Mario Bonnard e Marcella Albani girano in Germania

Berlino, Aprile 1926

In uno dei teatri giganti degli studi Staaken di Berlino, la Greenbaum-Film G.m.b.H. gira il suo film più importante: Fuga dal circo (Die Flucht in Den Zirkus).

Una vera strada russa in una piccola città, accanto ad essa il cortile della fortezza dalle mura oscuramente incombenti.

Gli architetti Görge, Rinaldi e lo specialista del milieu russo, Andreijew, sono ancora al lavoro con le loro troupe per preparare tutto per le grandi riprese, che verranno mostrate prossimamente alla stampa. Insieme al regista e ai direttori d’opera stanno determinando la location più adatta nel cortile della fortezza, dove i prigionieri dovranno esalare l’ultimo respiro sotto gli attacchi di un gruppo di cosacchi.

Ad un certo punto si arriva al momento dove alla povera, bella Marcella Albani, giustamente accusata di attività rivoluzionarie (l’epoca della trama è il 1905), si avvicina il prete per offrirle l’ultima consolazione, mentre le canne dei fucili sono puntate contro. Proprio in quel momento, l’ordine di sparare suona bruscamente, un giovane ufficiale – Vladimir Gaidarov – irrompe nel cortile a cavallo, brandendo il decreto di grazia. Cavalca in mezzo alla linea di fuoco, il cavallo dell’ufficiale viene colpito, la povera ragazza, che pensava già che la sua vita fosse finita, si salva.

La sceneggiatura è stata scritta da Mario Bonnard e Leo Birinski. Il cast è diretto da Mario Bonnard, con l’assistenza di Schamberg (Guido Parish). Oltre alla coppia (Albani e Gaidarow), la cui felice unione è al centro dell’attenzione, il cast include: Dieterle, Kampers, von Ledebur, Eugen Burg, Mierendorff, Bender, Harbacher, Olga Engl, Frida Richard e Harbacher.

Operatori: Greenbaum, Sparkuhl.

Questa produzione Greenbaum è una combinazione italo-tedesca, in cui la parte tedesca non viene trascurata, come accade in tante produzioni tedesco-straniere. L’Italia fornisce la regia. La troupe è tedesca e le riprese sono realizzate con gli attori del film tedesco. Solo personale tedesco sarà preso in considerazione per tutte le registrazioni.

Albani Film GmbH Berlin

Torino, 10 Luglio 1924

Il fatto è questo. Una giovane Casa italiana, l’Albani Film, alla quale recentemente si è associato un valoroso commerciante cinematografico americano, il sig Ziehem, sta lavorando in Germania, ove, con la serietà dei suoi propositi ed il valore della produzione è riuscita a conquistarsi un notevole posto nella stima del pubblico tedesco. Ora avviene che questa Casa, facendo onore al suo coraggioso programma, non teme d’affrontare i rischi, d’una lavorazione in grande stile e scrittura per un importante film un notissimo attore francese, il Signoret, il quale di buon grado, accetta, non solo; ma fissa l’epoca in cui dovrà essere in Germania ad assumere il suo posto presso la Casa italiana. Ma l’epoca stabilita giunge, viceversa chi non giunge è il grande attore francese, riguardo il quale, dopo alcuni giorni, perviene alla Direzione un telegramma in cui è annunciato tout court che il Signoret non si sarebbe più recato in Germania.

Naturalmente la Casa è sorpresa; chiede, indaga ed ecco la spiegazione: la stampa francese aveva posto il suo veto all’andata in Germania da parte dell’attore connazionale. E non fu possibile derogare dall’imperativo della stampa, la quale si mostrò irriducibile: o l’attore rinunciava al suo impegno, o avrebbe dovuto subire il boicottaggio dei giornali del proprio Paese. Non vi fu via di mezzo: l’attore si vide costretto ad abbandonare il contratto, essendogli venuti meno anche gli appoggi dello stesso Ministro delle Belle Arti, di cui espressamente era stato richiesto l’intervento per la difesa dei diritti dell’arte e dell’industria, con tanta disinvoltura lesi.

Quindi la Casa italiana dovette rassegnarsi a che fossero di colpo irrimediabilmente sventati i suoi progetti, con tanta pazienza elaborati e che anche a costo di grandi sacrifizi sarebbero stati attuati.

Ora, a che miriamo noi denunciando questo particolare fatto? Non intendiamo certamente impegnarci in una polemica con i Colleghi francesi ma da esso desideriamo trarre argomento, per un criterio più comprensivo e razionale, generalizzando lo spirito che ha informato la reazione dei giornalisti d’Oltr’Alpe. Confessiamo senz’ambagi che l’atteggiamento suddetto della stampa ci ha dolorosamente colpiti, e, per sgombrare subito il terreno da qualche arbitraria interpretazione, dichiariamo che nella nostra disapprovazione non ha nulla a che vedere il fatto che i colpiti siano personalità italiane. Avvezzi come siamo a considerare le cose da un punto di vista assai elevato, veramente au dessus de la melée e dal quale aprioristicamente esula qualsiasi interesse particolare, chiediamo se debba ritenersi tra i vari compiti nobili che la stampa deve assolvere, quello d’interporsi, per impedire ad un artista di esplicare la sua opera come, dove e quando meglio gli talenta. Ufficio principale della stampa è promuovere, non distogliere; favorire, non ostacolare; consigliare, se del caso, ma non mai sabotare. Essa ha bensì una funzione di guida e di controllo, per cui deve intervenire con qualche richiamo, ma non adottare metodi repressivi, diretti ad inibire libero spiegamento delle varie forze che concorrono al movimento del vasto ingranaggio industriale cinematografico. Tali metodi sono assolutamente incompatibili con la natura della stampa professionale la quale, come espressione d’un’arte giovane che sta ovunque vigorosamente affermandosi, e mostrandosi sempre più tendente ad elevarsi a una forma internazionale, deve dimostrare d’aver raggiunto una tale maturità, da ripudiare lo spirito reazionario, che spinge a conservare in un perenne anacronistico stato di ostilità le relazioni artistiche tra Paesi che, se hanno tendenze diverse, hanno però comune il punto di partenza, ossia il culto dell’Arte. Ancora tali atteggiamenti sono incompatibili con l’elevatezza del nostro compito, il quale deve riconoscere all’Arte, che devotamente propugna, tale supremazia da soverchiare le piccole competizioni di parte e quindi evitare di trasformare preconcetti derivati da una malintesa concezione nazionalistica, in altrettante armi per colpire l’arte e l’industria, di cui questa stampa è assertrice.

Purtroppo, invece, nel caso attuale, è doloroso constatare che tali preconcetti siano prevalsi sul criterio artistico, al punto da far dimenticare alla stampa francese, che con il provvedimento adottato, la vittima non era l’industria cinematografica tedesca, bensì una coraggiosa Casa editrice italiana, che trae i suoi mezzi di esistenza dal proprio lavoro meraviglioso ed instancabile. Se la Francia, socialmente e politicamente, non ha ancora risolto le sue ragioni di divergenza con la Germania, non è affatto la stampa cinematografica che deve scendere con le armi in pugno, per far le vendette del non ancora avvenuto accordo, coinvolgendo nella sua controffensiva proprio chi come i produttori filmistici italiani, non hanno in tali attriti, la benché minima parte.

Ma, prescindendo da questo antipatico fatto particolare, vediamo di assurgere ad una regola di connivenza civile, almeno nel campo artistico, scevra della mala bestia dall’intolleranza.

Questa di troppi guai è stata sempre ed ovunque madre, perché il suo spirito debba inquinare anche gli aurei sentieri sacri all’Arte.

A proposito poi della stampa francese in particolare, con piacere aggiungiamo che noi l’abbiamo sempre ammirata e con plauso seguita in parecchie sue ottime campagne, come quella per la censura, per la diminuzione delle tasse, per l’esercizio della pubblicità, in cui oltre la validità degli argomenti era mirabile il senso di concordia dei vari organi; perché ora essa vorrebbe derogare dalla sua linea seriamente teorica e dignitosa, per passare al campo materiale adottando atteggiamenti, come quelli della minaccia di boicottaggio, indegni d’un organismo fondato su tradizioni cavalleresche e dotato di squisito senso di opportunità?

Indubbiamente essa, come la stampa d’ogni paese ha diritto di critica e di richiamo; anzi, diciamo di più: essa ha avuto perfettamente ragione allorchè protestò contro l’alterazione della storia di Francia per opera di films tedeschi, e noi dal canto nostro, dimostrammo di concordare con essa in due nostri articoli recentemente pubblicati; ma non approviamo che un disappunto, o un consiglio faccia degenerare la protesta della stampa in un’azione a carattere demagogico, dannosa per tutti.

Non crediamo che tale nostro appunto possa essere male accolto dai Colleghi francesi, i quali siamo certi non fraintenderanno le nostre intenzioni, ma comprenderanno come noi abbiamo voluto da uno spunto di cronaca, assurgere ad un corollario generale. Esso suona così: la nostra stampa professionale ha l’alta missione della guida e del consiglio: la esplichi fortemente ma non degeneri e si consideri elemento d’avanguardia, non per la repressione, bensì per l’operosità; quindi sia vanto di tutti i giornalisti essere gli alfieri del bene, anzichè gli strumenti del male!

La Rivista Cinematografica.

Ricordo di Luca Comerio pioniere della cinematografia

Milano, luglio 1940

Quando, giorni sono, i giornali hanno annunciato la sua morte, c’è stato, forse, qualcuno che si è domandato stupito: «Ma come, Luca Comerio non era già morto da un pezzo?». Viceversa è morto che non aveva ancora compiuto i sessantadue anni. Ma da vent’anni, ormai, era sparito dal palcoscenico della vita cinematografica italiana; e il suo nome, che era sonato per i primi vent’anni del secolo come un sinonimo di fantasiosa genialità costruttrice, di ardimentoso spirito di novità, di vittoriose audacissime imprese, era tramontato fra le brume di un passato che il presente rendeva sempre più lontano e relegava in un archivio sul quale cominciava a stendersi fitta la polvere. A quarantacinque anni, quando normalmente i costruttori raggiungono o stanno per toccare la meta più alta del loro destino e colgono i frutti del lavoro tenacemente perseguito in giovinezza, s’era ritirato in solitudine silenziosa che noi immaginavamo popolata di lucenti ricordi e velata talvolta da profonde nostalgie; pago, comunque, e con piena legittimità, di quello che riteneva ed era il suo autentico capolavoro: i suoi documentari cinematografici della grande guerra. Tutto il resto, i moltissimi film usciti dai suoi teatri di posa, le sue imprese, le sue iniziative, i suoi sogni, pallide figure indistinte, in confronto a queste sue pellicole impresse tra i nevai dell’Adamello, di fianco ai gloriosi alpini, o nelle trincee del Carso sanguinoso, tra i fanti stupendi.

Fotografo del Re

Luca Comerio era nato a Milano, nel 1878. I suoi genitori conducevano un modesto caffè a porta Volta, e il piccolo Luca, dopo quella poca scuola che era in uso a quel tempo, avviato ad ereditare e continuare l’esercizio paterno, si prodigava a portar quintini e aranciate agli avventori. Ma tra gli avventori c’era, per fortuna sua, il signor Belisario Croci, un apprezzato fotografo milanese, che mise gli occhi attento sul ragazzino e un giorno finì per chiedere al padre: «Vogliamo farne un bravo fotografo del nostro Luca?». Il padre non disse né sì né no: pur che non ci fosse da spender soldi. Soldi non se ne spesero, perché il signor Belisario insegnò per niente al giovinetto l’arte della fotografia; e pochi mesi dopo Luca ne sapeva quanto il maestro. Poco, probabilmente, se non si fosse trattato di Luca Comerio. A sedici anni riuscì a possedere la sua prima macchina fotografica: una scatoletta nera, comperata per poche lire, d’occasione. Ma, nelle mani di quel ragazzo ansioso d’avvenire, diventò addirittura famosa. Saputo, infatti, che Re Umberto era a Como, vi corse, col suo trabiccoletto; riuscì a puntare, non visto, l’obiettivo, sul Sovrano, e lo fotografò mentre conversa col vescovo di Como. Poi, a casa, isolò la figura del Re, ne trasse un ingrandimento gigantesco, di due metri e mezzo di lato, e, con un coraggio che lo lasciò quasi senza fiato per alcuni giorni, lo mandò a Sua Maestà. Arriva una lettera della Real Casa dove si dice del gradimento e del compiacimento del Re e si ordina al piccolo fotografo milanese rifare e spedire subito altre cinque copie dell’ingrandimento.

La fortuna è fatta. Il destino consacrato. Dieci anni dopo, in occasione di una crociera mediterranea, a bordo del panfilo reale Trinacria, Vittorio Emanuele III nominerà Luca Comerio «fotografo del Re»; e Luca Comerio avrà l’onore di sentirsi chiedere consigli sull’arte fotografica dal Sovrano e dalla Sovrana. Nei suoi stabilimenti milanesi, per lunghi anni, giungeranno, poi, ogni tanto, grossi plichi della Casa Reale: contengono le negative delle fotografie prese dal Re e dalla Regina a Roma, a San Rossore, a Racconigi, che gli Augusti fotografi mandano al Comerio perché le sviluppi e le stampi.

Il teatro di posa a Turro

A riguardare, con la fantasia, a quei tempi lontani, Luca Comerio ci appare come il primo «fotocronista» milanese, e, forse, italiano. Nel Novantotto, per esempio, durante le sanguinose giornate della insurrezione, egli è in giro, dall’alba al tramonto, con la sua macchina, di strada in strada, di barricata in barricata. Non è certo uno spirito rivoluzionario il giovane Luca; è un fotografo, e null’altro; e la sommossa gli offre spunti addirittura eccezionali. Poco gli importa, poi, se gli insorti, diffidenti e sospettosi di quel giovanotto che punta addosso ai loro ceffi l’obbiettivo, ogni tanto, gli rispondono puntandogli contro i fucili.

Ma il cinematografo ormai, prepotente, alle porte, e la macchina fotografica fu dal Comerio sostituita con la macchina da presa. Pioniere anche qui, come lo era stato per la fotocronaca. Ma pioniere in grande stile, che la cinematografia seppe subito vedere come un’industria, oltre che come un’arte. Lo anima lo stesso entusiasmo che lo elevò tra i fotografi del suo tempo fino al primo posto; lo spronano lo stesso ardore di conquista, la stessa ansia di grandezza e di novità. Sono i tempi nei quali, nelle città minori, non sono ancora vere e proprie sale cinematografiche, e i baracconi Kullmann portano in giro per le fiere maggiori le prime pellicole. Comerio fabbrica una grande casa in via Serbelloni, e vi crea due teatri di posa: il maggiore, e il più perfetto che esista in Europa. Ha fondato — siamo nel 1906 — la Milano Film, di cui è consigliere delegato, direttore generale e primo operatore. È lui che vi gira la Divina Commedia; lui che stringe contratti con i maggiori attori e le più belle attrici attrici dell’epoca; lui che, per avere l’esclusiva di alcune pellicole di Ferravilla, paga il grande comico milanese trentamila lire: una somma favolosa per quei tempi. Presto, lo «stabilimento» di via Serbelloni è inferiore al bisogno. Ne costruisce un altro, più grande, a Precotto; poi, traducendo in pronta realtà un sogno grandioso, compera una vastissima area a Turro, comprendente perfino il cimitero, e innalza il più grande teatro di posa del mondo, che misura una superficie di 22 mila metri quadrati e per coprire il quale compera… la tettoia della stazione Termini di Roma. È il momento del maggior splendore del Comerio, che ha avuto la fortuna di trovare nella moglie, signora Ines Negri, una collaboratrice preziosa, dalla chiara capacità organizzativa e dalla saggia e avveduta prudenza. Le più belle imprese cinematografiche di Luca Comerio portano infatti il sigillo di questa collaborazione.

Scoppia la guerra libica; e in lui subito ritorna il «fotocronista» di un tempo. Ma questa volta ha la macchina da presa invece della macchinetta fotografica; e laggiù gira quella Battaglia delle due Palme, che è indubbiamente il primo documentario cinematografico di guerra italiano e uno dei primi del mondo. Proiettato nei cinematografi Palace e Centrale di Milano, vi ottiene un successo vivissimo: degno preludio ai suoi film della grande guerra.

Dal Quindici al Diciotto, incaricato dal Comando supremo, egli corre instancabile per tutto l’arco del nostro fronte. Ha una grande automobile, che gli ha costruito apposta Nazzaro, blindata, potente, attrezzata mirabilmente; e gira così tre documentari d’eccezionale importanza: La guerra d’Italia a 3000 metri sull’Adamello, La battaglia di Gorizia, La battaglia fra Brenta e Adige. Sono gli unici autentici documentari cinematografici della nostra grande guerra, che consacrano all’ammirazione dei posteri la grandezza del nostro fante. Che importa, se dopo la guerra, un sipario di silenzio scende sulla vita e sul nome di Luca Comerio? Che importa se il suo grandioso teatro di Turro, senza la gigantesca tettoia che è diventata ferro utile per la guerra, viene schiantato da un colpo di vento? Di lui è rimasto il meglio: l’impulso dato alla cinematografia italiana, e, soprattutto, questi tre documentari. Con sincero fervore d’italiano, con ardimento di soldato, con mirabile efficacia di tecnico, egli li ha offerti alla Patria perché sia ricordato, in queste immagini evidenti, l’eroismo dei suoi figli.