Torino, dicembre 1914. L’Ufficio Centrale di Revisione Cinematografica del Ministero dell’Interno, rende noto a tutte le Case fabbricanti di films di astenersi dal presentare alla Censura, per il visto di approvazione, tutti quei lavori sullo stile di Fantomas, Rocambole, Zigomar e simili, perché verranno d’ora innanzi senz’altro vietati.
E noi plaudiamo sinceramente a questa giusta decisione, perché ormai tutte le Case, seguendo una deplorevole pista, si erano date al genere avventuroso e poliziesco, screditando la nostra produzione sia in Italia che all’estero. (La Vita Cinematografica)
La censura cinematografica in un articolo della Gazzetta del Popolo
Torino, 31 gennaio 1915. D. C. Eula, in un suo lungo articolo, comparso nella Gazzetta del Popolo del 14 Gennaio, prospetta al pubblico la questione di ciò ch’egli chiama tardivo, ma saggio provvedimento: la draconiana proibizione, cioè, d’ogni lavoro sullo stile di Fantomas, Rocambole, Zigomar e simili. Pur consentendo in massima a talune buone ragioni e lodevoli apprezzamenti dell’articolista, siamo costretti ad alcune obiezioni di carattere sostanziale: obiezioni che ci sono dettate dalla lunga pratica dell’industria e del mondo cinematografico.
Il ritenere dannose per la gioventù le cinematografie, fatte a base di coltello o di adulterio, è quanto altra volta noi stessi abbiamo sempre convenuto, tanto più se tale genere di spettacoli non sia informato a nessuna ragione artistica e non esca perciò dall’ambito del volgare romanzo di appendice. Ma il signor Eula non ha certo notato, nella sua lunga disquisizione — ci permetta di dirlo — un poco preconcetta, che il provvedimento della censura non si arresta alle eccezioni, ma abbraccia tutto quel genere di spettacoli che non sono punto delle riproduzioni volgari del delitto o del male se pure il delitto o il male c’entrino come supplementi, e assume così l’aspetto di una rigorosa limitazione alla fantasia degli autori, tale da rendere non lievemente arduo il loro compito e quello dei direttori stessi.
E, poiché egli considera la questione anche dal punto di vista antropologico-criminale, ci permettiamo di far osservare al Sig. D. C. Eula che talvolta indicare anche al fanciullo la via del male può essere elemento necessario se non indispensabile per insegnargli a sfuggirla. Tutto sta nel come il soggetto, che può — ne conveniamo — riuscire altrimenti dannoso, viene svolto dalla perspicacia dell’autore.
È ovvio che il portare sullo schermo, come del resto sulla scena, il tipo tradizionale del delinquente in opposizione al tradizionale tipo dell’eroe, se quest’ultimo, nello svolgimento della sua parte è messo in tal luce da renderlo caro e simpatico agli occhi del pubblico, l’antagonista sarà senza dubbio destinato al disprezzo del pubblico stesso. Chi non ricorda nel nostro buon vecchio teatro popolare l’indispensabile tipo del tiranno? E chi non ricorda l’ira dell’auditorio sempre rivolta contro di lui?
Le buone folle dei tempi passati non attendevano forse all’uscita del teatro l’attore che aveva rappresentato la parte truce del dramma per rivolgerli, dimenticando che la sua personalità antipatica di delinquente cessava nel momento in cui egli lasciava il palcoscenico, le espressioni più o meno tangibili del proprio disprezzo? Se quella folla appariva indignata a tal punto contro l’autore del delitto, come si può pensare seriamente che essa potesse trarre dall’audizione del dramma l’ammaestramento d’imitare il delitto stesso?
E crede il Sig. Eula che il pubblico del cinematografo sia molto diverso da quello dell’Arena?
O, poiché i prezzi dell’uno non sono dissimili da quelli dell’altra, non crede piuttosto che l’uno e l’altro si equivalgano almeno?
Ma non vogliamo aver l’aria di fare dell’inutile accademia e tanto meno della polemica: ritorniamo perciò al rigore dell’argomento.
La protesta dei cinematografisti italiani non è vero che sia basata soltanto sullo spirito speculativo dei medesimi, né sarà difficile all’ufficio di censura leggere tra le righe di essa qualche cosa che è sfuggito al nostro egregio collega. Questo qual cosa è appunto un certo malumore verso il Governo che colpisce continuamente la nostra industria stessa fosse un male anziché un bene.
Non dimentichi il Sig. Eula che la proibizione attuale viene a poca distanza dell’altro provvedimento, che non parve meno eccessivo, della tassa sui cinematografi. Tutto ciò che cosa prova? Che si vuole, anziché agevolare, nuocere alla cinematografia e non si comprende o non si vuol comprendere che tale industria, avendo posto in Italia profonde radici, non si può ostacolarla senza venir meno ad un interesse veramente e propriamente nazionale.
Riepilogando: Non abbiamo nulla in contrario a che anche il recente provvedimento in massima rimanga; quello che ci preme invece è che sia emanato in modo meno vasto, e cioè che pur rimanendo l’usbergo alla morale, così validamente patrocinata dal Sig. Eula, non tolga per questo quella libertà di pensiero, d’azione e di fantasia che sono patrimonio indispensabile della troppo affannata classe dei soggettisti. (La Cinematografia Italiana ed Estera)
Roma, Cinema Modernissimo, 5 dicembre 1914, ore, 10,45.
Un numerosissimo ed eletto pubblico d’invitati assistette ieri sera all’attesa première del grande romanzo cinematografico di Matilde Serao La mia vita per la tua !
Le due magnifiche sale del Modernissimo, letteralmente gremite, presentavano un aspetto imponente.
Diamo la trama del soggetto:
Giorgio Conte Di Granville, cugino dei duchi di Roger Ferry, avrebbe dovuto ereditare dallo zio conte di Vauchamps, dieci milioni che il conte, disgustato dalla condotta scapestrata di Giorgio, ha invece lasciato ai Roger Ferry. Una fatalità tragica sembra incombere sulla casa di costoro e sulla loro ricchezza. Una sera d’estate mentre essi tornano da un ballo, lo chauffeur Charles, entrato da breve tempo al loro servizio, lancia a corsa folle l’automobile dei duchi: invano questi richiamano Charles a una velocità più prudente: la macchina precipita e travolge Edmea e Gontrano di Roger Ferry, uccidendoli sul colpo. Dello chauffeur nessuna traccia.
Restano tre orfani: Andrea segretario d’Ambasciata, Gastone pittore e Arletta quindicenne.
Qualche giorno dopo i tre sono raccolti per la lettura del testamento. Giunge anche, severissimo nell’aspetto, Giorgio Di Granville. Prima di entrare egli ha fatto nascondere, nel bosco intorno alla villa, una donna bellissima e misteriosa, Elena di Soubise.
Alla presenza di Jean Callot, intendente generale della casa ducale, si legge il testamento. Metà della fortuna è per Andrea, il resto agli altri due orfani: per Giorgio Di Granville una rendita annua di ventimila lire. Giorgio accetta glacialmente, ma giunto presso la donna che lo attende nascosta, egli da sfogo alla sua collera:
— Sono miei nemici; debbono sparire !
L’ingiunzione terribile cade su Elena che vive, schiava della sua volontà e che è legata all’uomo dalle vicende di un losco passato.
I due spiano gli orfani uscenti: quando passa Andrea di Roger Ferry, Giorgio mormora tra i denti alla donna:
— È il nemico maggiore !
Arletta di Roger Ferry è una fra le più graziose allieve del Collegio delle damigelle nobili che sorge in un’amena collina di Roma. Tutti l’amano; superiori e compagne, ma ella è una creatura colpita da invincibile tristezza. La tragica morte dei suoi genitori, la solitudine in cui vive, perché i fratelli non vengono spesso a vederla, la paura misteriosa della vita, tutto questo la induce a pregar molto, a darsi a grandi pratiche religiose. Ella ha una sola confidente: Clara Formont, una giovanissima maestra di musica, che è giunta nel Collegio quell’anno, con fortissime raccomandazioni. Costei, con parole affettuose, le suggerisce di abbandonare il mondo e darsi a Dio: solo nel Cielo ella ritroverà la serenità. Quando Arletta dichiara ai suoi fratelli e al suo tutore Jean Callot, che vuol farsi monaca, lasciando la sua fortuna a loro due, i fratelli inviano il tutore in Collegio, a dissuadere la ragazza, ma la esaltazione dolorosa di Arletta non conosce ostacolo; Jean Callot, disperato, sgomento, chiede: Ma chi ti ha indotto a questo ?
— Un Angelo, esclama Arletta: Clara Formont, la mia maestra di musica.
Callot cerca di vedere costei. Impossibile ! Un telegramma ha chiamato a Parigi la maestra di musica ed essa è partita senza lasciare traccia di sé. Arletta diventa monaca. Il primo dei Roger Ferry è scomparso dal mondo.
Gastone, il secondo dei fratelli orfani, studia pittura a Parigi. Vive la vita degli ateliers fra pittori, scultori e modelli.
Un giorno il suo grande maestro Paul Cabanis lo presenta ad Anna Maria Zankowska. Chi è ella ? Il maestro che deve farle il ritratto sa soltanto che è polacca e, si dice, l’amante di un principe persiano: per il resto, mistero !
La sconosciuta incatena facilmente Gastone: ma nulla del mistero che la circonda si svela: ella resta un enigma.
Una sera in una festa da ballo in casa di Paul Cabanis, mentre ella minia in costume greco un’antica danza suggestiva, Gastone tenta l’estremo invito alla donna. Costei sembra commuoversi e concede un convegno nella sua villa per la notte di poi. La felicità balena su l’anima dell’innamorato. Se non che, quando egli giunge nella villa della Zankowska, non trova che un crudelissimo addio: « Parto, non mi vedrete più ! »
Gastone, disperato, si arruola volontario nella legione straniera e muore oscuro, senza gloria, in terra africana.
Il secondo dei Roger Ferry è scomparso dal mondo.
Andrea, duca di Roger Ferry, è primo segretario dell’Ambasciata francese a Roma. Egli, per quanto colpito così fieramente dalla sventura, ha opposto al dolore incalzante la sua piena giovinezza; quest’anno un flirt fra lui e la marchesa di Viel Castel lo lusinga profondamente.
Chi è la marchesa di Viel Castel ? Elena De Soubise, che si è accinta a compiere l’opera nefanda. Ma il destino è più forte della volontà e un miracolo si è compiuto: i due sono travolti da una passione senza confine. Elena è innamorata perdutamente di quella che avrebbe dovuto essere la sua vittima estrema. D’altra parte Giorgio Di Granville esercita la suggestione fatale: in due lettere egli l’avverte che l’ora è suonata per il colpo decisivo, e che Jean Callot conosce interamente i nodi della trama infernale. Bisogna agire subito e fuggire.
Elena sembra impazzita dal dolore. Nel momento stesso in cui Andrea si allontana per recarsi a colloquio con Jean Callot, ella fa olocausto della sua vita alla passione che l’ha redenta, e si uccide con lo stesso pugnale destinato al Duca di Roger Ferry. Quando Andrea ritorna dal colloquio egli trova accanto al corpo ancora tiepido della suicida, coperto di petali di rose, la parola che fa l’offerta ultima e intera: La mia vita per la tua !
(…)
La trama ci sembra ardita; è inspiegabile come una donna si faccia devastatrice d’un intera famiglia, annientando quasi per magia, uno dopo l’altro, i componenti di essa, con una preparazione instancabile.
L’azione è divisa in tre parti, ma assume l’aspetto di tre episodi quasi distinti, e risente troppo della forma e della prospettiva letteraria, nelle quali l’epilogo viene a riannodare i diversi capitoli, e completare nell’immaginazione di ciascun lettore una concezione tutta individuale.
Nel lavoro della Serao, infatti, ciascuno dei tre episodi fa a sé (specialmente il terzo, che risente tutta la situazione psicologica del Retaggio d’odio 1), poiché il secondo elemento principale del lavoro, il conte di Granville, non prende parte preponderante nell’epilogo della tragedia.
Anche la grande scrittrice napoletana dovrà convenire, dopo aver vista la traduzione del suo lavoro romantico in forma proiettiva, che il bozzetto cinematografico è cosa che va studiata più profondamente, per non incorrere in slegamenti ed in illogicità.
Elena De Soubise agisce in tutto il lavoro sotto il mefistofelico influsso del conte di Granville, ma lo spettatore non riesce a comprendere il motivo e la ragione di questa cieca e criminale obbedienza. Perché Giorgio può tanto su Elena ? Né una scena, né un titolo ci spiegano questo mistero, che rimane per noi un enigma.
Altre sono le lacune, che noi osserveremo meglio e più dettagliatamente in seguito; per ora ci basta avere accennato alle principali.
La messa in scena è molto curata, ed è frutto evidente di grandi dispendi a cui si sono assoggettati volentieri gli editori, signori Coscia e Xilo, pur di raggiungere una vera signorilità e sontuosità di ambienti. Si sarebbero potuto scegliere, però, esterni più diversi. È vero che l’azione si svolge a Roma, ma ci troviamo troppo spesso a Villa Borghese e al Pincio. La scelta, poi, del Palazzo di Giustizia come abitazione di un ricco signore, ci sembra un po’ esagerata !
Il combattimento in Africa è un po’ meschino. Certe azioni, quando non possono riprodurre con adeguata verosimiglianza, sarebbe bene evitarle.
Il Ghione è anche caduto spesse volte nella incoerenza dell’abbigliamento degli artisti: in scene a distanza di ore e di giorni, osserviamo ricche pellicce sostituite da leggere toilettes estive, per tornare da queste alle pellicce di prima !
La scena della rocambolesca visita di Gastone al Palazzo della Zankowska può rasentare quasi il comico !
L’interpretazione in complesso è buona: Maria Carmi è più bella e più espressiva, e molto meno manierata di come l’abbiamo vista in altri lavori: la sua arte ha migliorato nell’adattamento delle sue molteplici e peculiari qualità alla cinematografia.
Il Carminati ha ottenuto un caldo successo: noi possiamo molto attenderci da questo giovane; la sua arte è stata misurata, ma piena di efficacia, specialmente nella scena impressionante della morte di Elena.
Anche il Collo sta migliorando, e abbiamo notato in lui maggiore e più calda espressione.
Del Ghione bisogna pur dire parola di lode perché è stato valoroso come interprete e assai volenteroso come metteur en scène.
La fotografia è veramente buona, sia come inquadramenti, che come tecnica. Ma ne va dato anche merito alla Cines, che curò lo sviluppo del negativo e la stampa, con accuratezza e diligenza.
Per concludere queste brevi ed affrettate note d’impressione, diremo che i nomi della Serao, della Carmi, del Ghione e del Carminati danno affidamento che La mia vita per la tua ! potrà avere un certo successo finanziario, se non ha potuto raggiungere completamente quello artistico.
Il pubblico eletto che assisteva a questa importante première, rimase alquanto freddo.
Massimo (La vita cinematografica)
1. Retaggio d’odio è un film di produzione Cines, soggetto di Alberto Fassini e messa in scena di Nino Oxilia, interpretato da Maria Carmi e Pina Menichelli, uscito nei primi mesi del 1914.
Emilio Ghione, nelle sue memorie, afferma che Donna Matilde fu veramente entusiasta del risultato e… potete leggere altro qui: Si gira La mia vita per la tua
Secondo Denis Lotti, che nel corso della sua ricerca su Emilio Ghione ha avuto un accesso privilegiato alle riservatissime informazioni sulle copie conservate negli archivi, il film risulta scomparso. Ma non perdiamo la speranza di ritrovarlo: « tutto è là fuori che aspetta », come direbbe zio Henri (Langlois)
E per finire, chissà se Massimo — l’autore della recensione — secondo il quale « è inspiegabile come una donna si faccia devastatrice d’un intera famiglia, annientando quasi per magia, uno dopo l’altro, i componenti di essa, con una preparazione instancabile » avrà potuto vedere qualche anno dopo un certo film di François Truffaut interpretato da Jeanne Moreau…
Innanzi tutto è doveroso fare un’assai lusinghiera constatazione: malgrado la guerra e le ansie causate dai ripetuti annunzi di arrivo dei nostri cugini — i tedeschi — arrivo che ormai ritarda oltre ogni convenienza sociale, i cinematografi londinesi continuano a fare affari d’oro. Non solo essi non risentono i danni della guerra, ma, anzi, ne hanno tratto profilo enorme!… Viva la guerra! grazie ad essa le principali Ditte inglesi hanno inviato sui campi di battaglia abili operatori, cha hanno girato centinaia di azioni piccole e grandi, esponendosi spesso a lasciar la pelle nell’impresa, ma che intanto ha permesso di presentare al pubblico vivide scene che hanno accesso l’amor patrio, molto di più di quanto avrebbero potuto fare cento discorsi di cento nazionalisti presi insieme. La collaborazione del cinematografo alla grande tragedia europea è stata qui enorme. Il Governo capì immediatamente quale prezioso mezzo di convincimento era lo schermo nella mente del popolo, e largamente, saggiamente ne ha fatto uso.
Il Belgio in fiamme; Reims crollata; villaggi distrutti, passarono tristemente sulla tela bianca in quadri di miseria e di desolazione, ottenendo nella loro muta eloquenza un risultato oltre ogni aspettativa. E ciò è logico; i discorsi, gli scritti, le conferenze, si basano più o meno sull’abilità dello scrittore o del conferenziere, mentre la cinematografia, nella nuda esposizione dei fatti, colpisce direttamente l’anima senza l’aiuto di alcun mezzo artificiale… L’ho visto coi miei propri occhi!…
Oltre a queste films dal vero (ve ne sono una infinità ed interessantissime tutte), contribuiscono a completare i programmi i soliti drammi, ma anche essi, nella loro enorme maggioranza, con fondo guerresco: La medaglia disonorata, Il Ministro del Re, Entro le linee nemiche, Per il Re e per la Patria. Non mancano anche le comiche: La cattura del Kaiser, eseguita da Pimple (il Cretinetti inglese), che dopo mille peripezie riesce a scoprirlo sotto le spoglie di un autentico Attila, poco calzato e vestito.
Malgrado la guerra, le fabbriche inglesi hanno continuato la loro produzione, previdentemente pensando che lo stock mondiale non avrebbe tardato a esaurirsi. E ciò incomincia ad avverarsi. A Parigi, per esempio, le films mancano quasi completamente… gli inglesi provvedono. Anzi parecchie fabbriche nostre hanno già inviato viaggiatori speciali in Francia per agevolare la conquista del mercato, che sarà ben lieto di essere conquistato, essendo stata nulla la sua produzione negli ultimi mesi.
Vi è qui una marcatissima tendenza verso la riduzione del metraggio, e ciò a differenza dell’Italia, dove continuano ad incontrar favore le film chilometriche. Oltre alle films guerresche, incontrano favore quelle a soggetto molto forte, dense d’incidenti sensazionali e mancanti completamente di paesaggi e scene giocate, che al pubblico qui non piacciono.
In passato si importava in Inghilterra una cifra assai rilevante di films tedesche. Ciò è finito e forse per sempre. Sarà bene che i fabbricanti italiani tengano d’occhio questo fatto; essendo l’industria italiana assai favorevolmente conosciuta sul mercato inglese, non sarà per essi difficile prendere il posto che rimane vuoto per l’assenza dei concorrenti di ieri.
Tutto il mondo cinematografico nostro prende attivissima parte alla lotta per la difesa della patria e del diritto comune. Ingenti somme furono versate in soccorso dei profughi belgi; moltissimi di essi sono alloggiati nelle fabbriche stesse e nelle ville dei proprietari; una parte delle entrate delle sale cinematografiche inglesi è devoluta allo stesso scopo; una rivista di cinematografia raccolse in tre settimane l’enorme numero di 381.745 sigarette per inviare ai soldati inglesi combattenti, e quando leggerete questa, il mezzo milione sarà raggiunto. Molti cinematografisti di ogni ramo si sono arruolati volontari e sono partiti. La Cinematografia, la più giovane delle industrie artistiche, ha ricevuto grazie a loro, il battessimo di sangue sul campo dell’onore.
W. Clark (La vita cinematografica, Torino 7 dicembre 1914)