Intervistare i ministri non è più una cosa tanto difficile come lo era qualche anno fa. Si può abbordare, per esempio, l’on. Meda quando è alle prese con qualche prediletta « bistecca » al ristorante Fagiano. Lo si può fare con facilità entrando in argomento a traverso una polemica…gastronomica.
Difficilissimo è poter parlare con quelle impertinentissime dive che corrono sulle bocche della più parte del pubblico, esaltate e discusse, come sulle instancabili labbra dei giornalisti, gli avvenimenti più interessanti della giornata.
L’intervista che regalo ai lettori è frutto di una mia rara pazienza.
Sono riuscito a scovare Anna Fougez, benché ella non si nasconda in un favoloso giardino incantato come le fate della favola, ma in un villino tutto grazia e gentilezza in fondo a via Alessandria, pochi giorni prima della sua partenza.
Il numero incalcolabile di sartine, di dattilografe, di ammiratori stilizzati e incaramellati sanno che il villino rossigno è l’esilio prediletto della cantatrice; sanno altresì che l’accesso è enormemente difficile.
Alla stessa maniera come tutti conosciamo il Quirinale senza, peraltro, poter parlare con la Regina prima di essere passato attraverso un manipolo di armati e una interminabile sequela di elegantissimi… burocratici.
Eppoi, dopo il furto patito, Anna Fougez è serrata da una duplice cintura di cancelli.
Nè più nè meno come Santa Chiara che ossequente alle ladronerie dei suoi tempi, costruì in bronzo le porte della sua casa.
Dopo un colloquio alquanto vivace, con una cameriera non più bella, a traverso la prima inferriata; il primo ad essere intervistato fui proprio io che dovetti non solo declinare le mie generalità ma accompagnarle di titoli immaginari per sostituire all’incredulo cicaleccio ancillare un qualche rispetto per la mia modestissima persona.
Avendo al mio attivo una discreta conoscenza della psicologia ancillare — oh, serve amorose, compagne delle mie passeggiate studentesche sotto i più scuri archi dell’antichità dell’Urbe — non durai molta fatica a farmi promettere che le soavi e rosee orecchie di Anna Fougez avrebbero ascoltato il mio nome e lo avrebbero ricordato se il tempo non avesse cancellato dalla sua memoria le cene che ella — dopo i trionfi del Trianon — veniva a consumare nel «bar» del «Tempo» tra uno stuolo di giornalisti ammiratori della sua gaiezza e del suo appetito.
Qui la memoria mi si vela. Anna Fougez non mi aveva dimenticato: ella che è così propensa all’ oblio!
All’antistrada aggiunsi una buona dose di anticamera in un salottino dorato dove spiccavano sul giallo delle pareti sette rose rosse come la sua bocca canora, da un’anfora tra etrusca e giapponese.
E proprio quando ero più assorto a considerare il gusto della Fougez — trillante in sordina — ella mi apparve tra le portiere di seta gialla con quel suo bellissimo viso di sfinge assai più bianco sulla nuova capigliatura bruna. Già! Anna Fougez non è più bionda.
I maligni dicono che la sostituzione del colore dei capelli è da ricercarsi nel suo prossimo matrimonio. Io che non sono maligno dico che ella ha voluto dare alla sua bellezza quel fascino che la natura — più che l’artificio — le aveva accordato.
Mi strinse la mano guardandomi — com’è suo costume — col capo retto e con le palpebre abbassate sulla lucentezza degli occhi.
E mi indicò la poltrona con lo stesso gesto misurato di chi faccia una non comune concessione.
Discorrendo divenne poi più cordiale.
— Avete abbandonato il « varietà?
— Tutt’altro. Ho parecchi contratti in corso per Roma, Napoli, Milano e Torino.
— E vi proponete?
— Di eseguire, oltre. al mio nuovo repertorio, un interessante numero di danze che avranno uno spiccato carattere di originalità.
E qui mi fece osservare un magnifico libro di non ricordo più quale autore. Riproduzioni di bassorilievi egizii, greci, romani. Un interminabile elenco di spliti, di guerrieri, di danzatrici.
— E traete da queste figure i motivi mimici per le vostre nuove danze?
— Non precisamente. Ma completo la preparazione necessaria con un certo corredo di classicità.
E mi sorprese la sua competenza in, una materia astrusa — almeno per me — come questa. Mi parlò del valore del ritmo musicale sulla danza intesa come espressione esteriore della educazione musicale del movimento. Un cumulo di cose che non vi so dire. Anche perché — mentre parlava — io ero assorto a mirarla per quella sua mentalità fisionomica che le farà vincere le ardue prove della scena muta verso la quale è portata dalla sua sensibilità squisita.
E fu così che venimmo al sodo.
— E che fate per il Cinematografo?
— Ho un contratto per cinque films di cui due son finite di già. E conto di lavorare ancora. Forse tutta la mia attività sarà assorbita dall’arte muta dove io intendo portare delle innovazioni di indole strettamente artistica.
— Cioè?
— Su questo permettetemi il riserbo più assoluto. È un mio progetto che, per ora, nel lavoro già fatto non ho nemmeno attuato. Lo farò, quando mi sarà lasciata un po’ più di libertà dagli impegni già assunti.
Espressi il desiderio di visitare la sua graziosa casa ed ella non fu aliena dall’accontentarmi.
Lo studio mobiliato con una gentile severità mi piacque assai.
Mi misi a guardare i libri.
Erano, naturalmente, i prediletti.
E la agilissima Fougez — che mano mano mi trattava con maggiore cordialità — mi parlò dei libri suoi con un così affettuoso accento come di bambini.
— Quale fra tutti i prediletti, prediligete?
Mi porse la « Vita degli Insetti » del Fabre. Non dimenticherò il caldo accento di passione col quale mi parlò dei piccoli esseri che vivono « come se fossero uomini ».
Deprecò gli uomini per le farfalle, esaltò gli scarabei e le libellule.
E credo che ella ami più gli animali che gli uomini, animali anch’essi.
Non so perciò come s’è regolata nella scelta, poiché — io non ci credo — si dice che si sposerà. Guardai che il libro era stato offerto da « un pastore provinciale » e pensai che fra gli uomini, che l’agile cantatrice spesso irride, egli era stato certo il meglio quotato per aver dato un consiglio così meravigliosamente eseguito.
Roma, novembre 1922.