Madame Renée Carl est aimée des metteurs en scène parce qu’elle possède la compréhension rapide et profonde des choses de l’écran.
Elle sait tirer parti de toutes les situations.
— Avec elle, aucun rôle ne tombe, disait un metteur en scène qui eut fréquemment l’occasion de l’employer.
Et voici comment elle fit ses débuts au cinéma.
— Je jouais aux côtés de Gouget, nous dit-elle, dans un petit théâtre aujourd’hui disparu: Les Funambules. Une camarade dit un jour qu’elle était convoquée à la maison Gaumont « pour faire du cinéma ». C’était vague, car nous étions au début du nouvel art et l’on ne savait pas grand-chose de ce qu’on demandait aux artistes. Elle me parla pourtant avec enthousiasme de ses nouvelles occupations.
Je résolus de tenter une démarche, mais le lendemain soir dans ma loge, je vis entrer ma pauvre camarade dans un piteux état. Coup de « soleil électrique » sur les épaules, peau du visage pelée, yeux gonflés et brûlés, car à ce moment-là aucune précaution n’était prise dans les studios.
Et je me demande encore comment, ce soir-là, Léonie Richard put soutenir l’éclat de la rampe.
Mon enthousiasme fut, bien entendu, complètement refroidi. Un peu plus tard, pourtant, je me décidai, et au studio Gaumont où je me présentai, je fus reçue par Roméo Bosetti et Roméo me fit passer dans le cabinet de M. Louis Feuillade qui — quelle chance! — avait précisément un rôle à m’offrir. Il essayait une série de comédies et je fus de la série. Puis vinrent les premiers drames et la grande mise en scène: L’Agonie, Byzance, Le fils de Locuste, Judith.
Je n’oublierai jamais la joie profonde que j’eus à évoquer ces personnages; jusque là j’avais été timide, mais je me livrai bientôt passionnément au cinéma et je creai les principaux rôles de M. Louis Feuillade jusqu’en 1914.
Depuis, je me suis surtout consacrée au professorat.
Il me fut également donné d’interpréter de nouveaux rôles, dans Rose de Nice, par exemple, avec M. Maurice Challiot et je vais avoir le délicat plaisir d’effectuer une sorte de rentrée à l’écran sous la direction de M. Marcel L’Herbier. Mon seul désir est de retrouver auprès du public la faveur qu’il m’a toujours témoignée et dont je lui garde une grande reconnaissance.
1923. L’Unione Cinematografica Italiana concludeva in quell’anno con un netto insuccesso la sua produzione triennale e, di tutte le altre Case, soltanto l’Alba Film stava preparando L’Arzigogolo, mentre la Lombardo Film si tirava su grazie alla “bellissima e simpatica” Leda Gys e le “visioni” di Napoli.
L’Anonima Pittaluga rilevò gli stabilimenti della Fert e si mise al lavoro, seguendo un coraggioso programma, con tre attrici: Diomira Jacobini, Pauline Polaire ed Elena Sangro; tre acrobati: Luciano Albertini (Sansonia), Domenico Gambino (Saetta) e Carlo Aldini (Ajax); il “gigante buono” Maciste; un “amoroso” Alberto Collo; e un “brillante” Oreste Bilancia. Come prima pellicola, venne scelto un soggetto di Giovacchino Forzano, diretto da Eleuterio Rodolfi: Il nipote di America, che richiese una traversata sul Duilio e parecchi esterni “dal vero” a Genova, Napoli e New York. La prima serie comprendeva inoltre Saetta impara a vivere di Guido Brignone, e un documentario Dall’Italia all’Equatore di Massimo Terzano, che si spinse sino al cratere del Tungurahua, a 5087 metri.
I lavori presentati al pubblico nel 1924, ebbero successo, e la Pittaluga provvide subito a preparare un’altra serie, con Maciste imperatore, una farsa francese, La taverna verde di Luciano Doria, e La casa dei pulcini che scrisse e diresse un giovanissimo parente di Augusto Genina, certo Mario Camerini.
Prevaleva il genere avventuroso, che però non imitava “le scorribande americane” e nemmeno preferiva misteri di delitti e intrighi polizieschi, ma era “una sana avventura di uomini coraggiosi e intrepidi”, con qualche sfumatura sentimentale e una “ricerca accurata di suggestivi esterni”. Attori e direttori avevano molta volontà di far bene e lavoravano senza perdere tempo, così che in un anno si poteva contare una decina di “films”, quasi tutti abbastanza buoni. Era stato riaperto anche lo stabilimento della Rodolfi Films e si stava preparando un grande teatro di posa a luce artificiale, particolarmente adatto alla macchinosa costruzione di “fantastici” ambienti per Maciste all’inferno di Brignone.
Questo film, e gli altri che seguirono in breve tempo, erano apposta grandiosi ed esagerati nello sfarzo, e quindi nel costo, secondo il criterio commerciale ed affaristico che soltanto la pellicola “eccezionale” può avere probabilità sul mercato mondiale, mentre la produzione normale trova sempre e dovunque il mercato già saturo. Ad ogni modo, si spesero somme enormi.
Maciste all’inferno venne presentato al Concorso cinematografico della Fiera di Milano, con Scaramouche della Metro, e ottenne il premio del Ministero dell’Economia Nazionale, mentre La casa dei pulcini di Camerini e il documentario di Terzano ebbero il diploma d’onore.
Mario Camerini, dopo una commedia con Linda Pini, aveva tentato il genere avventuroso e, riuscitogli bene un soggetto con Saetta, aveva assunto la direzione del nuovo film Maciste contro lo Sceicco, girato quasi tutto in Tripolitania, presso Leptis Magna, e terminato a Torino il 21 luglio 1925. Il 22 luglio, Guido Brignone incominciava a Savona Maciste nella gabbia dei leoni con Elena Sangro e Alberto Collo. I nomi sono sempre quelli e l’attrazione più grande rimane Maciste. Per lui occorrono soggetti strampalati, smaglianti, favolosi, e tutte quelle storie romanzesche, appena appena sentimentali per una particina d’attrice, portavano a una rievocazione decorativa e coreografica, che presto o tardi sarebbe sboccata nella ricostruzione storica. Il film storico non si fece attendere molto, anzi ne arrivarono subito due. Amleto Palermi — complice Carmine Gallone — ebbe l’infelice idea di resuscitare per lo schermo Gli ultimi giorni di Pompei, sciupando, in tempi già poco fortunati, tre milioni, mentre Luciano Doria, più modesto, si limitò a sceneggiare il dramma di Beatrice Cenci. Per interpretare la protagonista fu scelta Maria Jacobini, che avendo trovato successo e fortuna a Berlino, insieme all’inseparabile Gennaro Righelli, venne convocata in Italia per girare un Carnevale di Venezia, che prometteva Rinascita e finì in coriandoli, tra le maglie della critica e la censura.
La produzione contemporanea non sapeva offrire che un altro lavoro di Maciste, girato a Passo Tre Croci, e riuscito poco interessante; mentre Aldo De Benedetti e Ferdinando Paolieri scrivevano per lo schermo il romanzo dell’eroe dei due mondi e signora: Giuseppe e Anita Garibaldi, impersonati da Guido Graziosi e Rina De Liguoro; poi La bellezza del mondo con Italia Almirante Manzini e Renato Cialente; e un dramma popolare con Leda Gys che suggerì a Matilde Serao grandi elogi.
In compenso, arrivò sugli schermi una commedia “rosea e garbata”: L’ultimo Lord con Carmen Boni, Lido Manetti e Oreste Bilancia. Augusto Genina, che non si era mai interessato alle prodezze di Maciste e le acrobazie di Saetta, era uno dei pochi che sapesse, in quel periodo avventuroso, ancora condurre con sentimento e mano leggera, una tenue vicenda, e la piccola interprete del Focolare spento era la più adatta per quella interpretazione.
Nel 1927 — come già quattro anni prima — per un buon successo bisognava tornare a Maciste. Il gigante era sempre la salvezza della cinematografia italiana, ma la sua stessa figura e la sua unica risorsa di una forza irrefrenabile gli imponevano sempre i medesimi casi, e bisognava ogni volta trovare un ambiente nuovo, per salvare almeno le apparenze. Baldassarre Negroni lo collocò dapprima nell’epopea napoleonica, e poi, seguendo le vicende di un popolare romanzo, lo deportò in Siberia. La produzione era scarsa e non aveva grandi meriti artistici, tuttavia si credeva di andare verso la Rinascita, e il Governo meditava l’obbligo di una aliquota notevole di films italiani, sotto il controllo di una Commissione artistica, e S. M. il Re assisteva, all’Augusteo, alla visione privata di Frate Francesco, elaborazione mistica di Carlo Zangarini, Aldo de Benedetti e Giulio Antamoro.
Le grandi dive del muto erano partite o non lavorano più. L’ultima arrivata, Carmen Boni, lavora per le case tedesche, e spesso con Genina. In Italia rimangono ancora Elena Lunda, Elena Sangro e Rina De Liguoro. Con Jia Ruskaja si tenta il drammone biblico, inserito arbitrariamente in una vicenda moderna, e con quella ingloriosa morte di Oloferne, termina la carriera cinematografica di Bartolomeo Pagano, alias Maciste. Quando il buon gigante di ritira, la Pittaluga chiude gli stabilimenti. La coincidenza è fortuita, ma sulle sue poderose spalle si erano basate le migliori speranze di successo della Casa torinese.
Mentre il cinema napoletano tenta di sopravvivere (e ci riesce abbastanza bene), Aldo De Benedetti e Gaetano Campanile Mancini tentano fortuna con La grazia di Grazia Deledda, richiamando in patria Carmen Boni, film ricevuto dalla critica come l’ennesima delusione, e dal pubblico con scarso interesse. Il pioniere Giuseppe Barattolo, tornato in campo con una versione moderna della mitica Caesar Film dei tempi gloriosi, offre a Roberto Leone Roberti una riedizione di Assunta Spina, dal dramma di Salvatore Di Giacomo, interpreti Rina De Liguoro e Febo Mari. Girato negli stabilimenti della Quirinus a Roma. La nuova, nuovissima versione del dramma interpretato quindici anni prima da Francesca Bertini, esce nei primi mesi del 1930 e riceva una condanna senza appello, quasi all’unanimità, dalla critica: « Rimpiangiamo di non avere l’eloquenza di un Demostene, che cadrebbe in acconcio parlare dei veri nemici della nostra cinematografia, di quelli che la fanno diventare “cosa” senza nome, profondamente immorale, bassa, inestetica, volgarissima. La stiratrice Assunta Spina in costume da bagno all’americana — maillot Jantzen a striscioni — tra i giocatori di water-polo! Assunta Spina con le gonne corte e i capelli alla garçonne! ”.
Sembrava tutto finito quando finalmente sorse il Sole! di Alessandro Blasetti e da lì a poco la Pittaluga, promettendo di ritornare al più presto a Torino, riaprì i battenti a Roma, negli stabilimenti della vecchia Cines.
Paris, Septembre 1924 D’un geste amical, Ivan Mosjoukine m’avait invité à monter dans son automobile; et bientôt nous voguons vers Paris, laissant au détour de la route le studio Albatros, dont la fière silhouette se détache dans le ciel clair.
Les mains crispés au volant, Ivan Mosjoukine parle d’une voix hésitante, cherchant ses mots, car il n’est pas encore familiarisé avec notre langue.
— Dès ma plus tendre enfance, je fus attiré par le théâtre, mais mes parents, de riches propriétaires terriens, entendaient faire de moi un avocat ou un avoué. Je fus donc mis en pension à la Faculté de Droit de Moscou. Mais le démon qui sommeillait en moi se réveilla brusquement et eut rapidement le dessus. J’employais l’argent que m’envoyaient mes parents à aller chaque soir au théâtre. J’oubliais pendant quelques heures le monde qui m’environnait, tout yeux et tout oreilles à ce qui se passait sur la scène.
Un jour, je pus pénétrer dans les coulisses et bavarder avec quelques artistes. Ce fut le déclenchement, mes dernières hésitations s’évanouirent et je signais, avant les vacances, un engagement avec une troupe théâtrale pour l’automne suivant. C’était en 1909. Pendant des semaines je cherchais comment annoncer la nouvelle à ma famille, mais vont le moment du départ sans que je m’y fusse décidé. Durant tout un hiver, je jouai les jeunes premiers à raison de trente roubles par mois. Juste de quoi ne pas mourir de faim! Mais je vis mes efforts récompensés, on m’offrit d’entrer au théâtre de la maison du Peuple. J’acceptai. Peu après, les films Khanjonkoff faisaient appel aux acteurs de la Maison du Peuple pour jouer dans ses films adaptés des œuvres de Poutckine, Tolstoï et Lermontoff. Je fis mes débuts à l’écran dans la Sonate à Kreuzer, d’après Tolstoï.
Puis je continuais à mener de front théâtre et cinéma jusqu’à la guerre, que je fis en qualité d’artilleur. Démobilisé, j’allais reprendre mon ancien métier d’artiste, lorsque la tourmente bolcheviste éclata; je dus fuir précipitamment, laissant tous mes biens entre les mains des révolutionnaires.
Vous dire les souffrances que nous endurâmes, mes compagnons et moi, est chose difficile. Enfin nous pûmes gagner la Crimée, exténués de fatigue, mais sains et saufs.
J’avais beaucoup lu d’écrivains français et joué de nombreuses pièces de vos auteurs. J’aimais la France sans la connaître et ce fut vers elle que se tournèrent mes regards d’exilé.
Nous étions à Constantinople, lorsque, profitant de l’occasion, je tournais, avec Mme Lissenko, quelques scènes de mon premier, présenté chez vous sous le titre: l’Etrange Aventure.
L’accueil que je reçus en France m’émut beaucoup, je réussis à me refaire une situation et, engagé par les films Ermolieff — devenus par la suite les films Albatros — je tournais plusieurs films en qualité d’interprète et parfois aussi comme metteur en scène et scénariste.
Il y eut un moment de silence. Puis je demandai:
— Que pensez-vous des scénarios? Vous ne devez, certes, pas en manquer?
— Hélas, oui! et surtout des adaptations d’œuvres littéraires. Mais je considère que la mise à l’écran d’un roman, même d’auteur célèbre, est presque impossible et, d’ailleurs, sans intérêt pour les lettres aussi bien que pour le cinéma.
D’ailleurs, il me semble que nous sommes à la veille de voir surgir une véritable littérature cinématographique. Dans les bandes, les sous-titres seront réduits au minimum, ou peut-être même disparaîtront complètement. Et c’est pas le corps, la figure et les yeux de l’acteur que s’extérioriseront les émotions les plus subtiles de l’âme humaine.
— Le cadre dans lequel vous jouez, influe-t-il sur l’intensité de vos émotions artistiques?
— Considérablement! Je n’oublierai jamais la petite histoire suivante: Un jour, à Moscou, nous allons jouer les Romantiques, d’Edmond Rostand, dans le cadre admirable de la nature, qui était un décor rêvé. Ce fut un four retentissant. La clair de la lune, le murmure des feuilles, tout nous gênait. Les voix ne portaient pas, les répliques se perdaient. J’éprouve les mêmes sensations pendant les prises de vues d’extérieurs. Le plus beau paysage ne m’enthousiasme pas et ne peut me donner la fièvre créatrice. La nature à l’écran, c’est de la photo mouvante; la vie à l’écran, c’est une création artificielle. J’estime personnellement que le cinéma, quoique différant fortement par sa technique et ses formes extérieures de l’art théâtral, est, par son essence ainsi que par le procedé de sa création, identique au théâtre. Il suffit à un artiste, touché par la flamme sacrée, d’oublier tout pendant la prise de vue et de créer comme sur la scène, par chacun de ses muscles, par l’interrogation muette ou la douleur expressive de ses yeux. Le cinéma est muet, mais il a une figure, véritable miroir de l’âme. Dans le cinéma, le principe essentiel de technique est le silence absolu et un rythme extérieur très précis; quant au principe de la création, il est basé uniquement sur les poses, de légères nuances d’expression rendant la psychologie intérieure du personnage et ses contradictions.
Le cinéma peut atteindre par son silence les sommités de l’art classique, égalent par son monochronisme la pureté de la sculpture. Les paroles sur l’écran sont aussi peu esthétiques que la peinture sur une œuvre de sculpteur, et je crois fermement que le temps est proche où tous les scénarios seront écrits suivant ce principe.
Une dame m’a dit, un jour, que dans les scènes d’extérieurs les chevaux et les chiens sont les meilleurs acteurs: ils sont tout à fait “comme dans la vie”; eh bien, ce “comme dans la vie” est pour moi le plus terrible ennemi du cinéma.
— Quel est, de ceux que vous avez interprétés, le film que vous préférez?
— Le Brasier Ardent, à cause des caractères et des contradictions des personnages. J’essaie toujours de saisir les véritables traits des hommes et porter à l’écran la face de la vie, mêlée aux drames les plus intimes. Et j’ajouterai que, si ce plan avait été tel que je le voyais sur mon écran mental, cela aurait pu être pour moi le meilleur de mes films.
Le crépuscule est tombé. Nous sommes place de la Concorde. Mosjoukine freine alors brusquement, et silencieux, les coudes appuyés sur le volant, contemple l’Arc de Triomphe, derrière lequel le soleil couchant dresse un léger voile de pourpre. Mosjoukine est aussi poète.