
Torino, Agosto 1918. È questo un film di presentazione per una giovane attrice che si nasconde sotto il nome di Thea. E pertanto occupiamoci subito di lei.
Thea è una magnifica creatura, una di quelle « forme ideali purissime della bellezza eterna », che appaiono rare sulla nostra sublunare pallottola per renderci grati al supremo fattore e… per aiutare la selezione naturale con lo spettacolo affascinante del loro corpo divino e del loro viso angelico. Bene quidem! Thea ricorda superandole, due somiglianti e famose beltà, della cinematografia: Lyda Borelli e Pina Menichelli; e questo è un bene; ma è anche un male, giacché alla somiglianza fisica corrisponde, forzatamente, una sensibilissima somiglianza di espressione, per la quale la signorina Thea avrà non poche amarezze da parte delle solite anime buone che proclameranno, anzi già proclamano, che lei scimiotteggia quelle sue compagne. Il che, sia detto subito, non è interamente vero. Thea non scimmiotteggia; Thea si muove come l’inobliabile Lyda, perché la sua figura ha con quella di Lyda Borelli una identicità sorprendente. Thea sorride con una boccuccia… piena di denti, perché il taglio della sua bocca è infantile come quello della Menichelli. Pertanto, quasi sempre, la somiglianza fisica la fa sembrare una imitatrice.
Abbiamo detto « quasi sempre» e a ragione veduta, giacché, per essere esatti e sinceri, dobbiamo ammettere che Thea qualche volta sente l’influsso di quelle sue sosia, e ciò perché ancora la giovinetta esordiente non è sicura della sua ala. Ma, poiché attraverso le varie figurazioni di Reginetta Isotta, appare chiaro che Thea è tutt’altro che un’oca, noi confidiamo che ella lascerà presto certi modi non suoi, che le son serviti come punti di appoggio per muovere i primi passi, e assumerà una forma decisamente sua. Naturalmente essa deve prepararsi ad altre amarezze, giacche una bellezza come la sua non trova facile perdono presso la poco bella massa umana. Si sentirà, ad esempio, ripetere per molti anni che recita… bello, come si diceva, con vera ingiustizia, di quella mirabile Tina di Lorenzo, la quale, nella così detta commedia da tavolino, era la più brava delle nostre attrici.
Ma Thea seguiterà a sorridere con quel suo magico sorriso di trionfatrice e proseguirà la sua strada. La quale sarà… quale essa vorrà che sia: infatti da lei sola dipende il divenire la massima attrice cinematografica, visto che alla straordinaria bellezza si accoppia in lei un ingegno svegliato: ma perché possa giungere alla meta, si ricordi che non deve posare (e notiamo subito che c’è in lei la pessima tendenza alla posa), che dev’essere sincera e vera e non preoccuparsi affatto di essere sempre in vista dell’obbiettivo, ossia dello spettatore. (Anche il farsi desiderare è una civetteria, anzi, forse, la più furba). E non creda di essere già brava, per quanto prometta di divenire bravissima. Dia quindi ascolto ai maestri, sempre, anche quando sarà giunta all’apice della sua carriera. Così soltanto avrà il suffragio dell’affetto da parte del pubblico, e questo val più che l’ammirazione per quel dono di bellezza di cui le fu prodiga madre natura.
E poiché abbiamo cominciato dalla interprete principale, ricordiamo accanto a lei Livio Pavanelli, uno dei pochissimi attori italiani che abbia capito che sia la nuova arte. Egli può competere coi migliori artisti americani, tanto per il fisico bellamente virile, quanto per l’intelligenza con che caratterizza le sue parti. In questo film le sue doti si affermano ancora una volta luminosamente. Ottimo, l’attore che impersona l’ammiraglio, quello che fa la parte del padre, buona la Fulvia Perini, e bravi, in genere, tutti gli altri.
La mise en scène è squisita di signorilità: i quadri, tagliati all’americana, abbondano, fin troppo, di primi piani, talora non richiesti né giustificati, ma che sono dei veri saggi di perfetta fotografia.
E il soggetto? E grazioso, né poteva essere altrimenti, giacché è una filiazione più che diretta di un capolavoro in cinquanta paginette, di H. De Balzac: Le Bal de Sceaux. Se non che l’autore di questo scenario, o meglio il riduttore, ha voluto farne una commediola leggera, superficiale e a lieto fine, svisando così l’opera del Maestro enorme. Tutta la verità della condotta balzachiana è qui sostituita da una evanescenza di ornamentazione esteriore, attraverso la quale non possono farsi strada i gridi umani delle creature che soffrono il più assillante dei mali: il mal d’amore. E perché rinunziare con tanta leggerezza, per non dir altro, a quel finale inesorabile ma logico e così infinitamente pietoso del testo? E una domanda che rivolgiamo alla grande Casa romana, dalla quale anche sarebbe da richiedere una maggior sorveglianza sulle didascalie che non sono davvero esempi di bello scrivere!