Paris. 15 Juillet 1921. Pina Menichelli tourne a Paris La Dame de Chez Maxim’s.
La grande étoile italienne Pina Menichelli vient d’arriver à Paris accompagnée de son «producer» M. Charles Amato, directeur de la Rinascimento Film, de son metteur en scène, M. Amleto Palermi, de son opérateur et de tout un petit monde de petits rôles, machinistes et décorateurs qui suivent la créatrice du Feu dans tous ses déplacements de travail.
Aussi bien Pina Menichelli n’est-elle pas venue dans la Capitale pour s’y distraire ou s’y tailler une réclame tapageuse dont son talent, fait de sincérite poignante et de beauté lumineuse, n’a nul besoin? Le but de son voyage est purement cinématographique, si l’on peut dire, et quelques heures après sa desdente du Rome-Express la troupe de la Rinascimento-Film tournait, rue Royale, les premières scènes de la Dame de Chez Maxim’s.
Un de nos plus joyeux et amusantes artistes, M. Marcel Lévesque, s’était joint à la compagnie italienne et ce ne fut pas un spectacle sans attrait que de voir à la terrasse de Maxim’s l’hilarante bande d’actrices et d’acteurs muets venus d’au delà des Alpes pour jouer les noceurs attardés.
Pina Menichelli capiteuse sous le treillage d’or de ses cheveux blonds simulait, à s’y méprendre, les fatigues et le désordre d’une nuit agitée au cabaret légendaire. Marcel Lévesque, le haut de forme en goguette, menait un train endiablé.
«Mince de biture! Qu’est-ce qu’elle a pris la môme!»
Et cependant que les réflexions des badauds abusés s’entrecroisaient malignes, voir même méchantes, M. Amleto Palermi, raide, impassible et froid se tournait vers l’opérateur, caché derriere un pilier du Ministère de la Marine, et lui lançait le traditionnel et sacramentel: «Gira! Gira!»
Nous avons pu, l’après-midi, être reçu au Claridge-Hôtel, où elle est descendue, par Mme Pina Menichelli, qui, en compagnie de Liliane Meyran, elle-même retour de Rome, prenait hâtivement une tasse de thé.
— Mes impressions sur Paris, dit-elle, je vous les donnerai volontiers, mais puis-je le faire sans avoir encore rien vu de la vraie Capitale. Liliane Meyran, votre gracieuse compatriote, m’a promis à Rome de m’aider à tout voir et tout entendre du vrai Paris. Vous le voyez, nous venons à peine de nous retrouver et nous partons pour une première visite rue de la Paix. Ajoutez à cela que je tourne demain matin boulevard Hausmann et place de l’Opéra et qu’il me faudra être sur pied à l’aube. Dites cependant que le premier contact a été charmant. Je suis à la fois ravie et un peu désorientée. Quelle ville magnifique et magique!
“Nel pieno vigore delle sue forze fisiche e nella piena maturità del suo ingegno, dopo breve ma gravissima e penosa malattia, alle ore 24 del 20 aprile è morto in Roma, nella sua casa di via Boezio 7, il regista Amleto Palermi. Era nato a Roma, l’11 luglio 1889.”
Con l’improvvisa scomparsa di Amleto Palermi (si può dire ch’egli sia morto sul lavoro avendo appena iniziato un nuovo film La donna senza nome) la cinematografia italiana perde uno dei suoi elementi migliori, uno dei suoi artefici più rappresentativi, il lutto non è soltanto del nostro cinema ma anche del cinema europeo, al quale Palermi diede — e non solamente nel periodo del muto — film memorandi.
A diciassette anni Palermi entrò in giornalismo e cominciò a scrivere commedie in dialetto (egli era siciliano) e in lingua, riscuotendo lusinghieri successi.
Le commedie: ‘U lupu (1909), compagnia di Micio Grasso, teatro Garibaldi di Palermo; Amuri foddi (1912), compagnia Marazzi-Diligenti, teatro dei Fiorentini di Napoli; La vela grande (1913) compagnia di Giovanni Grasso, teatro la Pergola di Firenze; Il primo amore (1919) compagnia di Giovanni Grasso, teatro Eliseo di Roma; Il Tesoro d’Isacco (1920) compagnia di Giovanni Grasso, teatro Sannazaro di Napoli.
Poi, come Oxilia, Camasio e Zorzi — suoi colleghi di teatro —, si avvicinò al cinema che allora al pari di oggi si nutriva di teatro. Il 14 febbraio 1914 Palermi iniziò la sua attività di regista alla Film Artistica Gloria di Torino: aveva venticinque anni e il film che gli venne affidato s’intitolava: Colei che tutto soffre: e vi prendevano parte come interpreti: Mario Bonnard, Maria Caserini, Vittorio Rossi Pianelli, Fanny Ferrari e Mimi Aylmer.
Palermi asseriva d’esser anzitutto soggettista e sceneggiatore e poi regista, « Faccio il regista — egli diceva — per evitare tradimenti o cattive interpretazioni ». Non era un parlare a vuoto, codesto, perch’egli era cosciente delle proprie qualità e possibilità: non pretendeva mai di agire oltre i suoi limiti; limiti che egli stesso si imponeva sovente.
Dirigendo voleva completa libertà d’azione: anche se il soggetto era suo, se la sceneggiatura era sua e già definita in ogni particolare, amava mutarla rinnovarla vivificarla in sede di lavorazione secondo che il suo estro, la sua sbrigliata fantasia gli dettavano durante la stessa ripresa. In ogni suo film si notano questi momenti di felice intuizione, questi attimi di genialità che risolvono sempre una situazione incerta o avvivano un’azione fiacca o colorano una recitazione sbiadita o rinvigoriscono una debole sceneggiatura.
Direi che questa era la sua maggior dote, derivante dal profondo senso del cinema ch’era in lui, dalla specialità di vedere e di pensare cinematograficamente a bagliori, dalla facilità quasi estemporanea di narrare cinematograficamente, i suoi film, infatti, scorrono senza soste, senza rallentamenti, placidi e tranquilli come un calmo e ampio fiume; sono chiari come concezione, semplici come narrazione, aperti come comprensione.
E’ una stretta conseguenza di ciò il grande favore popolare che riscuoteva Palermi, favore che si concretò con il referendum indetto dalla rivista « Cinema » tra i suoi lettori dal novembre 1939 al gennaio 1940. Amleto Palermi fu acclamato primo regista italiano con 9.950 voti (seguiva Camerini con 9.462 voti) ; e due dei suoi ultimi film, Cavalleria rusticana e Follie del secolo ottennero il 2. e il 3. posto (il primo toccò a Luciano Serra pilota).
In verità Palermi dimostrò in varie occasioni di essere il più eclettico, il più pronto, il più aggiornato (dei suoi coetanei) regista italiano; di saper dirigere il film d’eccezione e quello di produzione corrente, il film in costume e quello moderno, il film comico e quello drammatico, il film psicologico e quello storico. In ventisette anni di incessante attività registica, egli conta i successi più numerosi. La sua esperienza incalcolabile gli valeva molto per rimanere sempre in equilibrio e risolvere i casi più difficili e disperati e aveva il grande pregio di saper realizzare senza sdegni o mortificazioni anche un film (e diversi ne realizzò) in cui non occorresse tanto gusto o cultura (che certo non gli mancavano) quanto pratica della macchina e scioltezza nell’inquadratura. Egli era capace di passare dal soggetto alla presa diretta senza l’ausilio della sceneggiatura scritta: la inventava al momento di girare. Credo che per ciò egli sia stato il regista ideale per il produttore italiano: l’ha fatto sempre guadagnare, mai rimettere.
Lavoratore instancabile egli consumò giorno per giorno il suo corpo e il suo cervello, le sue energie fisiche e spirituali che sembravano inesauribili. Egli non conosceva, forse, il motto di Ludovico Antonio Muratori : « Non il riposo ma il mutar fatica alla fatica sia solo ristoro » ; non lo conosceva ma lo attuava, logorandosi senza posa. Il suo cervello era continuamente in azione, ovunque si trovasse, a qualunque cosa attendesse: egli prendeva sul serio il suo lavoro di uomo del cinema, ch’era la sua vita.
Con la sua aria un po’ ironica e alquanto scanzonata, con il suo volto sorridente, gli occhi dallo sguardo puntuto che ti squadravano dentro; provvisto di una mimica prodigiosa, di una mobilità facciale sorprendente, di una resistenza eccezionale, di una vivacità unica; con il suo cuore aperto e fraterno di siciliano puro, con il suo fare cordiale e cameratesco Amleto Palermi era insieme un artista e un uomo simpaticissimo che non voleva male a nessuno e si faceva amare da tutti amici e nemici (se ne aveva).
E tutti oggi sentiamo il vuoto, il grande vuoto che egli ha lasciato nelle file del cinema.
F. C.(1)
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Amleto Palermi, direttore artistico della Cines 1918
Amleto Palermi è morto pochi giorni fa. Era nato a Roma l’11 luglio 1890, il cinematografo italiano, che per tanti anni lo ha visto, pronto ed attivo, tra le sue file, denuncia oggi una perdita che va al di là dei valori e di una classificazione puramente fredda ed accademica della sua opera complessiva, ma deve soprattutto tener presente il fatto umano. Perciò la perdita di Amleto Palermi deve anzitutto essere sentita da un punto di vista sentimentale e materiale: non bisogna infatti dimenticare che Palermi non soltanto aveva fermamente creduto nel cinema italiano, al quale aveva dato sinceramente la parte migliore di sé, tutto il suo entusiasmo, la sua fede, la sua giovinezza, ma che rappresentava, in questo cinema, proprio una delle parti migliori e più solide. I suoi film restano insomma tra le cose positive e realizzate, e qualcuno di essi tra le cose migliori che questo cinema aveva saputo offrire al suo pubblico.
La vecchia signora, Napoli d’altri tempi, Follie del secolo; Cavalleria rusticana, I tre misantropi, La peccatrice, sono tra i film più importanti e più significativi della nostra produzione dal 1930 in poi. Tra tutti questi film vanno poi staccate le sequenze e i brani di vita paesana, che Palermi, come altri nostri registi, sentiva in maniera particolare. Un gusto preciso dei personaggi definiti di un piccolo centro, nelle loro azioni e nelle loro relazioni più semplici e comuni. Le piazzette affollate, l’uscita dalla chiesina nella domenica, come in Due madri e in Cavalleria Rusticana, ed in molti film interpretati da Musco, rivelavano la tendenza di Palermi di raccontare questi brani che particolarmente erano sentiti da un certo pubblico e che si riallacciavano (vedi anche in parte Vecchia guardia e in 1860 di Blasetti e Il cappello a tre punte di Camerini) alla vera e genuina tradizione del cinema italiano. Si potrebbe forse addirittura parlare di lui come di uno dei promotori dell’avanguardismo italiano, che poi, per tante ragioni, non ha avuto più seguito, o, meglio, non ha trovato espressione concreta nella produzione normale.
Ci ricordiamo di Palermi come di un uomo geniale, pieno di idee, sempre attivo con la sua fantasia fertile, cordiale con gli attori e con la gente che lavorava con lui. Il teatro di posa spesso lo stancava: e preferiva allora pensare alla scena seguente, o allo spunto di regia, chiacchierando con gli amici e bevendo il caffè. Ma, ritornato in teatro, non c’era caso che vi giungesse sprovveduto od incerto. Il suo fascino e la sua personalità si esprimevano con sorrisi e con un giuoco vario di gesti e di mimica. Ma tutti in teatro sentivano la forza della sua « fantasia »: e su questo piano lo si seguiva con facilità, essendo le sue idee di portata non astrusa. Nato a Roma, aveva vissuto e studiato in Sicilia, dove aveva anche compiuto gli studi universitari. Poi, a Roma, cominciò a fare il giornalista, e in seguito scrisse anche delle commedie e dei drammi, uno dei quali ancora si recita presso le filodrammatiche rionali. Il suo debutto cinematografico risale circa al 1914 con il film Colei che tutto soffre. Ma è soltanto nel 1916 che la sua attività comincia a diventare continua. Fu allora infatti che fece, come soggettista e come regista, Il sogno di Don Chisciotte, film muto che preannunciava la vittoria dell’Italia nella guerra mondiale. Da allora non lasciò più il cinematografo, ed anzi vi si dedicò con sempre maggiore passione e convinzione nei suoi mezzi. La bella salamandra è del 1916: ma da ora in poi la sua attività non avrà soste. Qualche anno più tardi, verso il 1925, si recò in Germania, dove realizzava un ottimo film tratto dall’Enrico IV di Pirandello, interpretato da Conrad Veidt. Sempre in Germania diresse L’età critica, da un dramma di Max Dreier, e L’uomo più allegro di Vienna con Ruggero Ruggeri. Nel 1926, tornato a Roma aveva diretto Gli ultimi giorni di Pompei, che si riallacciava ad una produzione ormai abbandonata e fuori moda.
Con l’avvento del sonoro, Palermi è uno degli organizzatori della Caesar Film, che gli affidò la regìa della Vecchia signora, dov’egli riusciva a realizzare un contrappunto visivo sonoro.
La sua attività collaterale di soggettista, e quella lontana, ma non dimenticata passione per il teatro, ci fanno intravvedere in lui non soltanto l’uomo che, in possesso dei mezzi espressivi del cinematografo, riusciva a realizzare opere formalmente compiute e prive di difetti esteriori, ma soprattutto un artefice guidato da un istinto e da un ingegno vivo e presente, capace in ogni momento di destarsi e di dettare e suggerire idee derivanti da una personalità spiccata di artista.
Si può dire, in definitiva, che con Palermi, la cinematografia italiana ha perduto uno degli uomini più fecondi e più attivi, uno degli uomini sui quali avrebbe sempre potuto contare per realizzare opere significative ed equilibrate. Vinse nel 1940 il Referendum di Cinema per il regista migliore.
Puck (2)
Due ricordi di Amleto Palermi, estratti: 1, Film, 26 aprile 1941; 2 Cinema, 25 aprile 1941. Il corsivo sulle opere teatrali è mio.
Messa in scena di Amleto Palermi, soggetto Lucio d’Ambra. Operatore: Giovanni Grimaldi. Interpreti principali: Lyda Borelli, Livio Pavanelli, Renato Visca, Gino Cucchetti.
Film restaurato dalla Cineteca di Bologna nel 1993, da una copia dell’archivio Sodre di Montevideo, 1500 metri (55′).
«L’azione di questo bouquet di quattro carnevali si svolge nel castello di Malesia.
Il carnevale bianco mostra i giovani figli di un sovrano ed i loro cuginetti e cuginette che si divertono in giochi festosi e fantastici.
Gli anni passano.
Luciano, erede della corona, si innamora di Lyda. Ed è il carnevale azzurro.
Ma quando si accorge che si cerca di strappare Lyda alla sua passione, rinunzia al trono e fugge con lei. La fuga del principe alimenta le ambizioni tra i cugini che aspirano allo scettro: si distruggeranno tra di loro. Ed è il carnevale rosso.
Tra gli aspiranti vi è Carlo, che pensa di essere il prescelto, ma, temendo che il vecchio re possa cambiare idea e richiamare il legittimo erede, tesse un’insidia a Luciano e lo pugnala a tradimento. Ed è il carnevale nero.» (dalla brochure originale del film)
« Fassini mi mandò a chiamare: Venga alla Cines a far colazione con la Borelli e con me… La Borelli, alla Cines, ci abitava. Che quando tra un periodo e l’altro della sua vita d’attrice di prosa dava alcune settimane alla cinematografia, il barone Fassini non voleva che di quel poco tempo si perdesse neppure la mezz’ora necessaria per condurre in vettura l’illustre attrice da casa sua al teatro. Le allestivano dunque lassù, nella palazzina centrale della Cines, un appartamento e Lyda Borelli non aveva, uscendo dal letto, che da far le scale per essere, nella sua imperiale bellezza bionda, davanti alla macchina da presa. E lì Alberto Fassini veniva ogni giorno a vigilare il lavoro, chiuso nei suoi maglioni di grossa lana, col suo passo napoleonico da imperatore della cinematografia, infallibile nella cortesia ma secco e rapido nei comandi in quell’abitudine di sbrigativa autorità che gli veniva dalle navi da guerra su cui aveva trascorso, brillante ufficiale di marina, gli anni della prima giovinezza. Allora era nella seconda giovinezza, come adesso è nella terza; che Alberto Fassini ha sempre una giovinezza di ricambio per essere eternamente giovane. Uomo intelligente e geniale, di larghe vedute, di molteplici esperienze, il barone Fassini voleva conferire alla produzione della Cines un prestigio superiore a quello di qualunque altro film. Uomo di gusto, di coltura, di largo senso artistico, non seguiva, da industriale remissivo, i suoi vari registi. Ma tutti invece li dominava e, come su gli antichi suoi bastimenti, li chiamava volentieri a rapporto. C’era in lui il desiderio di elevare il tono della cinematografia e di portarla ad autentica manifestazione d’arte. Così una mattina, avutomi alla sua tavola accanto a Lyda Borelli, comandò secco e breve col tono dell’ammiraglio che parli all’ufficiale di guardia chiedendogli una lancia a mare: “In dieci giorni un film vostro per Lyda Borelli, vasto, artistico, grandioso, degno di lei e dell’arte sua…”. Scrissi Carnevalesca: un ardito tentativo di film simbolico ed allegorico suddiviso in tre tempi e commenti: un carnevale bianco che era il mondo della felice adolescenza nei giovani principi d’una grande Corte imperiale; un carnevale rosso che, nel cieco e ardente furore della vita, insanguinava tra passione e debito quelle prime innocenze; e un carnevale nero ch’era il poema visivo della vecchiaia e, in un mondo di neri fantasmi, radunava attorno ai superstiti le oscure ombre d’un tragico passato. Occorrevano al film, negli episodi visivi e corali dei tre pittoreschi carnevali, larghi commenti musicali ed una specie di sinfonia dei suoni che accompagnasse la sinfonia dei colori. Si pensò a Mascagni, si pensò a Zandonai: impegnati l’uno e l’altro in opere nuove. E il film, al quale la musica, la grande musica, era indispensabile, rimase senza uno dei suoi principali elementi, affidando il sostrato lirico della composizione visivi solo ai commenti rabberciati delle orchestrine dei cinema cucendo insieme vecchi motivi verdiani e valzer viennesi.
Amleto Palermi inscenò Carnevalesca. Lyda Borelli ne fu stupenda interprete in un imponente gruppo d’attori tra i quali, tentato momentaneamente dalla cinematografia, era anche un fine poeta veneziano, allora giovane e più tardi affermatesi giornalista di razza e solido scrittore politico, Gino Cucchetti. L’opera cinematografica ebbe questo particolare risultato: che dieci compositori di musica videro, in Carnevalesca senza musica, la possibilità di una grande opera lirica. Primo a scrivermi fu Giacomo Puccini. Ritrovo la sua lettera, da Milano: “Ho ammirato iersera Carnevalesca. La gente, che al cinema non applaude mai, iersera, me presente, hanno battuto le mani. Che operone ci sarebbe là dentro! Vogliamo parlarne? Sarò a Roma la settimana ventura. Se ne parlò con Puccini sempre indeciso, senza concludere nulla. E altri, dopo Puccini, pensarono all’opera. Due o tre librettisti addirittura elaborarono schemi di libretto. Troppi galli a cantare!… Il giorno non venne. E l’opera lirica è ancora da farsi, mentre Carnevalesca, nel cimitero senza croci delle pellicole, nella fossa comune della vecchia cinematografia, è sepolta e dimenticata, senza un fiore, senza una lacrima…» Lucio D’Ambra (Gli anni della feluca, Lucarini 1989)
E Carnevalesca, restaurata e presentata nel festival Il Cinema Ritrovato di Bologna edizione 1993, esce ogni tanto dal Pantheon dei Film Italiani Ritrovati Restaurati Invisibili… Pochi giorni fa a Venezia, Videoteca Pasinetti.