale.
Essa vince, per così dire il lento ma deleterio sfacelo dei secoli, riconduce la vita fra le rovine millenarie che conobbero ogni fortuna, rimette sui piedistalli le statue cadute, ripopola di folla pretestata gli altri marmorei delle basiliche i colonnati del Foro, riconduce la vita nella fastosità grandiosa della Roma dei Cesari.
Rivediamo lo splendore sfarzoso delle case romane popolate di schiavi, muti e paurosi ministri di orgiastici riti senza nome, l’eleganza raffinata del gusto orientale che ha spodestata la semplicità della foga quirite, i segni della decadenza e del disfacimento sì, in uno scenario il più magnifico e della più pura bellezza classica.
E’ la nuovissima fra le arti la cosi detta arte del silenzio che fa rivivere questo mostruoso prodotto di elementi diversi, Nerone, pauroso, irrequieto figlio di un laborioso periodo di disfacimento morale che passò sul mondo — come dice il Sienkievikz — simile al turbine all’uragano, all’incendio, alla guerra, alla peste.
Ma per giungere a questi effetti occorre una seria rigorosa organizzazione e capitali ingentissimi. In questi due elementi, sta la salvezza avvenire dell’arte cinematografica.
Dicono – e bisogna crederci – che questa nuova pellicola costi un milione.
Disciplinata sotto una sapiente direzione artistica, studiosa dei più minuti particolari nella ricostruzione dell’ambiente per ossequio, pur nelle minuzie della verità storica, essa ha avuta necessità di una folla innumere di attori, di vestiaristi, di pittori, decoratori, scenografi architetti. Mi dicono che per le scene delle feste nel circo che ebbero a modello l’ampio pulvinare dell’arena di Verona, siano state impiegate oltre quattromila persone. Io ricordo con viva soddisfazione lo spettacolo che si offrì a Pegli per riprodurre l’imbarco di Agrippina sulla Trireme a Baia ove ella si era recata per assistere alla celebrazione delle feste di Minerva. Sulla spiaggia tutta colonne e archi scintillanti di dorature il tempio della dea e il pontile e la colonna della vittoria. Al largo, nel mare, folla di triremi popolate di ciurma, di matrone senatori pretoriani, danzatrici, sacerdoti, liberti.
Per rappresentare l’incendio di Roma, il più grandioso episodio, certo, di .quel tempo, fu d’ uopo costruire nei pressi di Torino una intera città che riproducesse fedelmente quello, che per le memorie storiche, doveva essere l’Urbe nell’anno 62 di Cristo quando Nerone fece distruggerla per fabbricarne una nuova cui imporre il suo nome.
In tutta la film nessun particolare è stato dimenticato non un dettaglio falsato, ma ogni quadro, ogni sfondo è un saggio di fedelissima ricostruzione, ogni costume è un miracolo di studio, di pazienza e di sapienza.
Ora io mi avvedo che ho inaugurato un nuovo campo per l’indagine della critica.
L’ufficio del Critico portato anche nell’arte cinematografica: è necessario. Ma quelli che avversano la nuova arie hanno pronta la critica, e denunziano che il cinematografo non esprime se non il già detto. Ma che forse l’attività intellettuale è oggi sempre e dovunque originalmente creativa ?
Nerone ed Agrippina, produzione della Film Artistica Gloria di Torino
circa 4000 metri, 10 atti
Interpreti principali: Maria Caserini Gasparini; Lydia De Roberti; Letizia Quaranta; Fernanda Sinimberghi; Vittorio Rossi Pianelli; Mario Bonnard; Emilio Petacci; Paolo Rosmini; Aldo Sinimberghi; Camillo De Riso; Gentile Miotti; Dante Cappelli; Telemaco Ruggeri.
Direzione artistica e messa in scena di Mario Caserini.
Assistenti alla messa in scena: Giuseppe De Liguoro, Emilio Petacci, Alberto Degli Abbati
Operatori: Angelo Scalenghe, Giacomo Farò.
Soggetto tratto dalla vita dei Dodici Cesari delle storico Svetonio. (Dalla brochure originale del film)