
Alessandro Manzoni era consueto affermare che nel mondo si parla e si scrive d’amore almeno « settecento volte di più di quanto non sia necessario ai bisogni della nostra riverita specie ». Quali mai sarcastiche diffide sarebbero salite alle sue labbra se avesse potuto assistere alle esibizioni erotiche dell’aurora del nostro cinema!
Gli spettacoli erano allora preceduti da un grande scialo di manifesti murali raccapriccianti a base di fiamme, di precipizi, di cordigliere scalate da donne trasportate sulla groppa di demoni, listati in rosso e nero, centinaia di distributori di volantini ossessionavano i passanti con il titolo tentatore, ripetuto all’infinito: Perdizione! Tentazione! Femmina bionda! L’agguato! Grandi palme ventilavano l’ingresso della sala; dei fattorini, inguainati in uniforme nocciola o pistacchio, la testa inchiodata in un berretto a sottogola si sguinzagliavano qua e là; qualche impresa più raffinata aveva scritturato un moretto, che sorrideva allineando i candidi denti; un grande sciabordio di violini che intercalavano, in una babelica confusione, la Preghiera d’una Vergine, l’Ave Maria di Gounod, la sinfonia della Semiramide o la marcia dell’Aida, giungeva dall’interno. E Femmina bionda veniva lanciata come un liquore di nuova marca: non era facile suscitare l’interesse attorno a spettacoli che, da principio non appassionavano che i ragazzi, i soldati e le serve.
Sullo schermo ridottissimo e tremolante come per una pioggia di cavallette, si proiettava la lotta greco-romana dell’amore, sostenuta fra colluttazioni e violenze inaudite da figure allucinate e cincischiate, da un confuso bailamme di dorsi scollati e levigati, di frak tragici, di lampadari orientali, di girandole da veglione, di vasi da sciampagne, di battaglie di fiori, di mascherate veneziane. Attori e attrici smorivano nella soffocazione teatrale marmorea d’un lusso da satrapi. Le bocche segnate dal vizio, i veleni del piacere, i supplizi, i baccanali della lussuria, avvampavano le fantasie. Le donne non parlavano, ma imprecavano, gli uomini sogghignavano e ruggivano, gl’innamorati rissavano o si abbattevano esangui nello sparato ordinato ad un camiciaio famoso, incalzate dalla Basilisa spietata, che si contorceva e bolliva, nel suo involucro serico, come un giaguaro nella giungla.
La vita appariva, in quei film, come una rassegna interminabile di feste di beneficenza, di banchetti, di crociere in Oriente, di scampagnate automobilistiche: la somministrazione dell’acqua e del gas pareva sostituita da un’Azienda municipale del Whisky e della Borgogna. Era l’eterno dramma della fanciulla traviata da una madre cupida; e che scivolava, per colpa di questa fatalità, nei bassifondi del mercimonio. Era l’eterno dramma dell’artista cui i pregiudizi sociali vietavano di coniugarsi legalmente coll’uomo del sogno e che si convertiva perciò in una spaventosa macchina di distruzione. Era l’eterno dramma dell’avventuriero che sogna di riscattarsi, ma veniva dalla fatalità risospinto alla roulette ed al tabarin.
Film come La Falena o L’amor mio non muore, come Cabiria e Odette, come La donna nuda o Malìa inducevano nel pubblico un delizioso panico erotico. Quale nostalgia suscitavano nei figli di famiglia sulla soglia della laurea o del fidanzamento ufficiale quelle donne micidiali come bombe a orologeria! Quali sussulti provocavano nei farmacisti, negli alopecici funzionari di questura, nei carabinieri infradiciati dal sudore e nei pompieri di servizio quelle creature dagli strascichi lunghi come comete, e dalle labbra refrattarie ad ogni bevanda che non fosse lo sciampagna, dalla pelle borchiata di armille e di pesantissimi bracciali, che spezzavano coppe di cristallo di rocca contro le ginocchia e tiravano di pistola meglio della polizia scientifica! Quale “sovvertimento dei sensi” scatenavano nelle mogli bellocce affiancate da mariti impiegati all’Annona od al Catasto quei bellimbusti spiritati e stupefatti, refrattari ad ogni abito che non fosse il frak e ad ogni veicolo che non fosse l’automobile! L’immaginazione gongolava dietro a quel lusso babilonese, dietro a quelle corriere in gondola, dietro a quegli omicidi di banchieri, dietro a quegl’indeterminabili schieramenti di camerieri semi prosternati. Quell’epoca placida concepiva l’adulterio come una spedizione punitiva e l’alcova come un campo di battaglia.
Le dive di quel tempo avevano grandi bocche armate da sorrisi insondabili ed ostentavano un gran digradare di clavicole e di seni opalescenti, azionati da morbidi pistoni voluttuosi. I divi avevano tutti la fronte pallida come il riso al latte, fisionomie febbrili ed emaciate. Se fossero, nell’intimità, divoratori di bistecche al sangue, non saprei assicurare. Influenzati dalla setticemia dannunziana, questi esseri spolpati si lasciavano adescare, insieme col loro ricco assortimento di lunghe vesti da camera e di marsine, da donne bellissime e insaziabili che li macinavano come pula nel crivello della loro aspra lascivia. Furoreggiavano, nel primo decennio del secolo, donne letterarie come Salomé e la Faledra, come Conchita e come Nanà. E di rimbalzo andavano per la maggiore le “creature falcate” dagl’impuri molleggiamenti che moltiplicavano attorno a sé i dissesti a alimentavano le armerie. Se la palma aspettasse, quanto alla sinuosità ed al sesto ogivale delle reni a Lyda Borelli o a Francesca Bertini, a Leda Gys o a Maria Jacobini, non saprei dire. Tutte, venivano, però, a conformarsi sul modello adorato e funesto. Tutte dovevano atteggiarsi ad avvelenatrici nefaste e a bevitrici di sangue. E il gioco dei loro sorrisi determinava marasmi bancari e giornate di “mercato senz’affari” negli emicicli di Borsa. Furoreggiavano le principesse russe, i cobra in gonnella, le donne sbellicate sulle gambe da fenicottero di Ida Rubinstein. E piacevano per affinità complementare gli uomini strapazzati, pallidi, violenti o trasognati con tendenza al « cadavere vivente» di cui Bonnard e Capozzi fornivano i compiuti esemplari.
Galanteria servile. Un pizzico di sadismo e di masochismo. Rettangoli e parallelepipedi di scollature molli, vibratili ed andature da serpent qui danse, secondo la formula di Baudelaire. Un’intensiva saturazione di sensi vertiginosi, incatenati, abissali, incendiarii; uno sfondo di piovre e di lamprede, una tempestiva comparsa di banchieri e imprenditori, una prospettiva oscillante fra poli opposti dei quali l’uno è il vestibolo di un gran palazzo e l’altro la cella del carcere o la soffitta, un certo numero di divincolamenti, di scarduffamenti, di rabbiose colluttazioni, le luminarie del Canal Grande e gli sbruffi della Fontana di Trevi, un suicidio al ritorno da un veglione e la didascalia finale — ed essi andarono verso la felicità — questi spasmi mondani, queste esibizioni erotiche, spinte talora alla caricatura, riflettevano la preoccupata mentalità degli anni pacifici. « Noi ci ribelliamo ai piccoli mali per curvarci davanti ai mali maggiori e terribili » ha pronunziato, o pressapoco il severo Alessandro Manzoni. E solo le grandi crisi che intaccano la sicurezza ed il benessere di milioni di persone sono forse capaci di dare il tracollo agli egoismi, ai conflitti d’interesse ed alle antitesi degl’individui che paiono insolubili nelle epoche floride.
Più le cornucopie dell’Abbondanza vuotavano le loro anse sull’Europa del 1912, più l’immaginazione ingigantiva « le battaglie della vita », « la lotta delle caste » e i « conflitti degl’ideali ». In mancanza di catastrofi si coltivavano periodicamente le guerre delle alcove e si agitava lo spettro della rivalità dei sessi. L’umanità non si adatta a vivere senza brivido: ed i classici dello spavento non le sono meno cari dei classici del ridere. Ed a somministrarle questa deliziosa sensazione provvedevano allora i racconti sulle bande criminali, le paurose statistiche degli armamenti, le profezie di invisibili ma infallibili vendette anarchiche, il Grand Guignol, e, soprattutto, i terrificanti stupori dello schermo.
Lorenzo Giusso, Ottobre 1944