
La Sventatella è quel singolarissimo tipo d’artista italiana che risponde al nome di Pina Menichelli, alla quale, qualche volta, non abbiamo risparmiato i nostri appunti tutt’altro che benigni, che ella ha accolto col suo divino sorriso, e li ha anche approvati.. Poiché la Menichelli non è di quelle artiste che amino il profumo d’incenso; ama la lode — ed ha ragione — quando è approvazione di merito giustamente guadagnato, ma non ama l’adulazione stereotipata che molti le decretano soltanto in omaggio alla bellezza della donna, poco curandosi del suo valore artistico.
In Sventatella, la Menichelli è assai più umana e più vera. Leggera, disordinata, sventata nei primi atti, si trasforma con misura negli altri. La rovina del marito, che soggiace allo sleale giuoco di borsa architettatogli nell’ombra dal cugino, per vendicarsi di avergli tolta la bella e ricca cuginetta, la muta in moglie saggia e amorosa, che tutta si adopera per la salvezza del suo sposo. E quando vede che il sacrificio di tutti i suoi gioielli non basta alla bisogna, il suo amore per la sofferenza del marito, trova ampie risorse nelle stravaganze del suo spirito, che formano base del suo carattere. Inganna il cugino, lo ammalia, lo trae lontano dalla Borsa ove dovrebbe recarsi per provocare il tracollo definitivo della fortuna del suo rivale, e con grande ardimento e trovate di un sapore drammatico, gli rende la dovuta pariglia.
Le vicende di questa seconda parte della film, svariate e incalzanti, sono giocate dalla Menichelli con una misura quale finora forse non ci aveva ancora dato. Nel suo dolore, nelle sue gioie, nel suoi dispetti, appare sempre la Sventatella.
Detto questo, la critica leva gli occhiali, li pulisce e brontola fra sé e sé: « Non c’è male, anzi molto bene, purché continui ». Rimessi gli occhiali, guarda il soggetto, che si inizia con una rimembranza di Dora o le spie, e che in seguito arieggia un po’ anch’esso sul tema di Prevaricatori. Forse fu ispirato da quello, ma l’autore, appunto come ne citavamo la forma per Malìa, ha saputo dargli un’impronta tutta personale e movimentarlo con azioni episodiche di bell’effetto e dandogli per di più un lieto fine simpaticissimo.
Così non c’è da parlar menomamente di plagio.
Degli interpreti notiamo il Rossi Pianelli, pieno di signorilità ed eleganza; un vero gran signore, sincerissimo nelle scene di movimento e spontaneo quanto mai. In quelle affettuose egli sarebbe perfettamente a posto, se si trovasse nei panni goldoniani dei Dispetti amorosi, che non dimenticherò tanto facilmente, e che egli pure non sa, forse, rassegnarsi a dimenticare. Perciò nei panni di quel banchiere riesce alquanto mellifluo, data l’età virile. Capisco che anche nella vita è un po’ critica la situazione d’un amoroso a quarant’anni, quantunque sia l’età del vero amore.
E veniamo all’Arnaldo Arnaldi, l’artista meccanico, che vorrebbe essere lui. Infatti, se noi lo giudichiamo dalla precisione dei suoi atti, dalla giusta misura della sua azione, dovremmo convenire che non ha torto. Ma via! in quella scena del telefono egli vi ha posto qualche cosa di più della meccanica; vi ha posto dell’anima, e se ancora si impunta, diremo che ha molto bene animato il suo meccanismo. E bravo.
Una parola di elogio al simpatico Moreau, e una di congratulazione con chi ha inscenato il lavoro, e per la bella fotografia.
Pier da Castello
(La Vita Cinematografica, gennaio 1918)